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GEOPOLITICA
Eurasia - Limiti geopolitici del Continente Eurasia
Le poste in gioco
dietro la crisi iraniana
Il vero
bersaglio dei bombardamenti Usa in Pakistan
Rullo di tamburi del
grande Satana: Guerra!
Geopolitica come destino del sangue e del suolo
Carlo Terracciano
Eurasia
Limiti geopolitici del Continente
Eurasia
|
(da Terra degli Avi)
Dopo
l’improvviso crollo dell’Unione Sovietica e la fine della divisione politica
dell’Europa in due blocchi contrapposti, a risorgere dalle ceneri di Yalta non
è stato solo il Vecchio Continente
ma anche la Geopolitica. Possiamo anche dire l’una in conseguenza
dell’altro, in naturale simbiosi.
Dottrina ostracizzata e demonizzata nel dopoguerra come “pseudoscienza
nazista”, oggi le analisi geopolitiche riempiono le pagine di giornali,
periodici, rotocalchi, arrivando persino talvolta ad intrufolarsi, QUASI SEMPRE
A SPROPOSITO, nei discorsi di politici e politologi.
Un termine geopolitico che, seppur molto a fatica, si sta facendo strada nelle
analisi degli esperti, o presunti tali, è quello di EURASIA.
Forse uno dei più abusati nell’uso che se ne fa ora, quanto fumoso nei reali
contorni storico-geografici.
Anche per le evidenti implicazioni di politica internazionale che esso
rappresenta e sempre più rappresenterà nel futuro prossimo.
Eppure
Eurasia, nella terminologia geopolitica, è un CONTINENTE che ha un ben preciso
connotato geografico.
Intanto bisogna sfatare un luogo comune giornalistico, facilmente veicolabile
dalla parola stessa, chiaramente composta da “Europa” e “Asia”; e cioè
che essa non sia altro che la somma dei due continenti dei quali, in effetti,
geograficamente parlando, è innegabile l’unitarietà, essendo l’Europa
nient’altro che un prolungamento ad ovest della massa terrestre asiatica, una
penisola di grosse dimensioni dell’Asia stessa.
Europa a sua volta suddivisa in penisole (la Scandinavia, l’Iberia, la
penisola italica…e isole).
Se a questa unità dovessimo aggiungere l’Africa, avremmo quello che si
denomina il Vecchio Mondo (meglio “Mondo
Antico”) contrapposto all’altra grande massa di terre emerse che è
l’America (le Americhe): potremmo
definirla EURASIAFRICA, con un neologismo ridondante.
In
verità le cose non stanno affatto così.
Bisogna prima di tutto ricordare che la suddivisione dei continenti considerata
dagli studiosi di geopolitica NON corrisponde a quella che ci hanno insegnato
fin dalle elementari, cioè i 5 Continenti: Europa, Asia, Africa, America,
Australia (i cinque cerchi colorati del vessillo olimpico).
Per la geografia classica i continenti sono masse di terra emersa circondate da
mari e oceani ed atte alla vita dell’uomo; la qual
cosa spiega, per esempio, perché l’Antartide, vera isola-continente a
se stante, terra perennemente ricoperta di altissimi ghiacciai, non sia mai
considerata come tale e semmai posta in parallelo all’Artide, notoriamente
fatta solo si ghiaccio.
Già
da questa definizione possiamo dedurre che l’Europa appunto NON è un
“continente” neanche per la geografia cattedratica ufficiale, rispondendo
solo su tre lati alla caratteristica dell’isolamento marino e oceanico.
Ad est il confine con l’Asia corre lungo la catena degli Urali per oltre 2000
km., da Circolo Polare Artico, al fiume Ural e al Caspio.
Montagne non particolarmente alte, 1000/1500 metri e che al centro e sud
degradano verso la depressione caspica. Poco più che un sistema collinare
esteso in verticale.
Nei
millenni gli Urali non hanno mai rappresentato un vero baluardo alle migrazioni
di popoli, in un senso e nell’altro, come dimostrano tra le tante le invasioni
mongoliche della Russia e la colonizzazione russa della Siberia.
In
Geopolitica i continenti sono quelle aree della Terra che, per le loro
caratteristiche di OMEGENEITA’, CONTIGUITA’, INTERDIPENDENZA economica,
politica, umana, rappresentano una UNITA’, geografica e [quindi] anche
storica; favorendo migrazioni di popoli, interscambi, conquiste che passano
per alcuni nodi geostrategici essenziali.
E
si badi bene: queste Aree Geopolitiche Omogenee NON sono nettamente confinanti
l’una con l’altra, ma intersecantesi tra loro. Proprio come i cerchi
olimpici rappresentati l’uno concatenato all’altro.
Ecco perché le aree confinarie, sul modello non del confine moderno ma del limes
romano, sono rappresentate da fascie, molto estese e non nettissimamente
definibili.
Così uno o più stati odierni possono appartenere ad almeno due unità
geopolitiche confinanti, anzi intersecatesi.
Esempio: le penisole meridionali della grande penisola Europa, Iberia, Italia,
Grecia sono certamente eurasiatiche (nel senso che specifichiamo oltre), ma contemporaneamente
e altrettanto certamente Mediterranee.
Il Mediterraneo (in medium terrae) infatti,
mare chiuso, con numerose isole e penisole e con stretti che lo collegano sia
all’Atlantico, che al Mar Nero e al Mar Rosso/Oceano Indiano (specie dopo
l’apertura del canale di Suez) è esso stesso un’unità geopolitica.
Non separazione, ma passaggio e collegamento tra le sue coste a nord e a sud, in
Medio Oriente e nord-Africa, fin dai tempi più remoti.
La posizione privilegiata della penisola italica al centro, con la Sicilia come
nodo strategico di controllo (si pensi al ruolo decisivo del suo possesso nello
scontro mondiale tra Roma e Cartagine o durante l’avanzata islamica o anche
nell’invasione USA del continente nel 1943), spiega, per esempio, come gli
etruschi prima e i romani poi siano stati per secoli i dominatori dell’area e
questi ultimi gli unificatori totali del bacino mediterraneo.
A sua volta il nordafrica arabo-islamico rappresenta un’altra catena
intersecantesi con l’Europa attorno a questo mare, fino alle propaggini
mediorientali; mentre il vero baluardo tra Magreb e “Africa Nera” corre a
sud, nel vasto mare non di acqua ma
di sabbia che, dopo il Sahel arriva alle savane e alle boscaglie nel cuore
dell’Africa.
Sahel e savana sono la loro elissi di congiunzione.
Avendo
sempre ben presenti questi presupposti, torniamo alla nostra Eurasia.
L’unità geopolitica dell’Eurasia è allora rappresentata dalla penisola
Europa, ben oltre la non rilevante “strozzatura” tra Kalinigrad e Odessa,
fino agli Urali E l’intera
Siberia, fino al mare di Okhotsk/Mar del Giappone, con a sud Vladivostock, la
“Porta d’Oriente” e a nord lo stretto di Boering. Uno stretto peraltro
superato nei millenni passati dalle popolazioni siberiane che raggiunsero il
continente poi americano, percorrendolo da nord a sud, nonché da esploratori
russi che arrivarono fino a metà dell’attuale California !
Il VERO confine dell’ Eurasia, come unità sia geografica che politica, è
quindi dato a nord dal Mare Glaciale Artico fino al Polo, ad ovest
dall’Atlantico (vero separatore storico-geografico di due masse continentali
ben distinte), a sud dal Mediterraneo/Bosforo/Mar Nero, fino al Caspio, lungo la
linea meridionale del Caucaso.
In
Asia poi, da sempre, sono i deserti centroasiatici e le grandi catene montuose
ad aver rappresentato il più naturale ostacolo tra “bacini geopolitici
omogenei”; certo non insuperabili, ma comunque tanto ben netti da creare
diversi tipi di civiltà, almeno fino all’avvento della moderna tecnologia di
movimento.
