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News
Aperta presso la Galleria Civica di
Modena un’esposizione dedicata all’Io. Un percorso tra disegni,
sculture e installazioni di autori classici ed emergenti. |
È aperta presso le sedi espositive della Galleria
Civica di Modena – Sala Grande e Sale Nuove di Palazzo Santa Margherita
e Palazzina dei Giardini, Corso Canalgrande a Modena, la mostra EGOmania a
cura di Milovan Farronato in collaborazione con Angela Vettese.
Organizzata e prodotta dalla Galleria Civica di Modena e dalla Fondazione
Cassa di Risparmio di Modena la mostra propone tre quesiti universali
come Chi sono? Come mi vedo? Chi mi vede? Nella cultura contemporanea
l'ego è diventato talmente invadente e protagonista, talmente bisognoso
di attenzioni e di continue riflessioni da imporre di soffermarvi in molti
modi la nostra attenzione.
La mania di se stessi. La continua domanda su chi siamo. Lo specchio come
un amore ossessivo ed estenuante. Anoressia, bulimia, dipendenze da
farmaci, tic ripetuti come se fossero atti rassicuranti. Il tentativo di
espandersi verso l’esterno che spesso ricade nella ricerca del proprio
io. L’aggressività come risposta ai propri dubbi. Il dubbio come
costante compagno della nostra persona: queste alcune declinazioni
portanti della rassegna, una collettiva a tema che mescola giovani talenti
internazionali e nomi già molto noti.
Con questa mostra si conferma l’impronta impressa dalla nuova direzione
di Angela Vettese, secondo la quale ogni evento si propone, o si
trasforma, in una occasione per riflettere su di un tema di attualità
pregnante.
Dopo il problema delle differenze nel mondo affrontato da Michelangelo
Pistoletto e l'indagine sulla spiritualità buddista e il bisogno di
libertà di pensiero e di pratica religiosa presentato da Melina Mulas
nella sua ricerca sui Lama del Tibet, giunge una sosta incentrata sulle
tematiche del sé.
Da sempre l’individuo ha a che fare, dall’inizio della propria maturità,
con il problema di capire chi sia: lo testimoniano un insieme di
riferimenti mitologici, filosofici e letterari, dalla figura di Narciso a
quella del seduttore, da Giacomo Casanova a Soren Kierkegaard, fino al
pensiero di Sigmund Freud e di André Gide, alla letteratura
autobiografica di Marcel Proust, Italo Svevo e molti altri grandi autori.
Oggi le domande sulla costruzione dell’identità e sulle manie che la
assediano sono rese ancora più attuali - soprattutto in quella parte
ricca del mondo che può permetterselo - in conseguenza di alcuni fattori:
l’allungamento dell’adolescenza e cioè il periodo nel quale la
persona incomincia a definire i confini della propria identità adulta; la
possibilità di scegliere e di incarnare modi di esistere diversi, lontani
dalla cosiddetta normalità o, al contrario il desiderio di uniformarsi ai
comportamenti degli altri, come conseguenza, forse, della paura destata da
tanta libertà : lo dimostra il conformismo che spinge molti adolescenti
ad appiattirsi su un modello, l’attitudine che rende fertile il terreno
per un consumismo tanto tribale quanto dispendioso.
La mostra EGOmania non si propone come un insieme di autoritratti e di
ritratti di lettura immediata.
Ciascuna opera è stata scelta per i processi interiori che descrive, un
percorso ad ampio raggio, a partire da quanto ci sia necessario il
rapporto con la natura, fino alle follie a cui può spingere
l’ossessione di sé.
Apre la rassegna, per esempio, il simulacro di una svastica dell’artista
tedesca Katharina Fritsch che è al tempo stesso un composito
candelabro funebre: la forma della scultura rappresenta in un certo senso
il potenziale di morte a cui può condurre l’egocentrismo – evidente
il riferimento al nazismo e alla perversione morale dei dittatori,
incapaci di vedere la realtà se non come una propria emanazione.
I cani di bronzo di Liliana Moro, tutti identici e ciascuno
ripetizione di sé stesso, sono un modo di raccontare, al contrario,
quanto una persona possa farsi del male se continua a lottare contro sé
stessa.
Le installazioni ambientali di altri artisti trasformano appunto lo spazio
in una emanazione di sé in cui la persona dilaga, si insinua e impregna
ogni cosa, ripercorrendo e sottolineando ciò che si fa quando si occupa
un luogo.
