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News
Aperta presso la Galleria Civica di Modena un’esposizione dedicata all’Io. Un percorso tra disegni, sculture e installazioni di autori classici ed emergenti.
È aperta presso le sedi espositive della Galleria Civica di Modena – Sala Grande e Sale Nuove di Palazzo Santa Margherita e Palazzina dei Giardini, Corso Canalgrande a Modena, la mostra EGOmania a cura di Milovan Farronato in collaborazione con Angela Vettese.
Organizzata e prodotta dalla Galleria Civica di Modena e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Modena la mostra propone tre quesiti universali come Chi sono? Come mi vedo? Chi mi vede? Nella cultura contemporanea l'ego è diventato talmente invadente e protagonista, talmente bisognoso di attenzioni e di continue riflessioni da imporre di soffermarvi in molti modi la nostra attenzione.
La mania di se stessi. La continua domanda su chi siamo. Lo specchio come un amore ossessivo ed estenuante. Anoressia, bulimia, dipendenze da farmaci, tic ripetuti come se fossero atti rassicuranti. Il tentativo di espandersi verso l’esterno che spesso ricade nella ricerca del proprio io. L’aggressività come risposta ai propri dubbi. Il dubbio come costante compagno della nostra persona: queste alcune declinazioni portanti della rassegna, una collettiva a tema che mescola giovani talenti internazionali e nomi già molto noti.
Con questa mostra si conferma l’impronta impressa dalla nuova direzione di Angela Vettese, secondo la quale ogni evento si propone, o si trasforma, in una occasione per riflettere su di un tema di attualità pregnante.
Dopo il problema delle differenze nel mondo affrontato da Michelangelo Pistoletto e l'indagine sulla spiritualità buddista e il bisogno di libertà di pensiero e di pratica religiosa presentato da Melina Mulas nella sua ricerca sui Lama del Tibet, giunge una sosta incentrata sulle tematiche del sé.
Da sempre l’individuo ha a che fare, dall’inizio della propria maturità, con il problema di capire chi sia: lo testimoniano un insieme di riferimenti mitologici, filosofici e letterari, dalla figura di Narciso a quella del seduttore, da Giacomo Casanova a Soren Kierkegaard, fino al pensiero di Sigmund Freud e di André Gide, alla letteratura autobiografica di Marcel Proust, Italo Svevo e molti altri grandi autori.
Oggi le domande sulla costruzione dell’identità e sulle manie che la assediano sono rese ancora più attuali - soprattutto in quella parte ricca del mondo che può permetterselo - in conseguenza di alcuni fattori: l’allungamento dell’adolescenza e cioè il periodo nel quale la persona incomincia a definire i confini della propria identità adulta; la possibilità di scegliere e di incarnare modi di esistere diversi, lontani dalla cosiddetta normalità o, al contrario il desiderio di uniformarsi ai comportamenti degli altri, come conseguenza, forse, della paura destata da tanta libertà : lo dimostra il conformismo che spinge molti adolescenti ad appiattirsi su un modello, l’attitudine che rende fertile il terreno per un consumismo tanto tribale quanto dispendioso.
La mostra EGOmania non si propone come un insieme di autoritratti e di ritratti di lettura immediata.
Ciascuna opera è stata scelta per i processi interiori che descrive, un percorso ad ampio raggio, a partire da quanto ci sia necessario il rapporto con la natura, fino alle follie a cui può spingere l’ossessione di sé.
Apre la rassegna, per esempio, il simulacro di una svastica dell’artista tedesca Katharina Fritsch che è al tempo stesso un composito candelabro funebre: la forma della scultura rappresenta in un certo senso il potenziale di morte a cui può condurre l’egocentrismo – evidente il riferimento al nazismo e alla perversione morale dei dittatori, incapaci di vedere la realtà se non come una propria emanazione.
I cani di bronzo di Liliana Moro, tutti identici e ciascuno ripetizione di sé stesso, sono un modo di raccontare, al contrario, quanto una persona possa farsi del male se continua a lottare contro sé stessa.
Le installazioni ambientali di altri artisti trasformano appunto lo spazio in una emanazione di sé in cui la persona dilaga, si insinua e impregna ogni cosa, ripercorrendo e sottolineando ciò che si fa quando si occupa un luogo.
Markus Schinwald, per esempio, colloca due enormi tende su cui sono state disegnate su fondo rosso serene scene pastorali ma anche dettagli ispirati dall’Inferno di Dante, mentre Rory Macbeth presenta piante e pietre manipolate da propri interventi manuali per parlare di sé come parte del mondo vegetale e minerale.
La mostra è costruita con la maggiore varietà di mezzi tecnici, dai circa cinquanta disegni del modenese Roberto Cuoghi ai video di Mike Kelley, dalle sculture tradizionali di Marc Quinn ai dipinti di foreste, con accompagnamento sonoro, di Ugo Rondinone.
La collettiva, per scelta, è aperta a molteplici letture per mettere in grado ciascuno di noi di poter trovare il linguaggio più adatto a descriversi.
“Mista” per eccellenza e volutamente composita, l’esposizione si avvale di prestiti prestigiosi da collezioni come la Deste Foundation di Atene e lo svizzero Migros Museum; in molti casi l’artista è stato personalmente coinvolto nella realizzazione di un’opera ad hoc.
Altrettanto volutamente la mostra congiunge opere di artisti ormai classici nel panorama dell’arte contemporanea, come Katharina Fritsch (Germania), Mike Kelley (USA), Marc Quinn (Inghilterra), Ugo Rondinone (Svizzera), Hanne Darboven (Germania) e Tim Hawkinson (USA) ad altri, selezionati tra gli emergenti sul piano internazionale. Tra questi Roberto Cuoghi e Liliana Moro (Italia); Lee Dongwook e Naneun (Corea del Sud); Rory Macbeth (Inghilterra); Anneé Olofsson (Svezia); Bjørn Melhus (Germania); Markus Schinwald (Austria). Un omaggio specifico è stato dedicato a Marc Camille Chaimowicz (Inghilterra), in fase di rilettura e rivalutazione critica.
Il catalogo/oggetto che accompagna la mostra, edito da Silvana Editoriale, racchiude all’interno di un contenitore rigido fascicoli di differente formato, dedicati a ciascun artista che, nella maggior parte dei casi, ha personalmente provveduto a progettare il proprio. Inoltre: un fascicolo contenente testi critici e un altro con citazioni filosofico-letterarie tratte da autori che a vario titolo si sono occupati del tema in oggetto.


