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Russia: il crollo del capitalismo orientale

L'ISTINTO DISGREGATORE DELLA BORGHESIA MONDIALISTA

Luca Lionello Rimbotti

Diceva Sombart che “i due opposti poli del mondo sono il temperamento bor ghese e quello erotico”: quanto il primo è sterile, vile, ristretto nelle sue monomanie acquisitive ed egoistiche, tanto il secondo è largo di respiro, attento ai sottili magnetismi, teso alle altezze della potenza esistenziale e alle conquiste ideali. Il temperamento erotico è quello che ama le affinità, che percepisce le aggregazioni cosmiche, che sente le vibrazioni subliminali della voce del sangue, che riconosce i drammi della vita e li penetra di volontà slanciata, disinteressata, libera. Eros è quella forza arcana che avvicina il simile al simile.
Il borghese, piccolo e grande, conosce gli interessi, calcola miserabilmente. L'uomo “erotico”, scheggia volitiva della tradizione, sa invece solo di sogni generosi, di tensioni all'ulteriore, di conquiste dell'Anima e dello Spirito, di gratuito dono di sé magari per un gesto, per una bella forma che per un attimo impreziosisca la vita.
Tra questi due poli opposti, tra queste due inassimilabili razze di uomini, si è spesso consumata la lotta umana per la qualità o per la quantità, per l'alto o per il basso, per il nobile o per l'ignobile.
La borghesia, abitualmente differenziata dal proletariato in virtù del suo essere classe eminentemente proprietaria e detentrice dei mezzi culturali e di produzione, in questo senso è ormai un relitto sociale e politico, eliminato dalla storia dagli stessi esegeti classisti che vollero immaginare il loro èschaton millenarista. Tutti hanno sempre saputo – tranne i marxisti – che la mobilitazione su base di classe era un presupposto concettuale, e non una possibilità concreta della storia. Il caso doloroso dell'operaismo è sintomatico. L'operaismo è vissuto di breve e tutta intellettualizzata stagione, oltre che di lotte per il pane: e nell'un caso come nell'altro, ha mostrato il lato inglorioso del fallimento. Ma anche i piccoli borghesi declassati hanno sempre patito la fame, ma con pudore e senza il coraggio di scendere in piazza: in più, agli occhi classisti, essi non erano “socialmente rilevanti”, erano considerati una non-classe…. In pochi decenni novecenteschi questo operaismo di facciata e settario è riuscito a smentire se stesso come raramente accade nella storia dei movimenti sociali, sparendo dalla scena senza un lamento e senza che nessuno se ne accorgesse.
Non appena si provò a diventare popolo, e peggio Stato, e peggio ancora sistema di politica mondiale, l'operaismo è perito negli abissi come il più fragile dei titanic ideologici, al primo contatto con la necessità di comprovare la sua tenuta sulla distanza. E i flutti tra i quali l'operaismo è stato visto scomparire alla vista sono per l'appunto quella marea liquida e montante che ha oggi nome e sostanza di borghesismo universale. Non più la vecchia borghesia nazionale, attiva e onesta, ma la sua degenerazione cosmopolita e massificata. Una simile morte per annegamento del proletarismo ha dimostrato – qualora ce ne fosse stato bisogno – che la rivendicazione dell'organizzazione politica per classi è stata molto più simile alla propaganda, al manifesto ideologico, al bluff politico, che non a qualcosa che avesse a che fare con una qualunque capacità di pensare, anche solo pensare, una rivoluzione credibile.
L'opposizione alla borghesia in quanto detentrice dell'ingiustizia sociale e dell'individualismo utilitarista, infatti, non poteva arrivare da un'altra classe, a sua volta impregnata di particolarismo e materialismo, ma unicamente dal popolo nella sua interezza e in quanto tale, e dalle sue aristocrazie politiche.