Per esser più precisi, partendo dal nord-Caspio e fiume Ural, potremmo indicare
nel 50° PARALLELO all’incirca
la linea di separazione tra Eurasia “bianca” (termine che usiamo senza
alcuna connotazione razziale”) e Asia Turcofona; una fascia quest’ultima a
sua volta storicamente omogenea, che corre dalla costa mediterranea della
repubblica turca fino ai bassopiani delle ex repubbliche sovietiche islamiche e
al Sinkiang cinese; Tagikistan escluso, il quale, a sua volta fa parte di
quell’Islam “ariano” che comprende Iran, Afghanistan e Pakistan, fino al
tradizionale confine dell’Indo.
Oltre inizia il “subcontinente indiano” che, protetto a nord dal bastione
himalayano, ha sviluppato nei millenni una sua civiltà autonoma, che oggi conta
ben oltre un miliardo di individui.
Altra unità geopolitica l’Asia “gialla” con Cina - Mongolia - Corea -
Giappone e poi Birmania - Indocina - Thailandia - Malesia fino agli arcipelaghi
meridionali che, con l’Indonesia e la Guinea rappresentano il “ponte di
isole” verso la grande isola-continente Australia.
Tornando
alla nostra Eurasia a nord del 50° parallelo del Kazakhistan, ancora abitato da
forti minoranze russe post-sovietiche, possiamo considerare l’attuale confine
russo-mongolo-manciuriano, dagli Altaj fino all’Amur-Ussuri come il confine
tra i due mondi, le due “Asie”, o meglio l’Eurasia propriamente detta e le
altre unità geopolitiche della più grande massa continentale mondiale.
Notiamo per inciso che il baricentro di questa Eurasia, praticamente la Siberia
nord-occidentale a ridosso degli Urali, fu indicato dal geopolitica inglese Sir
Halford Mckinder, all’inizio del secolo scorso,
come il famoso HEARTLAND, il
“Cuore della Terra”, cioè il retroterra logistico della massa
continentale più lontano e difendibile dall’attacco di una potenza marittima
(ieri Impero Britannico, oggi Stati Uniti).
Nel conflitto planetario tra il “Mare” e la “Terra”, intese come
categorie geopolitiche in conflitto, il possesso dell’Heartland assicurerebbe
il controllo dell’Eurasia, quindi dell’Isola Mondo, quindi del
mondo intero.
Le
recenti invasioni americane di Afghanistan e Iraq, con minacce all’Iran e alla
Corea del Nord e gli avamposti nel Caucaso (Georgia) e nelle repubbliche
ex-sovietiche dell’Asia centrale, possono essere letti (non solo, ma anche e
diremmo principalmente) come il tentativo di penetrare quanto più possibile
all’interno della massa continentale, verso l’Heartland appunto: mirando da
una parte al “ventre molle” della Russia ancora non ripresasi dalla crisi
post-sovietica dell’implosione dell’impero e dall’altra alle spalle
“terrestri” della Cina, il cui baricentro politico e demografico è tutto
spostato a oriente, verso il mare e le cui retrovie terrestri sono abitate in
buona parte da popolazioni non-cinesi (Uiguri, Tibetani, Mongoli).
La
geostrategia della talassocrazia americana da due secoli a questa parte è di
una tale linearità, a prescindere dal succedersi delle “amministrazioni” al
potere a Washington, da non lasciare alcun dubbio sugli effettivi intenti
anti-eurasiatici degli Stati Uniti d’America.
I quali possono sempre contare sull’inviolabilità del proprio continente
isola, almeno fino all’ 11 settembre 2001…
A
occidente dell’Eurasia le isole atlantiche e in particolare l’Islanda fanno
parte sempre della storia e della geografia d’Europa, almeno dalle spedizioni
vichinghe in poi.
Notiamo
infatti come la grande epopea scandinava sia arrivata da una parte alle coste
americane (la Groenlandia e la Vinlandia) e dall’altra abbia attraversato per
via fluviale l’intera Russia, dal Baltico al Mar Nero, per non parlare dei
Normanni in Sicilia.
L’unità
eurasiatica da Reykjavik a Vladivostok, al di là dell’assonanza, è quindi
una REALTA’ GEOPOLITICAMENTE (cioè geograficamente e storicamente) OMOGENEA.
L’Islanda in questo senso, per la sua collocazione nord-Atlantica, non è solo
parte integrante del mondo europeo scandinavo, ma eventualmente avamposto della
difesa dell’Eurasia in quel settore, contro la minaccia marittima dell’altro
lato dell’Atlantico. Non per nulla, cosa poco nota, fu occupata subito dalle
truppe angloamericane che attaccavano la “Fortezza Europa” nella II Guerra
Mondiale.
La Groenlandia stessa, legata oggi alla Danimarca, pur se lontana
geograficamente, è parte di questa storia europea.
E’ la più grande isola del mondo, con i suoi 2.175.000 kmq.
Thule (l’attuale Qaanaaq) tra lo Stretto di Nares e la Baia di Baffin è
l’estremo avamposto proprio di fronte alla costa americana. Per esser precisi
alle isole del nord Canada.
L’Eurasia
unita delineata dalla Geopolitica sarebbe indubbiamente il più esteso stato del
mondo, con una popolazione etno-culturalmente omogenea, ma con una ricchezza di
minoranze che rappresenterebbero i naturali punti di saldatura con le nazioni e
i popoli delle altre “nicchie geopolitiche” confinanti: arabo-mediterranea,
turche, iraniche, sino-mongoliche.
E non dimentichiamo che lo stesso continente americano, sia quello “latino”
ispano-lusitano a sud che, a nord, il Quebec francofono, hanno ancor oggi
strettissimi rapporti di sangue, di lingua, di civiltà con il nostro mondo e
l’Eurasia così delineata.
L’Eurasia inoltre, per le sue dimensioni e la sua potenza, per la sua cultura
e la sua pluralità creativa, rappresenterebbe
un fattore di stabilità, di pace e di vero progresso nella Tradizione per tutti
i popoli al di qua dell’Atlantico e del Pacifico.
Una
stabilità di equilibrio offerta soprattutto dal riconoscimento dei rispettivi
limiti geopolitici di appartenenza, in sinergica collaborazione tra aree
comunque autarchicamente autosufficienti.
Ma,
ovviamente, anche gli strateghi mondialisti della superpotenza oceanica USA
conoscono la Geopolitica, le sue regole, i suoi confini.
Essa è materia di studio nelle università americane e nei centri strategici
militari.
Del resto è già dai tempi dell’Ammiraglio Mahan che le FFAA U.S.A hanno
tracciato le linee espansive della loro geostrategia planetaria.
Il mito mobilitante del “Far West”!
La marcia ad Ovest che prosegue idealmente il viaggio previsto da Colombo
dall’Europa all’Asia, prosegue tutt’ora.
Oggi in Afghanistan, in Iraq, in Medio Oriente, con la base fissa di Israele,
domani ancor oltre contro Cina e Russia: QUINDI contro il nostro retroterra
strategica, di noi europei.
Già l’Europa occidentale fu sottomessa nella II Guerra Mondiale e incatenata
nei trattati asimmetrici con al centro l’America, come la NATO, oramai
superata, attorno all’asse oceanico atlantico.
Una logica geopolitica “marittima” che ritroviamo nell’opera del
trilateralista Huntngton.
La
nuova Europa che si tenta oggi di formare sarebbe solo un moncherino se fosse
privata della sua naturale proiezione geopolitica siberiana, delle sue materie
prime , ma soprattutto del suo SPAZIO vitale che in Geopolitica fa la potenza di
uno stato, anzi E’ POTENZA.