( http://www.comune.modena.it/galleria/2006/egomania/index.html )

Ufficio stampa: Studio Esseci, info@studioesseci.net, Tel. 049.663499;
Ufficio stampa Galleria Civica, c.so Canalgrande 103, 41100 Modena
Tel. 059 2032883 - fax 059 2032932


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www.dilloadalice.it

«Gli aiuti umanitari un business? Non solo, ma spesso prevale l’interesse dei donatori»

Nei giorni scorsi la stampa estera e quella nazionale hanno dato rilievo ad alcune posizioni espresse da giornalisti e studiosi, e avvalorate da studi e ricerche, secondo le quali dietro al sistema degli aiuti internazionali in favore dei paesi in difficoltà, stanno soprattutto interessi economici, mediatici, politici di organizzazioni e governi, ma anche il bisogno di affermazione personale degli operatori.
Ne abbiamo parlato con Marco Deriu, docente di Sociologia all’Istituto Teologico S. Antonio di Bologna e di Geografia Politica all’Università della Calabria. Da oltre quindici anni, Deriu si occupa di tematiche legate ai rapporti Nord-sud. È autore di numerosi saggi e articoli, tra i quali il ‘‘Dizionario critico delle nuove guerre’’ (Emi, 2005). Ha curato il volume ‘‘L’illusione umanitaria. La trappola degli aiuti e le prospettive della solidarietà internazionale’’ (Emi, 2001). Ha in preparazione un volume sull’immaginario occidentale dei paesi del cosiddetto Sud del mondo, ed in particolare sulle rappresentazioni umanitarie prodotte dal mondo della cooperazione e degli aiuti.



Secondo alcuni (ad esempio nel caso degli interventi a favore dei paesi asiatici colpiti dallo Tsunami, come ha scritto Richard Werly), le organizzazioni umanitarie danno la precedenza ad operazioni spettacolari e di grande visibilità mediatica, puntando a prolungare la loro presenza sui luoghi del disastro anziché renderla più efficace. È una cosa che accade spesso?