I reperti archeologici di questo operaismo settario e ottocentesco, costruito sulla mitologia della classe e sulle fissazioni marxiste, oggi sono un monumento all'impotenza del progressismo libertario, redatto a tavolino dai filosofi sociali narcotizzati dalla retorica rivoluzionaria. Oggi c'è ben altro in vista. Oggi, nella metà “benestante” del pianeta, siamo di fronte a una spaccatura oligarchica, una falda verticale che spezza in due il Primo e il Secondo mondo, dividendolo tra la casta liberalcapitalista e la massa gelatinosa dello Spiessbürgertum, quella piccola borghesia mondiale che vive nel terrore del declassamento e sotto la sferza del consumo coatto. Da una parte, c'è una ristretta minoranza di accaparratori internazionali, non legati da alcuna solidarietà, ma tenuti insieme dalla complicità nella lotta all'accumulo: lo si direbbe piuttosto un cartello interessato a manovre finanziarie criminali, che non un ordine signorile storico, del tipo dell'aristocrazia veneziana. Dall'altra parte, abbiamo la piccola borghesia snazionalizzata e in via di dissolvimento identitario, un ondivago gregge che si propone come immenso bacino per le pratiche di sperimentazione produttiva, come necessario retroterra per le politiche predatorie del capitalismo finanziario di ultima generazione, quello “trotzkijsta”. Quello che con la Bibbia in mano sta guidando alla cieca il mondo verso l'autodistruzione ecologica, economica, etnica, culturale, demografica. Qui non si ragiona più di classi, nemmeno di ceti, ma di brutali appartenenze economiche. Ci sono i ricchi, i minacciati di povertà e, nel Terzo mondo, ma non solo nel Terzo, l'enormità dei miserabili. La metà settentrionale della Terra offre l'esempio di come si possa condurre al suicidio una società che aveva impegnato numerosi secoli per strutturarsi organicamente e per pervenire, attraverso le sue conquiste culturali e scientifiche, al dominio di tutto lo spazio umano disponibile, realizzando la possibilità, per le stesse aree arretrate, di uscire dall'oscurità della non-storia e di affacciarsi con qualche possibilità alla luce del sole.
Quando questa civiltà del dominio è caduta preda della setta liberal-puritana si sono compiuti simultaneamente almeno due guasti micidiali: il tradimento, da parte della nostra civiltà, del suo ruolo storico di civilizzazione e di redenzione in cambio di quello di rapina delle risorse, da un lato, e dall'altro l'abbandono delle moltitudini meridionali del mondo al rango del mero accattonaggio, riducendo l'eredità del colonialismo a maledizione perpetua per i popoli di colore, elevati a un grottesco e irridente status di “indipendenza”: liberissimi, cioè, di morire fame, di sete e di Aids. Le moltitudini poverissime del mondo, aizzate ad abbandonare le loro economie povere e di sussistenza, ma ricche di circuiti solidali tradizionali, sospinte a inurbarsi e a proporsi come nuove masse schiavili per gli scopi industrialisti, oggi sono nello stato di semplice indigenza e ci parlano con chiarezza, meglio di qualunque propaganda, della capacità “democratica” di realizzare il paradiso in terra e di realizzare così l'eguaglianza, di tutelare la dignità umana, di promuovere i “diritti”… Di tutto questo teatro degli inganni è responsabile la borghesia come identità storico-sociale nata nelle menti alienate dei liberalcapitalisti ottocenteschi, che nel tempo assorbirono il germe giacobino, facendosene eredi e dando vita a quello specialissimo essere disumano che è l'individuo libertario, il criminale maniaco della proprietà privata (la sua, ovviamente), quello che da pacifista fa le guerre più sporche, da umanitario compie i massacri etnocidi più mostruosi programmando la miseria di massa e che da egualitario ha eretto il più vitreo regime di ingiustizia sociale, dove la minoranza ricca vive nell'inaccessibilità anche fisica e visiva nei confronti della maggioranza povera, semi-povera e miserabile.
La regressione culturale e sociale cui siamo andati incontro negli ultimi decenni è l'esito del perverso coincidere del fallimento del comunismo con il rafforzamento del capitalismo, subito respirato a pieni polmoni dai marxisti, assunto come nuovissimo verbo psichedelico, con lo stesso fanatismo con cui un tempo ci si abbeverava al proletarismo. E si è trattato di fallimento non tanto come ideologia, improponibile e vittima del suo “idealismo” hegeliano già in sede speculativa, ma come blocco politico atto a contrastare il capitalismo internazionale.