Markus Schinwald, per esempio, colloca due enormi tende su cui sono
state disegnate su fondo rosso serene scene pastorali ma anche dettagli
ispirati dall’Inferno di Dante, mentre Rory Macbeth presenta
piante e pietre manipolate da propri interventi manuali per parlare di sé
come parte del mondo vegetale e minerale.
La mostra è costruita con la maggiore varietà di mezzi tecnici, dai
circa cinquanta disegni del modenese Roberto Cuoghi ai video di Mike
Kelley, dalle sculture tradizionali di Marc Quinn ai dipinti di
foreste, con accompagnamento sonoro, di Ugo Rondinone.
La collettiva, per scelta, è aperta a molteplici letture per mettere in
grado ciascuno di noi di poter trovare il linguaggio più adatto a
descriversi.
“Mista” per eccellenza e volutamente composita, l’esposizione si
avvale di prestiti prestigiosi da collezioni come la Deste Foundation di
Atene e lo svizzero Migros Museum; in molti casi l’artista è stato
personalmente coinvolto nella realizzazione di un’opera ad hoc.
Altrettanto volutamente la mostra congiunge opere di artisti ormai
classici nel panorama dell’arte contemporanea, come Katharina Fritsch
(Germania), Mike Kelley (USA), Marc Quinn (Inghilterra), Ugo
Rondinone (Svizzera), Hanne Darboven (Germania) e Tim
Hawkinson (USA) ad altri, selezionati tra gli emergenti sul piano
internazionale. Tra questi Roberto Cuoghi e Liliana Moro
(Italia); Lee Dongwook e Naneun (Corea del Sud); Rory
Macbeth (Inghilterra); Anneé Olofsson (Svezia); Bjørn
Melhus (Germania); Markus Schinwald (Austria). Un omaggio
specifico è stato dedicato a Marc Camille Chaimowicz
(Inghilterra), in fase di rilettura e rivalutazione critica.
Il catalogo/oggetto che accompagna la mostra, edito da Silvana Editoriale,
racchiude all’interno di un contenitore rigido fascicoli di differente
formato, dedicati a ciascun artista che, nella maggior parte dei casi, ha
personalmente provveduto a progettare il proprio. Inoltre: un fascicolo
contenente testi critici e un altro con citazioni filosofico-letterarie
tratte da autori che a vario titolo si sono occupati del tema in oggetto.
( http://www.comune.modena.it/galleria/2006/egomania/index.html )
Ufficio stampa: Studio Esseci, info@studioesseci.net, Tel. 049.663499;
Ufficio stampa Galleria Civica, c.so Canalgrande 103, 41100 Modena
Tel. 059 2032883 - fax 059 2032932
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www.dilloadalice.it
«Gli
aiuti umanitari un business? Non solo, ma spesso prevale l’interesse dei
donatori»
Nei giorni scorsi la stampa estera e quella nazionale hanno dato rilievo
ad alcune posizioni espresse da giornalisti e studiosi, e avvalorate da studi e
ricerche, secondo le quali dietro al sistema degli aiuti internazionali in
favore dei paesi in difficoltà, stanno soprattutto interessi economici,
mediatici, politici di organizzazioni e governi, ma anche il bisogno di
affermazione personale degli operatori.
Ne abbiamo parlato con Marco Deriu, docente di Sociologia all’Istituto
Teologico S. Antonio di Bologna e di Geografia Politica all’Università della
Calabria. Da oltre quindici anni, Deriu si occupa di tematiche legate ai
rapporti Nord-sud. È autore di numerosi saggi e articoli, tra i quali il
‘‘Dizionario critico delle nuove guerre’’ (Emi, 2005). Ha curato il
volume ‘‘L’illusione umanitaria. La trappola degli aiuti e le prospettive
della solidarietà internazionale’’ (Emi, 2001). Ha in preparazione un
volume sull’immaginario occidentale dei paesi del cosiddetto Sud del mondo, ed
in particolare sulle rappresentazioni umanitarie prodotte dal mondo della
cooperazione e degli aiuti.
Secondo alcuni (ad esempio nel caso degli interventi a favore dei paesi
asiatici colpiti dallo Tsunami, come ha scritto Richard Werly), le
organizzazioni umanitarie danno la precedenza ad operazioni spettacolari e di
grande visibilità mediatica, puntando a prolungare la loro presenza sui luoghi
del disastro anziché renderla più efficace. È una cosa che accade spesso?