È una cosa che in realtà accade sempre, perché il mondo degli aiuti umanitari è in gran parte un prodotto dei mass media. Si basa in gran parte sull’uso delle telecamere e sullo spettacolo del dolore, sulle agenzie pubblicitarie e sulle tecniche di marketing e di fund raising già sperimentate da altri soggetti del mercato. La dimensione spettacolare è profondamente legata a quella forma di intervento che chiamiamo aiuti umanitari. In questo si differenzia dalla cooperazione tradizionale che si presentava in maniera più complessa e articolata. Va anche detto comunque che per precisare il discorso bisognerebbe fare alcune distinzioni. Il mondo degli interventi umanitari è fatto di agenzie internazionali (per esempio l’Agenzie delle Nazioni Unite che si occupano di rifugiati o di aiuti alimentari come l’ACNUR o la PAM), di organizzazioni istituzionali (come per esempio la Protezione Civile o la Croce Rossa), di organismi non governativi (ONG) di grandi dimensioni (come per esempio CARE, OXFAM o Medici Senza Frontiere) e di piccole ONG spesso composte da poche persone e di diversi volontari. Le motivazioni e il funzionamento di questi soggetti possono essere diversi e non è sempre giusto accomunarli. Tuttavia mi sento di dire che con l’eccezione di qualche piccola ONG che ha mantenuto una vocazione internazionalista attenta non solo ai principi ma ai metodi e ai processi, la maggior parte dei soggetti del mondo degli aiuti funziona come un’industria dei buoni sentimenti tramite la rappresentazione del dolore e lo spettacolo umanitario.

Puoi dirci in che modo funziona, questa industria?

Le Ong e le Agenzie seguono i finanziamenti governativi e internazionali. Si fa un progetto perché c’è un canale di finanziamento. Quando ci sono dei disastri evidenti, o evidenziati dai mass media, si accendono dei finanziamenti nazionali e internazionali che forniscono grandi somme di denaro in tempi molto rapidi e con scarso controllo nel merito. Sulla base di questi finanziamenti si “inventa” un progetto, si fa una formale analisi dei bisogni - ovvero si proietta il bisogno sugli altri - e da ultimo si cercano i “partner locali” per dimostrare che si risponde alle richieste delle popolazioni locali. Funziona tutto alla rovescia e non c’è una reale pratica di ascolto e confronto con i soggetti locali. In un caso come quello dello Tsunami dove si sono mobilitati molti soldi, per molte organizzazioni umanitarie è stata come la manna dal cielo. La stessa cosa vale per i governi donatori, che tramite gli aiuti mirano ad affermarsi sul piano politico e a infiltrare propri operatori civili e militari nelle aree colpite, e specie nelle aree strategiche.

Insomma, una buona occasione per rafforzarsi…

Come ha detto con grande nonchalance il Segretario di Stato degli Usa Condoleeza Rice al Senato americano nel gennaio 2005, la catastrofe umanitaria in Asia è stata «una meravigliosa occasione di mostrare al di là del governo degli stati uniti il cuore del popolo americano. Penso che i vantaggi siano stati importanti per noi». In realtà tutti i governi hanno ragionato in termini geopolitici e per rilevarlo basta ricordare che paesi quali gli Stati Uniti, l’Australia, il Giappone, Singapore e la Malesia ne hanno addirittura approfittato per inviare propri contingenti militari nei luoghi strategici, naturalmente con “obbiettivi umanitari”. Sulla “Geopolitica dello Tsunami” è uscito un interessante libro in Italia dell’Agenzia Lettera 22, a tratti davvero impressionante.

Veniamo al profilo psicologico degli operatori. Davvero si tratta in molti casi di opportunisti o di persone in cerca d'avventura?

Gli operatori umanitari sono sia cooperanti veri e propri che volontari. I primi sono “professionisti” che guadagnano bene e che possono anche fare una carriera umanitaria. Non è raro il caso di dirigenti che vengono direttamente dal mondo delle imprese. Esistono poi diversi testi – soprattutto in Francia – che spiegano come fare carriera nel mercato umanitario. Tra questi soggetti ci sono anche degli opportunisti naturalmente, e anche molti individui cinici. Tuttavia non sono d’accordo con chi sostiene che il sistema umanitario va male semplicemente perché gli operatori sono opportunisti. È la logica che non funziona, come ho già detto prima, perché in realtà per quanto possa sembrare paradossale il sistema internazionale degli aiuti è strutturato soprattutto sugli interessi dei donatori.