Grazie all'impotenza e al venir meno del ruolo politico delle “sinistre” borghesizzate si è avuta la liberazione automatica delle energie compresse del capitalismo, privato di antagonisti e quindi immediatamente messosi per le vie del mondo a fare a pezzi realtà nazionali secolari, economie appena giunte a fasi iniziali di sviluppo, solidarismi sociali e identità etniche consolidate da tempo immemorabile: tutte cose rapidamente affrontate con la volontà di smantellarle, poiché avvertite (giustamente) come ostacoli sulla via dell'erezione di un comando unico mondiale, alla maniera biblico-puritana, inteso a fare del mondo un territorio da saccheggiare sotto il mantello dei paradossali ideali umanitari e cosmopoliti. Questa regressione è il marchio di fabbrica del borghesismo liberal, il suo capolavoro epocale.
Un capolavoro dovuto non alle capacità intellettuali e politiche della borghesia liberale, ma a quelle della borghesia comunista. Il nuovo volto della borghesia è infatti il frutto di un lavoro non liberale, ma post-comunista. Sono stati i transfughi da Marx a elaborare le più avventurose e dinamiche coordinate della nuova borghesia mondializzata, a disegnarne le prospettive di gigantismo planetario, a rinfrescarne l'ideario con le adusate percentuali di dogmatismo: ieri di filosofia marxista, oggi di filosofia cosmopolita. A loro agio nei panni liberal come non lo furono neppure in quelli filosovietisti, i fautori della globalizzazione liberale di massiccia provenienza comunista hanno semplicemente trasferito il loro vecchio radicalismo dalle parole marxiste ai fatti capitalisti. Ed eccoli, finalmente, godere di qualcosa che sappia di rivoluzione internazionalista. Il dominio della finanza internazionale viaggia sulle idee vellutate dei marxisti, che al liberalismo vecchia maniera, ormai frusto contenitore di una realtà in movimento, hanno fornito ciò che gli mancava: un'ideologia egualitaria mondializzata, nemica dei popoli e delle nazioni, su cui erigere un potere oligarchico, una casta di plutocrati. Pare un mondo fobico, fatto di alienanti giochi di specchi, ma è quanto avviene.
Il trotzkijsmo nuovo di Washington non è diverso da quello vecchio di Mosca. E il pacifismo delle “sinistre” mondializzate di oggi è lo stesso di quello di un Thorez nel 1939-40: funzionale all'imperialismo capitalista. Oggi non esiste una “filosofia” della borghesia, non c'è una cultura che rivendichi alla “classe media moderata” l'egemonia politica. L'egemonia politica non è della “classe media”, ma dell'élite economica. Non esistono da nessuna parte i Prezzolini, i Papini, i Longanesi, che volevano rilanciare il protagonismo dell'uomo-massa attraverso le sue scelte avanguardie, estratte dal dinamismo borghese. Oggi la “cultura” la detta la scelta economicista, direttamente dalle pagine dei quotidiani finanziari, che danno il là politico come una volta facevano gli organi di partito.
L'ultima deriva capitalista consiste nella personalizzazione della politica. Il capitalismo personale, rilevato come l'ultima e più spettacolare coincidenza tra affari privati e affari di Stato, non è che l'ultima propaggine della concezione individuale dei rapporti sociali ed economici. Nulla di strano. Questo è il liberalismo. E' l'utilizzo politico dei propri interessi economici, è il trasformare in politica di Stato le proprie strategie di profitto, e nulla di più. La congiura tra liberal e marxisti, il loro vergognoso patto di mutua assicurazione, ha permesso l'eliminazione dell'ideologia nazionale e popolare e la messa in mora di una vera politica sociale basata sugli interessi comunitari. L'imborghesimento di massa, giocato sull'inganno che il popolo partecipi dei medesimi progetti e delle medesime convenienze dell'oligarchia economica – mentre invece ne è il lobotomizzato bacino di utenza – ha infine sigillato ogni prospettiva antagonista, creando un colossale regime di uniformità e omologazione.