È una cosa che in realtà accade sempre, perché il mondo degli aiuti umanitari
è in gran parte un prodotto dei mass media. Si basa in gran parte sull’uso
delle telecamere e sullo spettacolo del dolore, sulle agenzie pubblicitarie e
sulle tecniche di marketing e di fund raising già sperimentate da altri
soggetti del mercato. La dimensione spettacolare è profondamente legata a
quella forma di intervento che chiamiamo aiuti umanitari. In questo si
differenzia dalla cooperazione tradizionale che si presentava in maniera più
complessa e articolata. Va anche detto comunque che per precisare il discorso
bisognerebbe fare alcune distinzioni. Il mondo degli interventi umanitari è
fatto di agenzie internazionali (per esempio l’Agenzie delle Nazioni Unite che
si occupano di rifugiati o di aiuti alimentari come l’ACNUR o la PAM), di
organizzazioni istituzionali (come per esempio la Protezione Civile o la Croce
Rossa), di organismi non governativi (ONG) di grandi dimensioni (come per
esempio CARE, OXFAM o Medici Senza Frontiere) e di piccole ONG spesso composte
da poche persone e di diversi volontari. Le motivazioni e il funzionamento di
questi soggetti possono essere diversi e non è sempre giusto accomunarli.
Tuttavia mi sento di dire che con l’eccezione di qualche piccola ONG che ha
mantenuto una vocazione internazionalista attenta non solo ai principi ma ai
metodi e ai processi, la maggior parte dei soggetti del mondo degli aiuti
funziona come un’industria dei buoni sentimenti tramite la rappresentazione
del dolore e lo spettacolo umanitario.
Puoi dirci in che modo funziona, questa industria?
Le Ong e le Agenzie seguono i finanziamenti governativi e internazionali. Si fa
un progetto perché c’è un canale di finanziamento. Quando ci sono dei
disastri evidenti, o evidenziati dai mass media, si accendono dei finanziamenti
nazionali e internazionali che forniscono grandi somme di denaro in tempi molto
rapidi e con scarso controllo nel merito. Sulla base di questi finanziamenti si
“inventa” un progetto, si fa una formale analisi dei bisogni - ovvero si
proietta il bisogno sugli altri - e da ultimo si cercano i “partner locali”
per dimostrare che si risponde alle richieste delle popolazioni locali. Funziona
tutto alla rovescia e non c’è una reale pratica di ascolto e confronto con i
soggetti locali. In un caso come quello dello Tsunami dove si sono mobilitati
molti soldi, per molte organizzazioni umanitarie è stata come la manna dal
cielo. La stessa cosa vale per i governi donatori, che tramite gli aiuti mirano
ad affermarsi sul piano politico e a infiltrare propri operatori civili e
militari nelle aree colpite, e specie nelle aree strategiche.
Insomma, una buona occasione per rafforzarsi…
Come ha detto con grande nonchalance il Segretario di Stato degli Usa
Condoleeza Rice al Senato americano nel gennaio 2005, la catastrofe umanitaria
in Asia è stata «una meravigliosa occasione di mostrare al di là del governo
degli stati uniti il cuore del popolo americano. Penso che i vantaggi siano
stati importanti per noi». In realtà tutti i governi hanno ragionato in
termini geopolitici e per rilevarlo basta ricordare che paesi quali gli Stati
Uniti, l’Australia, il Giappone, Singapore e la Malesia ne hanno addirittura
approfittato per inviare propri contingenti militari nei luoghi strategici,
naturalmente con “obbiettivi umanitari”. Sulla “Geopolitica dello Tsunami”
è uscito un interessante libro in Italia dell’Agenzia Lettera 22, a tratti
davvero impressionante.
Veniamo al profilo psicologico degli operatori. Davvero si tratta in molti casi
di opportunisti o di persone in cerca d'avventura?
Gli operatori umanitari sono sia cooperanti veri e propri che volontari. I primi
sono “professionisti” che guadagnano bene e che possono anche fare una
carriera umanitaria. Non è raro il caso di dirigenti che vengono direttamente
dal mondo delle imprese. Esistono poi diversi testi – soprattutto in Francia
– che spiegano come fare carriera nel mercato umanitario. Tra questi soggetti
ci sono anche degli opportunisti naturalmente, e anche molti individui cinici.
Tuttavia non sono d’accordo con chi sostiene che il sistema umanitario va male
semplicemente perché gli operatori sono opportunisti. È la logica che non
funziona, come ho già detto prima, perché in realtà per quanto possa sembrare
paradossale il sistema internazionale degli aiuti è strutturato soprattutto
sugli interessi dei donatori.