Se invece si parla di volontari, il discorso cambia?

I volontari sono soprattutto giovani, che si muovono per motivazioni diverse. Alcuni vogliono sentirsi utili, vogliono fare qualcosa di importante. Altri sono alla ricerca di esperienze forti. Altri semplicemente trovano in questo ambito un senso e un significato che non trovano nelle esperienze di studio o di lavoro. Quasi tutti sono alla ricerca di qualcosa di importante senza sapere esattamente cosa.
Credo che questa grande moda che si è diffusa tra i giovani in occidente testimoni anche la difficoltà di avere esperienze esistenziali significative nei nostri contesti quotidiani. Le nostre attività di tutti i giorni sono sempre più impersonali, le relazioni fondamentali si impoveriscono sempre di più, si perdono i piccoli gesti di solidarietà quotidiana. Credo che in fondo si vada a cercare in altri paesi anche relazioni con amici o con partner o esperienze vitali fondamentali che ci mettono di fronte a temi radicali: la vita, la morte, il dolore, il coraggio, la solidarietà.

Questo è un male o un bene?

Il problema è che gli operatori occidentali, partono spesso con un sentimento implicito di superiorità, si sentono importanti perché portano soldi, merci, aiuti, tecnologie e i “valori occidentali”. Ma questo spesso impedisce di rendersi conto che a propria volta si porta anche i propri bisogni, le proprie mancanze, i propri sogni. E soprattutto questo molte volte impedisce di incontrare realmente le nostre alterità, le altre persone al di fuori degli stereotipi che riducono gli altri alla maschera della vittima e gli operatori alla maschera del salvatore.
In questa suddivisione burocratica finisce che i soggetti cui dovrebbe essere rivolta l’azione umanitaria non hanno voce in capitolo. Non è previsto l’ascolto, il confronto, il conflitto, lo scambio ovvero tutto ciò che può rendere accettabile e dignitoso per una persona il ricevere aiuto da un’altra persona.

Lorenzo Lasagna

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FRANZ PAGLIANI Politico - combattente - scienziato

Giuseppe Rocco

    Scopo di questa rubrica periodica - non sempre a regolare scadenza - è di ricordare alcuni personaggi che hanno donato all'Italia la loro intelligenza, il loro valore, la loro integrità, tutto quanto un uomo può dare per servire coerentemente un'idea e una fede. Non è giusto che i grandi esempi vengano cancellati dal trascorrere del tempo.

    Al  Sacrario della Piccola Caprera, in un assolato pomeriggio estivo di una giornata senza particolari cerimonie, ho assistito ad un dialogo tra due anziani volontari GG.FF. che passeggiavano sereni tra i cippi dell'Erta del Ricordo. Uno di essi, con fare da uomo pratico, diceva all'altro: "Ma cosa vuoi parlare ancora di certi argomenti, dopo cinquant'anni?". Il secondo - piccoletto, a torso nudo, con al collo una catenina col crocefisso - rispose: 'Guarda questa croce. Sono duemila anni che è il simbolo di una fede seguita da centinaia di milioni di uomini. Noi, che abbiamo sacrificato per la Patria i nostri giovani anni, non dobbiamo dimenticare la passione e la dedizione della nostra offerta".

    Parole semplici che mi sono rimaste fisse nella mente e mi hanno indotto a riprendere questa "trascurata" rubrica.

    In numeri precedenti ho scritto di personaggi che, per funzioni o per nome, hanno avuto maggior risonanza nel nostro mondo. Voglio ora ricordare un uomo d'eccezione che, nella sua signorile modestia, ha lasciato una profonda traccia in quanti l'hanno conosciuto e apprezzato. Franz Pagliani, politico, combattente, scienziato.

    Nel 1919, a Bologna, nel clima turbolento di sovversione latente che opprimeva l'Italia, vittoriosa ma non premiata per il suo sacrificio, il quindicenne studente ginnasiale Franz Pagliani, attratto dalle nuove idee nazionali, partecipa alla prima riunione pubblica del Fascio bolognese da poco fondato in via Farini, 11 da Leandro Arpinati. Era nato a Concordia di Modena il 5 settembre 1904, e dal padre ufficiale dell'esercito aveva assorbito il sentimento di Patria e di dirittura civile.