Quando alle masse popolari si fa credere di essere “borghesia” semplicemente perché accedono alle briciole del benessere attraverso il consumismo; quando all'uomo-massa si lascia pensare di essere elemento attivo di un sistema di ricchezza, mentre invece lo sia avvia al rango servile attraverso lo strumento dell'indebitamento permanente; quando infine a questo tranello planetario vediamo partecipare nel ruolo non di supporti, ma di elementi trainanti della mitografia liberale gli stessi protagonisti del pensiero “solidale” (i “movimentisti”, i “disobbedienti”, le “sinistre alternative”, ogni sorta di “progressista” fautore della globalizzazione), allora il quadro è completo: la borghesia di vertice – quella detentrice del potere finanziario – e la borghesia di retroguardia – quella aggiogata al carro consumista e colpita dalla pauperizzazione crescente – sono le due facce di un unico problema: il cosmopolitismo. E' nel cosmopolitismo che le due borghesie si ritrovano. E' nel cosmopolitismo che il ricatto grande-borghese va ad effetto, verificando che il suo disegno di svellere le identità, e quindi ogni potenziale di autentico antagonismo, viene docilmente e anzi convintamene accettato da coloro stessi che al contrario, in quanto in teoria movimenti sociali e solidali, dovrebbero esserne i più radicali oppositori. Il rinnegamento delle radici identitarie, imposto dalla strategia grande-borghese e subìto con drammatica mansuetudine dalle masse piccolo-borghesi e dai falsi portavoce del popolarismo, è ciò che permette il diffondersi pandemico dell'individualismo e del rinnegamento di ogni sensibilità solidarista.
Il grande invaso borghese in cui nel corso degli ultimi due decenni si sono liquefatte le appartenenze sociali e quelle che una volta erano le numerose culture del particolarismo e della territorialità (il cui caso più tipico era la cultura contadina) è stato costruito con l'ideologia egualitaria e cosmopolita. Di qui, l'inevitabile sparizione di vere classi dirigenti. L'attuale upper class mondiale non è un'élite politica, ma un ceto di dirigenti aziendali. La limatura delle disuguaglianze e l'appiattimento generale, ottenuti soprattutto omologando stili di vita, scelte, immaginari, risorse economiche, aspettative etc., ha causato inevitabilmente la disaffezione per ogni sorta di appartenenza. Ciò, come sempre accade al progressista, vittima prima egli stesso dei suoi cortocircuiti retorici, ha messo in moto nello stesso tempo l'orientamento opposto, dando vita ai risibili tentativi di andare in via teorica contro il proprio stesso convincimento pratico. E' la contraddizione storica dei progressisti. Essi, quando sono al potere, ad esempio in Italia, partecipano in qualità di membri del governo anche a manifestazioni e proteste anti-governative. Questa è la “sinistra”, qualcosa di indefinibile che è in grado di essere simultaneamente al potere e all'opposizione. Una parte ben recitata proprio dall'identificazione con il borghesismo universale, che non riconosce i ruoli e le responsabilità, ma solo i recitativi delle buone intenzioni.
Il materialismo ha prodotto la desacralizzazione? Ecco intervenire la new-age, che compensa il vuoto interiore con un caos di apparente sostanza. Il produttivismo ha ristretto tutti nella metropoli? Ecco la riscoperta artefatta della piccola dimensione, del villaggio ricostruito con materiali pluralisti. L'industrialismo è la causa del degrado ambientale? E subito si fa della retorica ecologista, stabilendo all'istante nuovi contatti tra il profitto e la qualità della vita, come accade con l'assistenzialismo mondiale, gestito da organismi internazionali che sono un'ennesima occasione di business.