Se invece si parla di volontari, il discorso cambia?
I volontari sono soprattutto giovani, che si muovono per motivazioni diverse.
Alcuni vogliono sentirsi utili, vogliono fare qualcosa di importante. Altri sono
alla ricerca di esperienze forti. Altri semplicemente trovano in questo ambito
un senso e un significato che non trovano nelle esperienze di studio o di
lavoro. Quasi tutti sono alla ricerca di qualcosa di importante senza sapere
esattamente cosa.
Credo che questa grande moda che si è diffusa tra i giovani in occidente
testimoni anche la difficoltà di avere esperienze esistenziali significative
nei nostri contesti quotidiani. Le nostre attività di tutti i giorni sono
sempre più impersonali, le relazioni fondamentali si impoveriscono sempre di più,
si perdono i piccoli gesti di solidarietà quotidiana. Credo che in fondo si
vada a cercare in altri paesi anche relazioni con amici o con partner o
esperienze vitali fondamentali che ci mettono di fronte a temi radicali: la
vita, la morte, il dolore, il coraggio, la solidarietà.
Questo è un male o un bene?
Il problema è che gli operatori occidentali, partono spesso con un sentimento
implicito di superiorità, si sentono importanti perché portano soldi, merci,
aiuti, tecnologie e i “valori occidentali”. Ma questo spesso impedisce di
rendersi conto che a propria volta si porta anche i propri bisogni, le proprie
mancanze, i propri sogni. E soprattutto questo molte volte impedisce di
incontrare realmente le nostre alterità, le altre persone al di fuori degli
stereotipi che riducono gli altri alla maschera della vittima e gli operatori
alla maschera del salvatore.
In questa suddivisione burocratica finisce che i soggetti cui dovrebbe essere
rivolta l’azione umanitaria non hanno voce in capitolo. Non è previsto
l’ascolto, il confronto, il conflitto, lo scambio ovvero tutto ciò che può
rendere accettabile e dignitoso per una persona il ricevere aiuto da un’altra
persona.
Lorenzo Lasagna
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FRANZ
PAGLIANI
Politico - combattente - scienziato
Giuseppe Rocco
Scopo di questa rubrica periodica
- non sempre a regolare scadenza - è di ricordare alcuni personaggi che hanno
donato all'Italia la loro intelligenza, il loro valore, la loro integrità,
tutto quanto un uomo può dare per servire coerentemente un'idea e una fede. Non
è giusto che i grandi esempi vengano cancellati dal trascorrere del tempo.
Al Sacrario della Piccola Caprera,
in un assolato pomeriggio estivo di una giornata senza particolari cerimonie, ho
assistito ad un dialogo tra due anziani volontari GG.FF. che passeggiavano
sereni tra i cippi dell'Erta del Ricordo. Uno di essi, con fare da uomo pratico,
diceva all'altro: "Ma cosa vuoi parlare ancora di certi argomenti, dopo
cinquant'anni?". Il secondo - piccoletto, a torso nudo, con al collo una
catenina col crocefisso - rispose: 'Guarda questa croce. Sono duemila anni che
è il simbolo di una fede seguita da centinaia di milioni di uomini. Noi, che
abbiamo sacrificato per la Patria i nostri giovani anni, non dobbiamo
dimenticare la passione e la dedizione della nostra offerta".
Parole semplici che mi sono rimaste
fisse nella mente e mi hanno indotto a riprendere questa "trascurata"
rubrica.
In numeri precedenti ho scritto di
personaggi che, per funzioni o per nome, hanno avuto maggior risonanza nel
nostro mondo. Voglio ora ricordare un uomo d'eccezione che, nella sua signorile
modestia, ha lasciato una profonda traccia in quanti l'hanno conosciuto e
apprezzato. Franz Pagliani, politico, combattente, scienziato.
Nel 1919, a Bologna, nel clima
turbolento di sovversione latente che opprimeva l'Italia, vittoriosa ma non
premiata per il suo sacrificio, il quindicenne studente ginnasiale Franz
Pagliani, attratto dalle nuove idee nazionali, partecipa alla prima riunione
pubblica del Fascio bolognese da poco fondato in via Farini, 11 da Leandro
Arpinati. Era nato a Concordia di Modena il 5 settembre 1904, e dal padre
ufficiale dell'esercito aveva assorbito il sentimento di Patria e di dirittura
civile.