Lo scontro tra Eurasia e America, fra Terra e Mare, fra Civiltà tradizionale e
Mondo Moderno, tra Imperium e globalizzazione è inevitabile alla lunga, perché
iscritto nelle leggi immutabili della Storia e della Geografia.
O
sapremo riconoscere l’inevitabilità del nostro destino geopolitico ed agire
di conseguenza o saremo destinati a scomparire in un pulviscolo di staterelli
impotenti, assoggettati tutti dall’unico comune denominatore dell’american
way of life, il vero nome della globalizzazione mondialista
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Le
poste in gioco dietro la crisi iraniana |
:::: 11 Febbraio 2006 :::: 13:03
T.U. :::: Analisi :::: Voltaire, édition internationale |
Continua la progressiva crescita di tensione tra le
potenze atlantiste preoccupate di controllare le ultime riserve di
idrocarburi e la Repubblica islamica dell’Iran. Su pressione britannica,
i membri permanenti del Consiglio di sicurezza sono convenuti a ridefinire
le relazioni tra l’Agenzia internazionale dell’energia atomica e
l’ONU. Questo compromesso dovrà facilitare il compito ai sostenitori
del confronto armato, mentre la Russia e la Cina temporeggiano. In
effetti, Vladimir Putin si prepara a svelare un progetto di grande portata
che risolverebbe definitivamente il problema della proliferazione
nucleare, pur garantendo il diritto di ogni nazione a disporre
dell’energia atomica a fini civili.
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1 febbraio 2006
Il confronto tra grandi potenze a proposito dell’Iran procede a fasi
alterne. Dal dicembre 2002, gli Stati Uniti accusano l’Iran di cercare
di dotarsi dell’arma atomica in violazione del Trattato di non
proliferazione nucleare (TNP). Essi tentano di ottenere una formale
condanna dell’Iran da parte del Consiglio di sicurezza, che
interpreterebbero come un segnale di via libera che consentirebbe loro di
attaccare la Repubblica islamica. [1].
Il dominio di Washington sull’Iran significherebbe una presa di
controllo militare della riva Est del Golfo e della riva Sud del Caspio,
delle loro riserve di petrolio e di gas naturale stimate, le une e le
altre, come le seconde del mondo [2]. Già ora, gli Stati Uniti hanno
preso il controllo militare di una parte del bacino del Caspio e del
corridoio che permette di collegare quella zona all’Oceano Indiano
(Afghanistan, Pakistan). Hanno pure preso il controllo militare della
parte essenziale del Golfo (Arabia Saudita, Iraq). Alla fine di questa
operazione, Washington dovrebbe dunque impadronirsi delle principali zone
di attuale sfruttamento degli idrocarburi e delle principali riserve
restanti da sfruttare. L’economia mondiale sarebbe nelle sue mani ed il
suo potere sarebbe assoluto.
Allo stadio attuale del conflitto, le grandi potenze sono divise di fronte
alle accuse statunitensi. Il Regno Unito, la Francia e la Germania sono
convinte di un progetto nucleare militare iraniano. Essi si basano su
rapporti dei servizi d’informazione statunitensi. In documenti
confidenziali, questi affermano che Teheran lavora a un Green Salt Project
che punta a sviluppare un vettore e delle testate per missili nucleari. Al
contrario, la Russia, la Cina e l’India ritengono che il programma
nucleare iraniano sia puramente civile [3]. Esse si fondano sulla fatwa
pronunciata dalla Guida suprema, l’ayatollah Ali-Hosseini Khamenei, che
condanna la fabbricazione, la detenzione e l’uso della bomba atomica
come contrarie all’etica islamica.
Oggettivamente, la distinzione del TNP tra nucleare civile autorizzato e
nucleare militare proibito, allo stato attuale della tecnologia, non è più
pertinente. Le conoscenze tecnico-scientifiche e le installazioni civili
possono trovare rapidamente un utilizzo militare. Una lettura rigida del
TNP porterebbe a proibire ad ogni Stato di dotarsi di un’industria
nucleare civile, mentre una lettura permissiva del trattato aprirebbe le
porte ad una proliferazione generalizzata. Non essendo deciso questo
dibattito, è impossibile risolvere serenamente il caso iraniano, ed è
precisamente questa labilità che gli Stati Uniti intendono sfruttare per
arrivare alla guerra [4].
Tuttavia, esiste forse un mezzo per chiarire tale situazione. Un metodo
particolare di arricchimento dell’uranio, finora non completamente
acquisito, permetterebbe di distinguere nuovamente l’uso civile da
quello militare. La Russia si è impegnata nel metterla a punto e si
propone dunque di farne beneficiale non solo l’Iran, ma tutta la comunità
internazionale. Questa dovrebbe essere una delle tre grandi proposte del
presidente Putin durante il vertice del G8 che quest’estate egli
presiederà a San Pietroburgo.
La realizzabilità di tale progetto deve essere dimostrata. La Russia
fabbricherebbe il combustibile nucleare sul suo territorio, in impianti
costruiti congiuntamente agli Stati beneficiari e sotto il controllo
dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica (AIEA). Restano da
elaborare dettagliati protocolli per garantire gli interessi dei diversi
protagonisti. Se questo progetto andasse in porto, le intere relazioni
internazionali si troverebbero rovesciate. La Russia, apportando sicurezza
energetica al mondo, eclisserebbe l’autorità degli Stati Uniti che oggi
soddisfano la loro sicurezza energetica a detrimento del resto del mondo.
L’Iran ha innalzato la sua ambizione nucleare civile fino a farne il
simbolo della sua indipendenza nei confronti del colonialismo anglosassone
del quale tanto ha sofferto. [5]. Contrariamente ad un’idea da tempo
diffusa sulla stampa atlantista, questa ambizione non è propria di una
fazione del potere iraniano, ma trova consenso in tutta la società.
Inoltre, se la Repubblica islamica ha abbandonato il suo sogno di
espansione della rivoluzione khomeynista, essa oggi intende interpretare
un ruolo motore nel movimento dei non-allineati in via di rivitalizzazione.
Essa intende anche condividere con altri la sua rivendicazione e far
trionfare il diritto ad un’industria nucleare civile non solo per se
stessa, ma per tutti.
Lungi dal sollevare la sola questione del futuro dell’Iran, il gioco
diplomatico in corso comporta dunque l’equilibrio internazionale e la
pretesa statunitense, riaffermata ieri nel discorso sullo stato
dell’Unione, di assumere da soli la le leadership mondiale.
Durante gli anni 2004-2005, i diversi protagonisti hanno moltiplicato le
loro manovre. Si riteneva che una troïka europea (Francia, Regno Unito,
Germania) facesse da intermediaria tra Washington e Teheran ; essa aveva
chiesto agli Iraniani un congelamento della situazione, per poi
sbilanciarsi nettamente dalla parte degli statunitensi. L’Iran, dopo
aver accettato una moratoria di due anni e mezzo sulle sue ricerche, le ha
riprese il 10 gennaio 2006, considerando di aver atteso abbastanza per
dimostrare la sua buona volontà, mentre gli Europei non avevano avanzato
alcuna proposta seria. La posizione russa era diventata illeggibile, in
quanto il ministri degli Esteri russo lasciava intendere che si sarebbe
allineato al punto di vista dei suoi omologhi occidentali, prima di farsi
pubblicamente rimettere a posto dal presidente Putin che ribadiva la sua
fermezza per una soluzione pacifica. Infine, nelle ultime settimane,
numerosi viaggi diplomatici hanno permesso ai dirigenti russi, cinesi e
iraniani di elaborare una comune strategia.