Di tutto, anche della carità, antico cavallo di battaglia della cattiva coscienza borghese, alla maniera puritana, si fa un affare remunerativo. E quanto più si inventa il no-profit, tanto più si allarga l'area di profitto. Il benessere è diventato, come ben sanno i sociologi, la compensazione delle deficienze coscienziali, e il borghese è per l'appunto il soggetto più adatto per gettarsi a corpo morto sulla morale acquisitiva calvinista e per identificarsi sia nel cosmopolitismo sia nell'egualitarismo con la convinzione di rappresentare ideali positivi. In fondo, il borghese è un uomo rimasto bambino, come scriveva Sombart. Un essere mai evolutosi, abbacinato dal consumismo, dalla tecnologia, dai balocchi del progresso. Guardate la faccia da adolescente mal cresciuto di Bill Gates, prendete il suo immaturo ottimismo, la sua ideologia umanitarista da rotocalco. E' la fotografia del borghese-tipo. Sul successo economico di questi personaggi si proietta la distorta mitologia democratica dell'opportunity, la possibilità di arricchirsi, di sentirsi eletti: mistica antidemocratica, dunque, ma non vogliono sentirselo dire. E' la mistica su cui si basa la nevrotica morale del carrierista, un democratico che crede unicamente nella fuga dalla democrazia attraverso l'arrampicamento sociale. E che tuttavia è l'esempio del borghese democratico. Questa la schizofrenia intima dell'esser borghesi.
I nuovi manager sono la spalla dei grandi strateghi mondialisti. Essi, padroni del territorio attraverso le economie legate al terziario (specialmente la comunicazione), costituiscono la punta di lancia della cosiddetta nuova borghesia, il ceto di nuova formazione che sta nel mezzo tra i detentori del potere finanziario e la massa dei borghesi disinseriti, quelli che annaspano a rischio costante di pauperizzazione. Questo tipo umano, in quanto ricopre una specie di ruolo burocratico nel sistema, è il responsabile diretto della mutazione delle economie locali in economie mondializzate.
La disintegrazione della grande impresa e della grande fabbrica nella miriade delle iniziative private individualiste ha fatto esplodere il capitalismo in ogni direzione, facendogli occupare anche spazi che prima non gli appartenevano, come l'assunzione del concetto stesso di iniziativa imprenditoriale per ogni mestiere di nuova o vecchia concezione. Il sistema mentale del capitalismo grande-borghese è penetrato negli immaginari piccolo-borghesi, già da tempo predisposti dall'ideologia cosmopolita e individualista, come una lama nel burro. Oggi, qualunque imbianchino non è più solo un operaio che fa un lavoro e rende un servizio, ma si dice che mette su un'azienda di imbiancatura di muri, ha status e ruolo propriamente aziendali, divulga il suo marchio in rete, etc. Questo non cambia nulla circa il mestiere di imbianchino. Cambia tutto nella mentalità, nel rapporto lavorativo e in quello con l'idea di utile, nella scala dei valori per i quali si lavora etc.
Categoria scompaginata, disunita, creata da fatti decisi al di fuori del suo potere, la macroborghesia odierna è a un tempo vittima e causa di sempre nuova degradazione. Essa, come sempre, non domina ma subisce gli eventi, adattandosi sul metro della decisione nata in contesti ad essa alieni: un tempo era la decisione politica, oggi quella economica. Sempre serva, la borghesia non dice mai di no a chiunque la utilizzi per i suoi disegni, soprattutto quelli eversivi di segno oligarchico, economicista, internazionalista, che coincidono con la sua assenza di carattere e di impronta ideologica. Non più protetta dalla propria cultura ereditata, a lungo lavorata dalla propaganda delle “sinistre”, solidarista a parole ma liberale nei fatti, oggi la borghesia non è né classe né ceto né status, ma un semplice pensiero, un intimo modo d'essere che lavora alacremente allo sgretolamento di tutto quello che un tempo era il suo piccolo mondo, reazionario e rassicurante: la famiglia, la patria, la religione, il senso del dovere, la misura etc. Su questo diffuso ed esile pensiero - che conserva, tuttavia, le antiche sindromi deamicisiane del buon borghese: umanitarismo, pacifismo, utopismo, etc. – corre veloce la globalizzazione gestita dall'alto, negli inaccessibili palazzi dove si programma il governo unico mondiale.