Ha inizio, in quei giorni della
primavera 1919, il lungo cammino sulla strada della rivoluzione nazionale, che
il giovane studente percorrerà per tutta la vita e che, senza fargli trascurare
gli studi e i doveri civili, lo vedrà impegnato nelle attività organizzative
del Partito Fascista, sempre fedele agli ideali di Patria e di giustizia
sociale.
Legato fin dai primi tempi al capo del
fascismo bolognese Arpinati, Pagliani gli rimarrà vicino anche nella disgrazia,
pur condividendo l'opinione di Mussolini che l'eresia non avrebbe garantito
all'ex gerarca la salvezza fisica. (In effetti, alla fine del marzo '45, un
gruppo di partigiani - noncuranti degli aiuti che aveva dato ad alcuni
prigionieri inglesi in fuga - trucidò brutalmente il vecchio fondatore del
Fascio di Bologna).
Il giovane Pagliani, insieme a Gian
Luigi Mercuri, organizza i coetanei e costituisce il primo gruppo
dell'Avanguardia Giovanile di Bologna. Collabora ai vari organi studenteschi
emiliani e, rivelandosi politico accorto e fascista intransigente, diventa un
organizzatore di primo piano delle attività culturali nonché delle strutture
del Partito a Bologna e in tutta l'Emilia. Componente del direttorio del Fascio,
Ispettore di zona, Segretario del G.U.F., Presidente dell'Istituto Fascista di
Cultura, Vice Segretario Federale.
Lo studente Pagliani non trascura i
doveri civici e familiari: percorre brillantemente la carriera universitaria e
scientifica, divenendo assistente del noto patologo Gherardo Forni; a soli
ventotto anni, per meriti accademici, è nominato ordinario di Patologia
Chirurgica all'Ateneo di Bologna, e ben presto direttore dello stesso Istituto,
incarico che conserverà fino al 25 luglio 1943.
Nonostante gli impegni accademici, il
professor Pagliani non resiste alla sua passione: da politico nato, continua ad
operare nelle file del Partito; viene eletto deputato nelle ultime elezioni
'democratiche" del 1934 (XIX legislatura) e confermato consigliere
nazionale nella prima Camera dei Fasci e delle Corporazioni, in rappresentanza
dell'Ordine dei Medici. Inoltre, ricopre la carica di Segretario Federale del
P.N.F. di Modena cd infine di vice Segretario Nazionale dei Gruppi Universitari
Fascisti e vice Segretario del Partito Nazionale Fascista.
Secondo lo stile di vita dell'epoca, con
la coerenza del vero italiano, l'onorevole professor Pagliani non aspetta
"la cartolina rossa" e quando suona la diana della guerra d'Africa
accorre alle armi. Destinato in Somalia con le truppe del generale Graziani,
incaricato della direzione di un ospedale da campo, svolge anche un'attività più
prettamente combattentistica e, come ufficiale di cavalleria, partecipa
all'occupazione di Neghelli, guadagnandosi, per il suo coraggio, una medaglia di
bronzo al valor militare.
Rientrato dall'Etiopia, riprende
l'attività accademica e gli impegni politici, ma quando gli avvenimenti lo
richiedono, torna sul campo di battaglia in Russia con il C.S.I.R. (primo corpo
di spedizione italiana in Russia). Tornato in Italia, riceve dal generale
Carboni l'incarico di organizzare il servizio sanitario della Divisione Folgore,
destinata all'occupazione di Malta.
Al 25 luglio '43, come quasi tutti i
dirigenti fascisti, Franz Pagliani viene fermato e rilasciato non essendo
ritenuto pericoloso. È però arrestato subito dopo e condannato a tre anni di
carcere per tentata ricostituzione del partito fascista. Rimesso in libertà dai
tedeschi dopo l'8 settembre, appena possibile organizza il Fascio Repubblicano
di Bologna, e Pavolini lo nomina ispettore regionale del Partito per l'Emilia,
con autorità su tutte le federazioni della regione. In questa veste affronta il
grave problema derivato dall'uccisione del Commissario Federale di Ferrara,
Igino Ghisellini, delitto che scatenò tutti i rancori accumulati nei
quarantacinque giorni di Badoglio. Pagliani, con fermezza ed umanità, riesce ad
imporre la disciplina e la moderazione.