    Ha inizio, in quei giorni della primavera 1919, il lungo cammino sulla strada della rivoluzione nazionale, che il giovane studente percorrerà per tutta la vita e che, senza fargli trascurare gli studi e i doveri civili, lo vedrà impegnato nelle attività organizzative del Partito Fascista, sempre fedele agli ideali di Patria e di giustizia sociale.

    Legato fin dai primi tempi al capo del fascismo bolognese Arpinati, Pagliani gli rimarrà vicino anche nella disgrazia, pur condividendo l'opinione di Mussolini che l'eresia non avrebbe garantito all'ex gerarca la salvezza fisica. (In effetti, alla fine del marzo '45, un gruppo di partigiani - noncuranti degli aiuti che aveva dato ad alcuni prigionieri inglesi in fuga - trucidò brutalmente il vecchio fondatore del Fascio di Bologna).

    Il giovane Pagliani, insieme a Gian Luigi Mercuri, organizza i coetanei e costituisce il primo gruppo dell'Avanguardia Giovanile di Bologna. Collabora ai vari organi studenteschi emiliani e, rivelandosi politico accorto e fascista intransigente, diventa un organizzatore di primo piano delle attività culturali nonché delle strutture del Partito a Bologna e in tutta l'Emilia. Componente del direttorio del Fascio, Ispettore di zona, Segretario del G.U.F., Presidente dell'Istituto Fascista di Cultura, Vice Segretario Federale.

    Lo studente Pagliani non trascura i doveri civici e familiari: percorre brillantemente la carriera universitaria e scientifica, divenendo assistente del noto patologo Gherardo Forni; a soli ventotto anni, per meriti accademici, è nominato ordinario di Patologia Chirurgica all'Ateneo di Bologna, e ben presto direttore dello stesso Istituto, incarico che conserverà fino al 25 luglio 1943.

    Nonostante gli impegni accademici, il professor Pagliani non resiste alla sua passione: da politico nato, continua ad operare nelle file del Partito; viene eletto deputato nelle ultime elezioni 'democratiche" del 1934 (XIX legislatura) e confermato consigliere nazionale nella prima Camera dei Fasci e delle Corporazioni, in rappresentanza dell'Ordine dei Medici. Inoltre, ricopre la carica di Segretario Federale del P.N.F. di Modena cd infine di vice Segretario Nazionale dei Gruppi Universitari Fascisti e vice Segretario del Partito Nazionale Fascista.

    Secondo lo stile di vita dell'epoca, con la coerenza del vero italiano, l'onorevole professor Pagliani non aspetta "la cartolina rossa" e quando suona la diana della guerra d'Africa accorre alle armi. Destinato in Somalia con le truppe del generale Graziani, incaricato della direzione di un ospedale da campo, svolge anche un'attività più prettamente combattentistica e, come ufficiale di cavalleria, partecipa all'occupazione di Neghelli, guadagnandosi, per il suo coraggio, una medaglia di bronzo al valor militare.

    Rientrato dall'Etiopia, riprende l'attività accademica e gli impegni politici, ma quando gli avvenimenti lo richiedono, torna sul campo di battaglia in Russia con il C.S.I.R. (primo corpo di spedizione italiana in Russia). Tornato in Italia, riceve dal generale Carboni l'incarico di organizzare il servizio sanitario della Divisione Folgore, destinata all'occupazione di Malta.

    Al 25 luglio '43, come quasi tutti i dirigenti fascisti, Franz Pagliani viene fermato e rilasciato non essendo ritenuto pericoloso. È però arrestato subito dopo e condannato a tre anni di carcere per tentata ricostituzione del partito fascista. Rimesso in libertà dai tedeschi dopo l'8 settembre, appena possibile organizza il Fascio Repubblicano di Bologna, e Pavolini lo nomina ispettore regionale del Partito per l'Emilia, con autorità su tutte le federazioni della regione. In questa veste affronta il grave problema derivato dall'uccisione del Commissario Federale di Ferrara, Igino Ghisellini, delitto che scatenò tutti i rancori accumulati nei quarantacinque giorni di Badoglio. Pagliani, con fermezza ed umanità, riesce ad imporre la disciplina e la moderazione.