Da Italicum

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Russia: il crollo del capitalismo orientale

Renato Pallavidini

 

Una breve riflessione sulla crisi economica e politica che sta investendo la Russia post-comunista, si può articolare attorno a due dichiarazioni, apparse sui mass media italiani, e ad un fatto talmente eclatante e importante, da essere sostanzialmente sottaciuto da presunti «esperti», ex-«sovietologi» e anti-sovietici di antica razza: il grandioso consenso sociale acquisito dal PCR di Ziuganov nell’arco di soli quattro anni, che gli consente oggi di assumere un peso determinante nel nuovo governo Primakow.

Le dichiarazioni cui ho alluso s’intrecciano strettamente e ci fanno intuire molto bene il quadro drammatico dell’attuale struttura economica russa.

La prima è dell'ex-Primo ministro ed economista russo Gaidar, il quale ha dichiarato alla stampa che «l'epoca delle riforme è finita». Personalmente sento l’eco della risposta istintiva e soddisfatta di decine di milioni di lavoratori e pensionati russi: «Meno male!».

La seconda viene dai vertici del nuovo capitalismo internazionale «globalizzato» e «finanziarizzato», cioè dal grande magnate della finanza mondiale Soros, il quale ha affermato -senza peli sulla lingua!- che le «riforme» avviate proprio dal governo Gaidar agli inizi del ‘92, hanno creato in Russia un «capitalismo criminale».

Visto che una simile dichiarazione non l’ha rilasciata Cossutta, vale la pena capire meglio quali riforme economiche sono state introdotte in Russia, su mandato imperioso del Fondo Monetario Internazionale.

Queste tanto ventilate riforme risalgono -come già scritto- al governo di Gaidar del ‘92 e si sono sempre mosse in una direzione rigidamente liberista, entro una cornice politico-istituzionale e burocratica ancora di tipo sovietico, abituata solo e unicamente a gestire un’economia, socialista, statalista e pianificata.

Ciò significa concretamente che lo Stato non aveva ancora una vera e propria amministrazione finanziaria preposta a riscuotere le tasse, perché nell'economia socialista, come nella vita quotidiana dell’ex-cittadino sovietico, non esistevano tasse, essendo tutto il PIL assorbito, gestito e ridistribuito dallo Stato.

Cos’è successo dunque in Russia, dal ‘92 ad oggi?

All’improvviso, agli inizi del ‘92, su pressante invito del FMI, il governo ha liberalizzato i prezzi di tutte le merci -prima definiti dallo Stato- e ha messo in vendita tutte le aziende statali, grandi e piccole, di ogni settore.

All’improvviso la Russia è passata da un’economia statalizzata e nazionale, ad un’economia liberista controllata dai grandi organismi finanziari. Tutto ciò senza che nessuno pensasse a riordinare la macchina burocratica dello Stato e la legislazione vigente, per creare un regime fiscale razionale e porre lo Stato almeno nella condizione di riscuotere le tasse. Né, tanto meno, questi «riformatori» «liberisti» e «liberali», a cominciare dal criminale Eltsin, hanno pensato all'impatto sociale di questo vero e proprio passaggio improvvisato, selvaggio ed eterodiretto al capitalismo liberista.

I risultati più eclatanti sono stati due.

In primo luogo, l’iper-inflazione con ritmi del 1000% al mese; una situazione che ha non solo immiserito pensionati, lavoratori, impiegati, quadri dell’esercito, i cui salari e stipendi perdevano potere d'acquisto di giorno in giorno, ma li ha anche sconvolti psicologicamente, essendo i cittadini sovietici abituati ad un regime dei prezzi pressoché immutabile nei decenni. Solo negli ultimi due anni, con il più rigido controllo dell’emissione di moneta imposto dal FMI, l'inflazione si stabilizzata a livelli del 20%. Ma anche questa rigida politica monetarista anti-inflattiva ha avuto nuove pesanti ripercussioni sociali, determinando un ulteriore impoverimento delle già impoverite masse popolari e classi lavoratrici.

Lo Stato non poteva più battere moneta per pagare stipendi sempre più svalutati; non è in grado di riscuotere le tasse dalle aziende di tutti i tipi, quindi quando mancano risorse finanziarie adeguate, sospende per mesi il pagamento degli stipendi ai lavoratori delle aziende statali e delle pensioni agli anziani.

In secondo luogo, le privatizzazioni hanno creato un’economia mista, privata e pubblica, i cui caratteri dominanti sono sostanzialmente tre:

1) il dominio del privato, remunerativo, ed efficiente nei settori commerciali e speculativi;

2) il formarsi di ceti alto-borghesi mafiosi e criminali, che detengono il controllo di questo lucroso settore privato;

3) la permanenza di un settore pubblico dell’economia, esteso dall’industria pesante a quella manifatturiera e all’agricoltura, che langue privo di capitali -in rapporto alla mancanza di adeguati finanziamenti statali e alla non curanza dei governi eltsiniani-, con aziende ferme o che producono nel quadro di un’economia di sussistenza (ad esempio una fabbrica meccanica russa produce ancora trattori per aziende agro-alimentari bulgare, che li pagano con barattoli di cetrioli destinati poi ai lavoratori, al posto dello stipendio mensile).

In sostanza come si è arrivati a queste situazioni così squilibrate, fra il ‘92 e i nostri giorni?