L'azione dell'ispettore Pagliani ne
accresce la stima e l'autorità in tutta la Repubblica Sociale. Il Capo dello
Stato, dopo la relazione sui fatti di Ferrara, lo nomina componente del Collegio
giudicante al processo di Verona contro i traditori del Gran Consiglio, nella
certezza che la sua dirittura morale, unita alle sue doti umane, contribuirà a
rendere più equanime il verdetto.
Il comportamento e l'attività costante
dell'Uomo costituiscono una notevole componente della ordinata esistenza dello
stato repubblicano in Emilia Romagna, nonché un esempio per il resto d'Italia.
Organizzatore instancabile e preciso, dirige lo sfollamento dei profughi
dall'Italia centro meridionale, i quali fanno capo al punto di smistamento di
Bologna. Le operazioni avvengono con regolarità sorprendente, considerate le
difficoltà dei trasporti, la scarsità di carburante ed i continui
bombardamenti.
Alla costituzione delle Brigate Nere,
nella nuova funzione di comandante della B.N. Mobile "Attilio Pappalardo",
riesce ad ottenere il controllo dell'ordinato svolgimento della vita civile e
degli approvvigionamenti alimentari. In collaborazione con le varie forze armate
italiane e tedesche, contribuisce in maniera determinante a mantenere agevole la
viabilità nella regione, divenuta retrofronte, fino all'ultima resistenza sulla
linea di Pianoro. Per meglio conoscere la personalità del professor Pagliani,
aggiungiamo che - come ricordano i suoi collaboratori di sala operatoria -
continuava ad operare impassibile e tranquillo anche sotto i bombardamenti.
In tutta la sua carriera politica, nei
vari incarichi di Partito, il gerarca Pagliani - caso unico - non ha mai
riscosso alcun stipendio. All'otto settembre, pur appartenendo ad una famiglia
di tradizioni monarchiche, ha ritenuto di compiere il suo dovere d'italiano
schierandosi nei ranghi della RSI.
Durante i venti mesi della Repubblica
Sociale, fu tra gli uomini più importanti, uno di quelli che - senza arrivare
alle cariche rappresentative di governo - seppero localmente essere le colonne
portanti del nuovo Stato, con la loro personalità, fermezza e intransigenza,
contemperate da buonsenso e da infinita umanità.
Quando tutto era difficile, tutto
sembrava crollare, la loro presenza bastava ad infondere forza e volontà di
resistenza alle varie formazioni, fino ai limiti del possibile.
Al termine del conflitto viene catturato
dai partigiani e condannato a morte, con l'accusa di partecipazione ad un fatto
di cui - oltre a non essere presente - non aveva alcuna responsabilità, e per
attività politica ad alto livello. La condanna sarà commutata, in Corte
d'Appello, ma Pagliani resterà in carcere fino al 1950. Carcere duro, sofferto,
data anche l'età matura, ma che non riesce a fiaccare la sua forte tempra.
Riprenderà l'attività scientifica
proprio nella casa penale di Perugia, dove viene incarcerato dopo la
commutazione della condanna a morte. Il medico dell'istituto di pena - che ha
potuto sperimentare la sua abilità di chirurgo, unita alla sua vasta capacità
di analisi patologica - lo consulta nei casi difficili, invitandolo ad eseguire
gli interventi più delicati (anche su personalità in vista del capoluogo
umbro). Il professor Pagliani acquista in tal modo una larga fama, tanto da
essere indotto, all'uscita di prigione, a riprendere la professione proprio a
Perugia.
Sono anni di intenso lavoro, di
dedizione alla famiglia e agli studi, che gli meriteranno l'universale
riconoscenza dei pazienti e la stima dei colleghi.
Appena libero, aderisce al Movimento
Sociale Italiano e ne diventa uno dei massimi dirigenti, da tutti considerato un
intelligente "uomo delle radici", custode della continuità ma
contemporaneamente aperto al rinnovamento, soddisfatto nel vedere un gran numero
di giovani accorrere al richiamo della nuova organizzazione.
Ho conosciuto il professor Pagliani solo
nel 1985, nel corso di una riunione preparatoria alla costituzione del-
l'Istituto Storico della RSI di Terranuova Bracciolini. Pur in età avanzata,
era sempre lucido, sereno, convinto della validità delle nostre idee, cosciente
di aver compiuto fino in fondo il proprio dovere.
Nel maggio dell'86, ha lasciato questo
mondo in silenzio, con la dignità e la signorilità di sempre. Per non
scomodare nessuno, ha voluto che la notizia del suo decesso fosse comunicata
dopo i funerali.
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