Il dossier ha avuto una brusca evoluzione con l’organizzazione da parte
del Regno Unito, il 30 gennaio 2006, di una « cena ministeriale privata
», che ha riunito i ministri degli Esteri britannico, francese, tedesco,
russo, statunitense e cinese. Nel corso della riunione, il britannico Jack
Straw ha proposto che l’AIEA porti la questione davanti al Consiglio di
sicurezza delle Nazioni Unite, prima tappa del processo verso la guerra. I
suoi omologhi russo e cinese hanno opposto che una tale decisione non ha
allo stato attuale alcuna base giuridica. Confidando nella realizzabilità
del suo progetto di arricchimento dell’uranio, la Federazione Russa
desidera temporeggia giusto per arrivare alla messa a punto di un
protocollo di accordo con l’Iran: da uno a due mesi, secondo gli
esperti. I convitati hanno concluso la cena definendo un’agenda che ogni
parte interpreta come una vittoria : la prossima settimana, il Consiglio
dei governatori dell’AIEA non trasmetterà il dossier iraniano al
Consiglio di sicurezza, perché non ne ha il potere, ma invierà ad esso
un rapporto che richiederà l’adozione di misure che rafforzino la sua
autorità in modo che in futuro possa farlo.
Questo compromesso permette agli Euro-statunitensi di mantenere la
pressione e ai Russo-cinesi di guadagnare tempo. Sapere chi ha vinto
quella sera, dipende da come si vede il bicchiere, se mezzo pieno o mezzo
vuoto.
In pratica, supponendo che il Consiglio di sicurezza dia potere di
deferimento al Consiglio dei governatori dell’AIEA, quest’ultimo non
potrebbe metterlo in atto che nel corso della prossima riunione, il 9
marzo.
Gli Iraniani hanno finto di sentire questo mercanteggiare come un
possibile abbandono dei loro amici russi. Potrebbe comunque darsi che essi
abbiano ottenuto per iscritto la garanzia che la Federazione Russa opporrà
il suo veto al Consiglio di sicurezza in caso di risoluzione che autorizzi
la guerra.
In ogni caso, gli Iraniani si sono affrettati a chiamare all’appello i
loro partner del movimento dei non-allineati. Il presidente Mahmoud
Ahadinejad ha ottenuto per via telefonica il sostegno del suo omologo
sud-africano Thabo Mbeki (il Sud-Africa, che aveva fabbricato la bomba
atomica con Israele durante il regime dell’apartheid, vi ha
successivamente rinunciato). L’Indonesia ha moltiplicato le
dichiarazioni distensive, mentre il Venezuela e la Malesia si preparano a
ricevere il presidente iraniano.
Nello stesso tempo, l’Iran prepara « un mondo senza Israele, né gli
Stati Uniti ». Teheran spera ottimisticamente di dare vita ad una borsa
del petrolio che rifiuti il dollaro. Essa già funziona in modo
sperimentale. Anche se nessuno Stato ha ufficialmente annunciato che vi
parteciperà, molti incoraggiano delle società intermediarie a
ricorrervi. Ora, il dollaro è una moneta iper-valutata che si mantiene
essenzialmente perché è la divisa delle transazioni petrolifere [6]. Una
tale borsa, se funzionasse realmente anche trattando solo un decimo del
mercato del petrolio, provocherebbe un crollo del dollaro paragonabile a
quello del 1939. La potenza statunitense ne sarebbe devastata e, a
termine, anche Israele sarebbe al fallimento.
Washington è dunque obbligata ad usare tutto il suo peso sugli attori
economici internazionali perché essi rompano con Teheran. Se non alla
guerra, gli Stati Uniti devono almeno giungere ad imporre un isolamento
economico dell’Iran.
Paradossalmente, nessuna di queste due opzioni sembra praticabile. L’US
Air Force e Tsahal non possono ragionevolmente bombardare i siti nucleari
iraniani, perché il funzionamento di questi è gestito da consiglieri e
tecnici russi. Colpire l’Iran sarebbe anche dichiarare guerra alla
Russia. Del resto, se fossero possibili degli attacchi, l’Iran non
mancherebbe di rispondere su Israele con i devastanti missili Thor M-1 che
la Russia gli ha venduto. E gli Sciiti dell’Iraq renderebbero la vita
ancora più dura alle forze d’occupazione. Nel caso in cui gli Stati
Uniti preferissero utilizzare il blocco economico, esso sarebbe aggirato
dall’Iran attraverso il suo accordo privilegiato con la Cina. In ogni
caso, il blocco priverebbe « l’Occidente » di una parte del suo
approvvigionamento in petrolio, provocando un rialzo del 300 % del prezzo
del barile e una vasta crisi economica.
In definitiva, l’esito di questa prova di forza dipende dalla capacità
di ciascun protagonista di adattare il suo calendario a quello degli
altri. Al contrario, l’amministrazione Bush preme caparbiamente verso un
confronto che essa non ha i mezzi per gestire e nel quale rischia di
perdere la sua autorità.
-----------------------------------
[1] Vedi gli articoli « Le duel Washington-Téhéran », di Thierry
Meyssan, Voltaire, 6 settembre 2005 e le Tribunes et Décryptage « Iran :
la diabolisation avant quoi ? », Voltaire, 16 gennaio 2006.
[2] Per maggiori informazioni sulle riserve di idrocarburi, vedi i nostri
articoli « Le déplacement du pouvoir pétrolier » e « L’avenir du
gaz naturel ».
[3] Vedi in particolare, nella nostra rubrica « Tribunes et Décryptage
» : « L’Iran et la Russie souhaitent renouer avec l’Europe de l’Ouest
», Voltaire, 22 seyyembre 2005, come l’articolo « Face aux États-Unis,
l’Iran s’allie avec la Chine », Voltaire, 17 novembre 2004.
[4] Vedi l’articolo « François Géré : « La position iranienne à
propos du nucléaire est légitime », di François Géré, Voltaire, 22
maggio 2005.
[5] Vedi in particolare l’articolo « BP-Amoco, coalition pétrolière
anglo-saxonne », di Arthur Lepic, Voltaire, 10 giugno 2004.
[6] Vedi l’articolo « Le talon d’Achille des USA », di L.C. Trudeau,
Voltaire, 4 aprile 2003.
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Il
vero bersaglio dei bombardamenti USA nel Pakistan
Da EURASIA |
:::: 1 Febbraio 2006 :::: 7:22
T.U. :::: Analisi :::: Voltaire, édition internationale |
L’8 e il 13 gennaio 2006, gli Stati Uniti hanno
bombardato il loro alleato pakistano, con il pretesto di voler eliminare
il « numero 2 di Al Qaida » Al Zawahiri. Successivamente, importanti
manifestazioni hanno scosso il Pakistan per denunciare queste azioni.
Perché questi bombardamenti fanno in realtà parte della repressione
etnica che gli Stati Uniti conducono nel paese per mantenere il controllo
della dittatura del generale Musharraf sulla zona del Balucistan, ricca di
gas. La stampa atlantista si sforza di nascondere la realtà
all’opinione pubblica internazionale scambiandola con la favola di Al
Qaida.
Le agenzie di stampa atlantiste ci parlano in modo confuso della
situazione nel Pakistan. Il fatto è che le spiegazioni contorte dei
dirigenti statunitensi e pakistani mirano, con la copertura della caccia
ad Al Qaïda, a mascherare importanti operazioni congiunte di pulizia
etnica in una regione ricca di gas. La dittatura militare mostra il
sorriso davanti alle telecamere.
Quando era capo di stato maggiore, il generale Pervez Musharraf aveva
fomentato incidenti con l’India, provocando la guerra di Kargil
(Kashmir). Tuttavia, vista la resistenza dell’esercito indiano e la
pressione della comunità internazionale, il Primo ministro dell’epoca,
Nawaz Sharif, giudicò più saggio battere in ritirata. Ne seguì un
confronto tra militari e civili e la revoca di Musharraf, mentre si
trovava in trasferta all’estero. Ma, avendo previsto la situazione, il
generale ritoornò surrettiziamente, il 12 ottobre 1999, e si impadronì
del potere senza spargimento di sangue.