Nei primi due anni di una privatizzazione così improvvisata e selvaggia, i settori più occidentalizzati, imborghesiti e furbeschi della ex-nomenclatura economica sovietica, con l'aiuto dei «prestiti» del FMI e di capitali mafiosi sorti attorno all’ex-mercato nero sovietico (i vecchi compratori di jeans, giornali pornografici, valuta occidentale, ecc.), hanno acquistato la uniche grosse aziende che potevano dare grossi profitti immediati: quelle del settore energetico, già dirette da Cernomirdyn in epoca sovietica.

Questi nuovi «capitalisti» esportavano petrolio e gas in tutto il mondo, collocavano i profitti nelle banche occidentali e con le rendite, assicurate da questa speculazione commerciale-finanziaria, alimentavano il mercato dei prodotti di lusso, il settore del divertimento, ecc. Ciò consentiva ad altri gruppi mafiosi di creare ditte di importazione di beni di consumo occidentali e di aprire costosi locali d’intrattenimento.

Il circuito esportazione materie prime/rendite finanziarie/importazione di crescenti masse di merci occidentali era controllato dall'alleanza privati e potere politico. Si sviluppava senza alcun prelievo degno di questa nome. Divorava tutti i prestiti occidentali. Si muoveva nel contesto di una produzione industriale e agraria, ancora di proprietà statale, in condizione di recessione sempre più drammatica. Un numero crescente di fabbriche dovevano bloccare l'attività per mancanza di acquirenti. L’agricoltura si è quasi avvitata su se stessa: le aziende agrarie prima producono per il fabbisogno locale -come nell'Europa carolingia-, poi per il mercato russo, con le classi agiate e i nuovi ceti medi urbani che spesso ne snobbano i prodotti, a favore della più raffinata ed esotica frutta di importazione.

Il quadro sociale complessivo è quello già descritto, cui occorre aggiunge il completo sfacelo dello «Stato sociale», anch’esso privato dei finanziamenti pubblici.

Non c’è da stupirsi che in uno scenario del genere, si siano sviluppati ampie nostalgie per l’era sovietica -che almeno dava solide garanzie sociali a tutti- e crescenti consensi elettorali all’intera sinistra comunista, al cui interno i settori «ortodossi», marxisti-leninisti e stalinisti appaiono ancora egemoni.

L’indiscusso controllo politico acquisito oggi da una Duma a maggioranza comunista, la formazione di un governo con ministri comunisti nei dicasteri economici più importanti, l'appoggio decisivo che esso riceve dal PCR e dai partiti suoi alleati e il ridimensionamento dei poteri presidenziali non costituiscono ancora elementi per «temere» una restaurazione del Sistema. Sovietico.

Primakow, nei suoi discorsi di insediamento, ha citato il "New Deal» di Roosevelt ed è certo che l'intera politica del suo gabinetto si muoverà per emancipare la Russia dalla tutela della finanza internazionale, per ricostruire lo Stato sociale, proteggere gli interessi delle masse popolari e per ridare dignità alle Forze armate.

È dunque prevedibile una svolta politica in senso sociale e nazionale, orientato a creare un sistema economico misto -com'era quello americano ai tempi di Roosevelt e di Truman- sottratto al primato della speculazione della rendita finanziarla e al controllo dei gruppi capitalistici mafiosi e criminali; un’economia mista dunque efficiente e capace di risollevare dalla tragica recessione l’intera produzione industriale ed agraria.

Per quanto riguarda i presunti pericoli per la «democrazia» russa, che verrebbero dal ritorno dei comunisti al governo, credo non sia neppure il caso di parlarne. Le parole più eloquenti le hanno pronunciate i carri armati di Eltsin, alla fine del ‘93, quando hanno chiuso a cannonate il vecchio parlamento «colpevole» di essere contrario alla politica «liberale» e «liberista» del Presidente e di volerlo -già allora- rimuovere dalla sua carica per etilismo cronico (altro che Monica!). Questo, modello di «democrazia» eltsiniano-etilista è già stato affossato dal voto popolare! Qualunque «cosa» sorga al suo posto, non potrà che essere migliore da tutti i punti di vista, anche sul terrena della tutela della vita democratica del paese (per non parlare dei livelli di consumo alcoolico dei governanti).

Renato Pallavidini

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Aggiornato il: 18-03-06.