    L'azione dell'ispettore Pagliani ne accresce la stima e l'autorità in tutta la Repubblica Sociale. Il Capo dello Stato, dopo la relazione sui fatti di Ferrara, lo nomina componente del Collegio giudicante al processo di Verona contro i traditori del Gran Consiglio, nella certezza che la sua dirittura morale, unita alle sue doti umane, contribuirà a rendere più equanime il verdetto.

    Il comportamento e l'attività costante dell'Uomo costituiscono una notevole componente della ordinata esistenza dello stato repubblicano in Emilia Romagna, nonché un esempio per il resto d'Italia. Organizzatore instancabile e preciso, dirige lo sfollamento dei profughi dall'Italia centro meridionale, i quali fanno capo al punto di smistamento di Bologna. Le operazioni avvengono con regolarità sorprendente, considerate le difficoltà dei trasporti, la scarsità di carburante ed i continui bombardamenti.

    Alla costituzione delle Brigate Nere, nella nuova funzione di comandante della B.N. Mobile "Attilio Pappalardo", riesce ad ottenere il controllo dell'ordinato svolgimento della vita civile e degli approvvigionamenti alimentari. In collaborazione con le varie forze armate italiane e tedesche, contribuisce in maniera determinante a mantenere agevole la viabilità nella regione, divenuta retrofronte, fino all'ultima resistenza sulla linea di Pianoro. Per meglio conoscere la personalità del professor Pagliani, aggiungiamo che - come ricordano i suoi collaboratori di sala operatoria - continuava ad operare impassibile e tranquillo anche sotto i bombardamenti.

    In tutta la sua carriera politica, nei vari incarichi di Partito, il gerarca Pagliani - caso unico - non ha mai riscosso alcun stipendio. All'otto settembre, pur appartenendo ad una famiglia di tradizioni monarchiche, ha ritenuto di compiere il suo dovere d'italiano schierandosi nei ranghi della RSI.

    Durante i venti mesi della Repubblica Sociale, fu tra gli uomini più importanti, uno di quelli che - senza arrivare alle cariche rappresentative di governo - seppero localmente essere le colonne portanti del nuovo Stato, con la loro personalità, fermezza e intransigenza, contemperate da buonsenso e da infinita umanità.

    Quando tutto era difficile, tutto sembrava crollare, la loro presenza bastava ad infondere forza e volontà di resistenza alle varie formazioni, fino ai limiti del possibile.

    Al termine del conflitto viene catturato dai partigiani e condannato a morte, con l'accusa di partecipazione ad un fatto di cui - oltre a non essere presente - non aveva alcuna responsabilità, e per attività politica ad alto livello. La condanna sarà commutata, in Corte d'Appello, ma Pagliani resterà in carcere fino al 1950. Carcere duro, sofferto, data anche l'età matura, ma che non riesce a fiaccare la sua forte tempra.

    Riprenderà l'attività scientifica proprio nella casa penale di Perugia, dove viene incarcerato  dopo  la commutazione della condanna a morte. Il medico dell'istituto di pena - che ha potuto sperimentare la sua abilità di chirurgo, unita alla sua vasta capacità di analisi patologica - lo consulta nei casi difficili, invitandolo ad eseguire gli interventi più delicati (anche su personalità in vista del capoluogo umbro). Il professor Pagliani acquista in tal modo una larga fama, tanto da essere indotto, all'uscita di prigione, a riprendere la professione proprio a Perugia.

    Sono anni di intenso lavoro, di dedizione alla famiglia e agli studi, che gli meriteranno l'universale riconoscenza dei pazienti e la stima dei colleghi.

    Appena libero, aderisce al Movimento Sociale Italiano e ne diventa uno dei massimi dirigenti, da tutti considerato un intelligente "uomo delle radici", custode della continuità ma contemporaneamente aperto al rinnovamento, soddisfatto nel vedere un gran numero di giovani accorrere al richiamo della nuova organizzazione.

    Ho conosciuto il professor Pagliani solo nel 1985, nel corso di una riunione preparatoria alla costituzione del- l'Istituto Storico della RSI di Terranuova Bracciolini. Pur in età avanzata, era sempre lucido, sereno, convinto della validità delle nostre idee, cosciente di aver compiuto fino in fondo il proprio dovere.

    Nel maggio dell'86, ha lasciato questo mondo in silenzio, con la dignità e la signorilità di sempre. Per non scomodare nessuno, ha voluto che la notizia del suo decesso fosse comunicata dopo i funerali.

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