All’epoca, il presidente Clinton aveva blandamente condannato il colpo
di Stato, in nome della democrazia, ma il generale Anthony C. Zinni,
comandante in capo del Central Command, sostenne i golpisti senza riserve.
Si chiusero dunque gli occhi. Il generale Musharraf restò per alcuni mesi
al bando della comunità internazionale fino all’agosto 2001, alla
rottura dei negoziati tra gli Stati Uniti e lo pseudo-emirato dei Talebani
circa la costruzione di un oleodotto che doveva collegare il Caspio
all’Oceano Indiano [1]. Egli offrì allora l’aiuto dei suoi servizi
segreti, l’ISI, per rovesciare i Talebani che essi stessi avevano
inquadrato ed insediato alla testa di un auto-proclamato emirato.
Seguirono gli attentati dell’11 settembre, la designazione dei Talebani
come responsabili e l’innalzamento di Pervez Musharraf a pilastro della
guerra al terrorismo.
Egli cumula sempre le sue funzioni di capo dello Stato e dello stato
maggiore, ma in realtà le condivide con l’ambasciatore Ryan C. Crocker
[2]. Entrambi supervisionano lo sfruttamento dei campi di papavero afgani
e, tramite questi, il finanziamento delle operazioni nere della CIA [3].
La dittatura non sembra disporre di sufficiente sostegno dalla
popolazione. Essa si mantiene soprattutto sfruttando abilmente le
divisioni della sua opposizione, in seno alla quale si confrontano
islamisti e laici, e appoggiandosi agli Stati Uniti.
Il paese è organizzato secondo un sistema federale. Oltre al disputato
Kashmir e due territori, esso si divide in quattro province : Sind, Panjab,
Balucistan, Provincia della frontiera Nord-Ovest. Le ultime due includono
zone tribali che godono di una certa autonomia. Nel corso degli ultimi
anni, si p sviluppato tra i Baluci un forte movimento regionalista. La
popolazione reclama di non voler più essere esclusa dallo sviluppo
economico ed è indignata dal fatto che quasi nessuno dei 72 più alti
funzionari della regione sia un baluci. Esprimendosi inizialmente in un
satyagraha gandhiano, il movimento si traduceva in occupazioni non
violente di edifici pubblici. La repressione è diventata sanguinosa da
quando si è scoperto che la regione è ricca di gas naturale. Così, in
un secondo tempo, p stato costituito un Esercito di liberazione del
Balucistan (BLA), che recluta in massa tra i giovani. L’esercito
pakistano, che dispone di una solida tradizione repressiva nel ricordo del
massacro delle élite e dei giovani baluci del 1971, ha deciso di
sradicare la contestazione. Le forze USA si sono unite ad esso, perché il
famoso oleodotto che deve collegare il Caspio all’Oceano Indiano non
deve passare solo per l’Afghanistan, ma anche per il Balucistan. Le
operazioni di pulizia etnica sono celate alla comunità internazionale
sotto la copertura della guerra al terrorismo. Sui media atlantisti è
stata riversata un’abbondante propaganda per definire la zona tribale
del Balucistan una base di retrovia di Al Qaida e per ottenere così
l’indifferenza delle opinioni pubbliche.
Nel 2001, le forze armate USA avevano utilizzato basi militari in
territorio pakistano per dare assistenza ai baroni della droga contro lo
pseudo-emirato dei Talebani e per insediare al potere a Kabul un cittadino
statunitense, Hamid Karzaï. Mai i GI’s non si sono dispiegati sul
territorio pakistano che in occasione del terremoto dell’8 ottobre 2005.
Con il pretesto di un’assistenza umanitaria tanto pubblicizzata quanto
parsimoniosa, le forze USA hanno investito il Kashmir e la Provincia della
frontiera Nord-Ovest. Esse sono state appoggiate dalla NATO che ha
mobilitato la sua Unità E-3. In realtà, questa comprende 3 Boeing 707
trasformati in cargo e utilizzati per il trasporto di aiuti umanitari, ma
soprattutto, 17 aerei da ricognizione AWACS, destinati a supervisionare la
repressione nel Balucistan. Le operazioni sono dirette, dalla Germania,
dallo SHAPE (quartier generale dell’alto comando delle forze alleate in
Europa) e, dagli Stati Uniti, dal Central Command.
Il primo dicembre 2005, gli eserciti pakistano e USA hanno iniziato
un’operazione per eliminare i Sadar delle tribù Marri, Bugtis e Mengal.
A tal fine, essi si sono basati sulla Legge contro le tribù criminali che
altro non è se non la riedizione della Regolamentazione del crimine sulle
frontiere promulgata nel XIX secolo dall’Impero britannico. Sembra che i
combattimenti siano stati molto sanguinosi. Ma non vi sono testimonianze
affidabili, poiché l’esercito pakistano non ha esitato a sparare, per
costringerli a fuggire, sugli osservatori inviati dalla Commissione per i
diritti dell’uomo del Pakistan.
Il primo dicembre, da un aero da ricognizione della CIA è stato tirato
sul villaggio di Haisori a Nord della zona tribale, uccidendo almeno
cinque persone. Il 3 dicembre, in una conferenza stampa durante il suo
viaggio nel Kuwait, il generale Musharraf garantiva di essere « pressoché
sicuro » che quel raid aveva permesso di eliminare un dirigente di Al
Qaida, l’egiziano Abu Hamza Rabia. Non lontano da lì, al posto di
frontiera di Mir Ali, il 7 gennaio 2006, violenti scontri hanno opposto
l’Esercito di liberazione del Balucistan (BLA) alle forze pakistane. 24
insorti e 17 soldati sarebbero stati uccisi nei combattimenti. Per
recuperare dei soldati fatti prigionieri dal BLA, le forze USA hanno
organizzato un’operazione aviotrasportata di soccorso che si è tradotto
in un bombardamento supplementare che ha fatto almeno 8 morti e 19 feriti.
In seguito a questo incidente, il governo pakistano ha rivolto una forma
protesta alla Coalizione. Il portavoce del ministro degli Esteri pakistano
ha dichiarato che gli Stati Uniti hanno negato ogni responsabilità e che
è in corso un inchiesta per determinare l’accaduto. Queste grottesche
dichiarazioni ufficiali lasciano pensare che lo scontro di Mir Ali abbia
in realtà opposto il BLA a forze speciali USA in uniforme pakistana e che
lo stato maggiore pakistano non controlli più granché.
Il 13 gennaio 2006 ha luogo un altro bombardamento. 4 aerei da
ricognizione Predator hanno colpito per due volte il villaggio di Damadola,
nella zona tribale, facendo 18 morti, tra cui 11 bambini, e 6 feriti. In
un primo tempo, il portavoce del governo, il maggiore-generale Shaukat
Sultan, non è stato in grado di riferire i fatti alla stampa e ha escluso
ogni possibilità di un intervento militare statunitense. Ma è
rapidamente emerso che si trattava di un bombardamento da parte dei
Predator della CIA. Il governo è allora ricorso ad una nuova versione :
la Coalizione sarebbe stata informata della presenza nel villaggio, in
occasione della festa del montone, del n. 2 di Al Qaida, Ayman Al-Zawahri.
Essa avrebbe tentato di eliminarlo, ma non ci sarebbe riuscita.
Dopo il bombardamento della propria popolazione da parte di una potenza
straniera, il presidente Musharraf si è ben guardato dall’espellere il
suo ambasciatore Crocker o di chiedere una riparazione di fronte alla
Corte internazionale di arbitraggio de L’Aia. Si è limitato a scrivere
una lettera pro-forma di disapprovazione. La signorina Condoleezza Rice,
segretario di Stato degli Stati Uniti, non ha confermato né smentito
l’implicazione del suo paese nel raid aereo, ma ha commentato l’agire
ufficiale pakistano indicando che Washington coopera pienamente con
Islamabad nella guerra al terrorismo e che risponderà alla lettera che le
è stata inviata.
Domenica 15 gennaio, in tutte le grandi città del paese sono state
organizzate importanti manifestazioni per protestare contro
l’aggressione straniera. L’opposizione sostiene che non serve a niente
allearsi con gli Stati Uniti, se questo significa essere bombardati da
essi. Denuncia la visita programmata di George Bush padre, in qualità di
inviato speciale dell’ONU presso le vittime del terremoto, e reclama le
dimissioni del « traditore » Musharraf. Segno dei tempi, il Muttahida
Qaumi Movement (MQM), uno dei partiti che sostengono la dittatura
militare, ha preso parte alle manifestazioni.
16 gennaio 2006
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[1] Vedi L’Effroyable imposture di Thierry Meyssan, Carnot éd.,
2002, pp. 132-138.
[2] L’ambasciatore Crocker è assai noto ai nostri lettori orientali :
egli svolse un ruolo centrale nell’operazione « Pace in Galilea », il
massacro di Sabra e Chatila e il blocco di Beirut, nel 1982.
[3] « Le Pakistan exploite le pavot afghan », Voltaire, 19 aprile 2005.
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GEOPOLITICA
COME DESTINO DEL SANGUE E DEL SUOLO
Luca Lionello Rimbotti
Una semplice osservazione del pianeta terracqueo sul quale
viviamo è in grado di verificare, sin da una prima occhiata, che esiste un
monoblocco fatto di continuità e compattezza, situato centralmente rispetto
alle derive: è la Terra di Mezzo, l'Heartland, il Cuore della Terra. Questo
monoblocco è il grande spazio destinale dell'Eurasia, il macro-continente che
corre dalle coste atlantiche del Portogallo sino alla Siberia orientale. E' il
luogo degli accadimenti biologici e storici in cui si è manifestata la facies
indoeuropea dalla quale, volenti o nolenti, tutti gli europei oggi discendono.
L'esatta percezione di una corrispondenza tra dispiegamento della vita
associata, politica, e continuità del suolo dal quale essa prende vita è
nozione moderna solo relativamente alla sua sistemazione teorica. Prima della
modernità, l'associazione tra essere e essere-entro-uno-spazio delimitato era
spontanea, irriflessa, naturale. Un segmento culturale che non abbisognava di
alcuna teorizzazione, poiché era vita, era ovvia associazione tra il sangue
di un popolo e la terra da cui quel sangue prende vita e alimento. La
geopolitica in quanto scienza dell'appartenere ad uno spazio e tecnica per
difenderlo è una nozione culturale primo-novecentesca, un ripensamento
occasionato dall'allargamento degli orizzonti planetari, quella vocazione alla
dismisura che, rinnegando l'aspetto politico del limes e quello psicologico
della scala dimensionale, lungo i secoli dell'espansionismo europeo – e
molto di più oggi - ha fatto perdere all'uomo occidentale la nozione del
contatto tra azione e territorio.
La geopolitica è il tentativo di correggere l'allontanamento causato dalla
spinta mercantile, che nel suo slancio individualistico generò la perdita del
senso dello spazio, abbandonandosi solo a quello del tempo, da comprimere e da
ottimizzare.
Le politiche imperialiste che sono andate per qualche secolo a caccia di
spazio planetario, ingurgitato ma mai digerito, compromisero quell'asse
psicologico interno all'uomo civilizzato che è la simmetria fra provenienza e
destinazione: cioè la sana percezione che l'allontanamento dall'origine,
dalla casa, quando si verifica, deve essere in ogni caso una conquista e non
una perdita. Il cosmopolita ha creato l'abbattimento delle barriere
psicologiche atte a definire lo spazio, dilatando l'Altrove nell'Ovunque e
perdendo l'Origine: e quindi causando il taglio di una radice vitale, prima di
tutto psicologica. Lo sradicamento dell'uomo globalizzato è un guasto operato
soprattutto nella psiche. L'errare migratorio del “cittadino del mondo” si
è risolto in un tradimento prima culturale e poi effettivo della percezione
della terra. L'erranza, ideologica prima ancora che reale e fisica, crea
indisponibilità al luogo, disconoscenza di un combaciare di uomo e suolo. Ci
si considera a casa dappertutto, e quindi da nessuna parte. E si è nulla
ovunque. E' una visione impolitica, solo economica, questa, è una
disintegrazione degli spazi e dei metri culturali di giudizio, una loro
vanificazione come concetti legati alla realtà della disposizione geografica
e di quella mentale.
Poiché lo spazio, al contrario, è soprattutto integrazione: tra individuo,
prossimo, luogo della permanenza e terreno sul quale crescono i frutti delle
opere. E' una relazione che intercorre tra l'uomo e la sua intelligenza che,
come sempre nell'apprendere e nel sapere, chiede ogni volta delimitazioni,
precisazioni, com-prensione: cioè, come dice la parola, divisione del proprio
dall'altrui, dell'entro dal fuori, del sopra dal sotto. L'intellettuale
snazionalizzato vive la sua a-politìa – il suo essere apolide, privo di
città in cui essere se stesso, privo di mura psicologiche all'interno delle
quali coltivare identità – come fosse un segno di libera sovranità, non
riuscendo a comprendere le implicazioni che, al contrario, rendono la sua
fluttuante ubiquità precisamente un non-essere: fantasma retorico, il
cosmopolita è un orpello inessenziale alla vita dei popoli, ne costituisce
anzi l'esatta antitesi.
Chi invece riesce a contenere la vertigine spaziale e a mantenere intatto il
legame tra luogo di provenienza e luogo di destinazione è il popolo semplice.
Gli emigranti italiani di inizio Novecento, come talvolta le masse
terzomondiste oggi inurbate in Occidente, mostrano di trattenere una volontà
di terra che è ignota al cosmopolita. Di qui i vincoli sempre potenti tra il
povero emigrato e la memoria della sua terra-patria, le sue culture della
terra, i suoi istinti memoriali pre-culturali: la cucina, ad esempio, che è
sempre stato un umile mezzo di protezione identitaria altamente simbolico per
le popolazioni private della patria fatta di terra, ma ancora in possesso
della patria interiore. Si dice, a questo proposito, che ad esempio in Francia
il cus-cus negli ultimi anni abbia soppiantato la cucina mediterranea come
piatto nazionale: ciò è potuto accadere perché gli immigrati maghrebini
hanno avuto un senso della terra più forte dei francesi metropolitani, e ne
hanno potuto imporre, così, un simbolo evidente come quello della tradizione
alimentare. Il cus-cus, quando mangiato in Francia o in Italia dai
nordafricani, per dire, è spirito della terra fatto materia, che si prolunga
negli spazi, ricreando le naturali leggi di una geopolitica della psiche.
Lo sradicato dagli insediamenti dell'Atlante sahariano alla banlieu parigina
che apre una macelleria islamica o un ristorante di piatti maghrebini impone
una sottaciuta, atavica e inconscia legge della terra. Egli è un evidente
messaggero della insopprimibile energia che deriva dal suolo: i prodotti della
terra su cui si è nati, elevati al rango di ultimo segno di appartenenza
culturale, sono un argomento geopolitico di straordinaria vitalità, allo
stesso modo della politica di potenza di un grande Stato nazionale. Sono
segnali che ci mostrano una volontà di vita, una capacità di dinamismo e
un'aderenza anche materiale ai bisogni necessari nati nell'origine, che
derivano da un sangue non ancora corrotto dalle sovrastrutture ideologiche
cosmopolite, quelle artefatte impalcature che un giorno inventarono l'uomo
universale, quel fiore reciso che è l'individuo globalizzato.
Vorremmo infatti che si considerasse la geopolitica, oltre che la
manifestazione delle necessità invariabili che regolano la collocazione di un
popolo in un territorio, anche e soprattutto il suo vincolo interiore con gli
spazi limitati della nascita e della provenienza: una concezione
“ulisside” dell'essere che, anche quando sottoposta al distacco, veicola
la necessità dell'andare ma custodendo la nostalgia dolorosa del ritornare
che è vita, magnete culturale, fonte di capacità di giudizio altrimenti
soffocata dall'indifferenza per la diversità dei luoghi e dal nulla
esistenziale.
Geopolitica è innanzi tutto legge di vita, qualcosa che è regolato da un
fluire delle cose che non è a disposizione del libero arbitrio individuale.
“Gettati” nella vita da una nascita da loro stessi non voluta, affidata
all'inesplicabile, gli uomini si connotano per un sigillo di appartenenza che
è allo stesso modo non scelto, ma subìto, così come si subisce il tratto
fisiognomico che ci connota, così come si subisce l'identità dei genitori
non scelti o del trovarsi alla nascita qui anziché là. Questa è la legge
del nomos, anzi, proprio alla maniera di Carl Schmitt, del nomos della terra.
Poiché nomos è essenzialmente legge – i greci definivano l'a-nomos come
l'empio, il fuori limite, il precluso alla con-vivenza – ma legge della
terra che sovranamente dispone i destini. Quando si nasce in un popolo che
abita una terra, si esibisce un crisma, uno stigma, un segno di provenienza
ovunque ci si rechi: né è possibile sottrarsene, senza allo stesso tempo
vedere decaduto il proprio status di uomo differenziato dal proprio esclusivo
legame sociale. E si rammenti che il nomos è non solo la legge che regola
queste disposizioni della differenza dell'identità entro la differenza dei
luoghi, ma è anche capacità di abitare il suolo.
Non si hanno ordine e legge dentro di noi se si è incapaci di renderli
operanti nel mondo fuori di noi. Dice Massimo Cacciari, in Geofilosofia
dell'Europa, laddove riprende i significati arcaici del vivere lo spazio di
terra come spazio esistenziale, che il nomos si vincola al némein, che è
appunto non solo l'afferrare e lo spartire la terra secondo i bisogni del
vivere associato, ma anche il saperla abitare.
Questo sentimento dell'afferrare la terra è stato decisivo nella storia
dell'Europa, ne costituisce un segno distintivo quale elemento di cultura
superiore, fatta di popolo e non di astrazioni d'intelletto vagante. Esso ci
conduce nel senso di volere, e volere fortemente, quel destino subìto e
trovato già bell'e fatto alla nascita, di cui dicevamo. E proviene dalla
capacità inconscia, e viva nei popoli che sono rimasti psicologicamente
fedeli al suolo della nascita, di trattenere l'idea di terra-madre come
proprio volto immutabile dinanzi al mondo mutevole. Afferrare la terra propria
e condurla dentro di sé ovunque si vada è un permanere se stessi ben più
grande che non lo sfaldato smarrimento di quanti, pur rimanendo fisicamente
sulla loro terra, non ne riconoscano più i suoni e gli accordi di armonia:
come di quei francesi – rimanendo all'esempio fatto sopra – che si trovino
ad apprezzare di più il cus-cus che non i maccheroni. Essi, così facendo,
irrompono in uno spazio culturale che li trova estranei, migranti apatrìdi,
scollati dalle ascendenze e ormai incapaci delle discendenze. Essi non
riconoscono più le madri, negano e non avvertono più un sangue fatto ormai
di terra abbandonata, isterilita, devastata. Il cuore di chi abbandona la
terra dentro di sé è un cuore freddo, secco, inetto a percepire i sussurri e
i sussulti del sempiterno genius loci, il luogo umido e fecondo da cui salgono
le culture vigorose e si inerpicano le frondose ricchezze dell'identità.
Seguire le leggi della città è il più alto titolo dell'uomo, secondo la
cultura greca. E la città è essenzialmente collocazione storica e biologica
su un territorio, l'innesto dell'uomo su un suolo che è quello, non un altro
a piacere. La legge non la si sceglie. E questo suolo da cui scaturisce la
legge ha i suoi diritti, le sue necessità, le sue aggregazioni e le sue
repulsioni, che sono immutabili nel tempo. I problemi politici e sociali di un
popolo dislocato in una certa posizione geografica sono i medesimi
dall'antichità ad oggi. Ad esempio, la posizione continentale della Russia
odierna impone la medesima politica, la medesima economia, la medesima
ecologia del tempo degli zar; la posizione insulare del Giappone gravita sugli
stessi versanti e chiede le medesime soluzioni strategiche e
politico-economiche oggi come all'epoca Meiji. Le invarianti geopolitiche sono
assai più tenaci delle variabili storiche. Ma anche il popolo è il medesimo,
anch'esso, se inserito in uno spazio creativo e non distruttivo, non varie
nelle esigenze vitali e nelle domande di fondo relative alla sicurezza: prima
delle irruzioni etno-mondialiste di oggi, ovunque i popoli erano della stessa
sostanza bio-storica di mille anni fa, cosicché l'Europa del XX secolo era,
antropologicamente, la medesima dell'anno Mille.
Se infatti il nomos della terra è fondamentalmente un intreccio dinamico di
atavismi, risultando come esito di Ordine e di Radice, questi elementi
condizionano il territorio alla stessa maniera di chi quel territorio coabita.
Poiché nelle armonie geopolitiche, popolo e suolo sono di fatto
indistinguibili. Quella che una volta era la lotta per gli spazi, semplice
risvolto dell'eterna lotta per la vita su scala comunitaria, quindi naturale
legge d'ordine tra gruppi omogenei, oggi si è mutata nella lotta tra un
progetto che vuole disintegrare e una resistenza, soprattutto presente
nell'inconscio dei popoli, che non vuole farsi disintegrare. L'era globale
segna il limite delle possibilità di dimensionare la politica sulle evidenze
della terra, cioè sulla geografia. La sovversione mondialista è anche una
sovversione della geografia, oltre che della storia e della legge d'ordine che
con un lavoro di secoli aveva creato le appartenenze. Nella polverizzazione
dello spazio, ottenuta attraverso le concentrazioni metropolitane di masse
servili derubate della terra, accade di vedere il capolavoro di una modernità
che non riconosce più i fondamenti umani dell'esistenza. I creatori di
meccanismi sociali artificiali sanno che il loro dominio infernale sarà
perpetuo il giorno in cui non verrà più riconosciuta alcuna legge: né
quella del sangue, né quella del suolo, né quella dell'ordine, né quella
dello spazio. Per questo il mercato, e soprattutto la finanza che lavora con
una materia incorporea, virtuale, inesistente, il denaro telematico, non sanno
nulla dello spazio e del territorio. Il mercato e la finanza mondiale sono
ubiqui e quale elemento nutritivo concepiscono solo l'etere, l'abbattimento
dei limiti al cui riparo si erano da sempre consolidate le identità. Senza
l'identità nata sul suolo da un sangue comune che ha coscienza di sé, si
apre lo spazio incontrollato del grande Nulla, e questo irrompe nelle
coscienze e nella vita quotidiana di ognuno di noi con la demenza universale
che ovunque, come un moloch reso pazzo dalla vertigine dello smisurato, impone
la violenza di tutti i rimescolamenti in un Caos universale.
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Il
recente voto alla Camera dei Deputati da parte del centro-sinistra contro il
prolungamento della missione militare italiana in Iraq, unica eccezione l’Udeur
di Mastella, non può ingannare nessuno, in quanto non rappresenta
un’autentica svolta rispetto alle posizioni atlantiste della cd.
”opposizione”. Le stesse reazioni d’indignazione ai gravissimi episodi
che hanno visto coinvolti Roma e Washington, l’uccisione di Nicola
Calipari e il rapimento di Abu Omar, sono paradossalmente sfociate nel
viaggio di Francesco Rutelli e Lamberto Dini negli Stati Uniti.
Dal
27 al 30 giugno i due hanno incontrato tra gli altri il finanziere George
Soros e lo stratega Henry Kissinger, grazie alla mediazione di Aryeh Neier
dell’Open Society Institute e di John Podesta, ex chief of staff di Bill
Clinton, nonché rappresentante del Center of American Progress.
L’occasione
è stata fornita dalla presentazione di un manifesto comune tra i
“democratici” delle due sponde dell’Atlantico, molto probabilmente un
pretesto per accedere ai finanziamenti del Soros Fund Management, sempre
generoso quando si tratta di fornire i mezzi per esportare la “libertà”.
Ma
anche per ricevere il via libera statunitense al voto contrario alla
missione in Iraq, specchietto per le allodole (leggasi moltitudini colorate
pacifinte) che si spera dia i suoi frutti in campagna elettorale. Molti,
ingenuamente, ritengono che questi rapporti ad alto livello siano dovuti
all’opera di revisione storica e politica intrapresa dalla sinistra
italiana dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine dell’identificazione
tra Partito comunista e nemico sovietico.
Ancora
oggi suscitano scalpore, perciò, le rivelazioni di ex partigiani che
affermano candidamente di aver lavorato per l’OSS (nel 1948 verrà
ribattezzato CIA) durante la Seconda guerra mondiale(1), rifiutando invece
le offerte di rimanere nel servizio segreto americano dopo la fine del
conflitto.
In
realtà furono decine i militanti del PCI e del PSI arruolati dall’OSS con
il pieno consenso di Palmiro Togliatti e Pietro Nenni, così come
testimoniato dalle ricerche condotte nei National Archives di Washington dal
prof. Giorgio Petracchi(2).
Quello
che la vulgata ufficiale non dice è che con ogni evidenza l’unità
comunista voluta dall’ufficiale statunitense Irving Goff e messa al
servizio del generale William Donovan non fu mai definitivamente
smantellata, bensì solo congelata in attesa degli sviluppi della “guerra
fredda”.
Il
ruolo sotterraneo di collegamento tra USA e URSS svolto da alcuni esponenti
di primo piano del Cumer, il comando unico militare dell’Emilia Romagna,
rimase vivo fino al 1989, riflettendo i rapporti tra le due superpotenze e
soprattutto le diverse strategie che dividevano Dipartimento di Stato e CIA
da una parte, PCUS e KGB dall’altra.
Fino
al 1953, anno della morte di Stalin, il confronto fu sicuramente aspro, in
quanto con l’innalzamento della Cortina di ferro e il completo
rinnovamento degli organi dirigenti interni il dittatore georgiano intendeva
conservare all’Unione Sovietica il ruolo di grande potenza, in alleanza
con l’altro gigante eurasiatico, la Cina di Mao Zedong.
Le
direttive mondialiste, finita la guerra, erano allora chiare: combattere il
comunismo staliniano favorendo l’emergere di tendenze
“nazionalcomuniste” (leggasi “revisioniste”) nei paesi dell’Europa
orientale, un esempio per tutti la Jugoslavia del “fratello trepuntini”
Tito, che romperà clamorosamente con Mosca.
I
successori di Stalin, Malenkov, Kruscev e Berja furono così sottoposti a
una costante pressione dai cd. “liberali” angloamericani, affinché
acconsentissero a un’intesa e ad una cooperazione a tutto campo con
l’Occidente.
La
loro idea era quella di un condominio russo-americano sul continente europeo
e di uno giapponese-americano nel Sud-Est asiatico, la stessa proposta che
ancora oggi viene formulata alla dirigenza
cinese dibattuta tra una politica di “appeasement” e una di confronto a
tutto campo.
Secondo
i dettagli di questa offerta, Mosca avrebbe avuto la garanzia che in nessun
caso le nazioni baltiche, dell’Europa centrale e del Sud avrebbero
minacciato i suoi interessi, in quanto esse sarebbero rimaste sotto il
controllo della NATO.
Una
sorta di zona grigia che si sarebbe sviluppata economicamente ma che non
avrebbe goduto di alcuna sovranità politica.
D’altronde
l’Europa occidentale si trovava già sotto il controllo dei tecnocrati di
Washington, che ne avevano lautamente finanziato il processo di unificazione
sotto la direzione dell’ACUE (Comitato Americano per un’Europa Unita),
organo creato nell’estate del 1948 da Allen Dulles(3).
Dai
primi fondi messi a disposizione dall’OSS, passando per il sostegno
economico delle due conferenze tenutesi a Bruxelles e a Westminster nel
1949, all’edificazione del Movimento europeo, del gruppo Bilderberg e del
Comitato d’Azione di Jean Monnet per gli Stati Uniti d’Europa, fino ai
contributi della CIA alla fine degli anni settanta, questa assistenza si
rivelò decisiva per l’adozione del Piano Schumann, della CED e
dell’Assemblea europea.
Divenuta
operativa nel 1966 la strategia sovietica di compromesso e distensione con
l’Occidente capitalista, gli effetti del condizionamento occulto non
tardarono a manifestarsi presso i più importanti funzionari del Partito
comunista italiano.
Giorgio
Napolitano, ad esempio, alto dirigente di Botteghe Oscure negli anni
settanta (divenuto Presidente della Camera dei Deputati negli anni novanta),
fu il solo quel periodo a soggiornare negli Stati Uniti a spese del Council
on Foreign Relations, mentre si elaboravano il lancio e il finanziamento
dell’eurocomunismo sotto il controllo del Royal Institutes di Londra, di
alcuni membri della Trilateral Commission e dell’Aspen Institute, della
Conferenza di Darmouth e della sezione sovietico-americana dell’Irex.
Appena
tornato da Washington insieme all’altro deputato del PCI, Sergio Segre,
egli si attivò per mettere in moto questa nuova opzione mondialista, in
sintonia con il KGB di Yuri Andropov(4).
La
crisi della manovra trilateralista fu provocata dall’assassinio di Aldo
Moro in Italia e dall’opposizione della dirigenza moscovita riunitasi
attorno al successore di Andropov, Konstantin Cernenko, contraria
all’intesa con gli Stati Uniti.
Ma
i tentativi non finirono lì e per rilanciare l’operazione
dell’eurocomunismo fu necessario salvare
anche il “diavolo”.
Il
4 ottobre 1984, Giulio Andreotti dovette affrontare una mozione parlamentare
che reclamava le sue dimissioni, in ragione della lunga protezione da lui
accordata al banchiere Michele Sindona e altri personaggi in odore di mafia.
Questa
mozione fu però respinta con 199 voti contrari, 101 a favore e 154
astensioni dei deputati comunisti, sollecitati in tal senso da Napolitano e
Segre.
48
ore dopo, mutati come detto gli orientamenti del PCUS, Alessandro Natta
(successore di Enrico Berlinguer alla direzione del PCI) decise di
rivoltarsi contro gli ordini impartiti dai sodali del CFR e reclamò le
dimissioni di Andreotti con una nuova votazione; ma per gli umori del
Parlamento italiano era già troppo tardi e il senatore democristiano riuscì
a salvarsi ancora una volta(5).
Abbiamo
parlato di Sindona e subito il pensiero corre a Licio Gelli, agente triplo
(sovietico, inglese e statunitense) e capo della P2, loggia massonica di
accertata fedeltà atlantica.
In
un’interessante intervista al quotidiano italiano “La Repubblica”, un
sicuro conoscitore dei misteri italiani, Francesco Cossiga, sottolineò le
amicizie dell’ex partigiano e senatore comunista Ugo Pecchioli con il
piduista Giulio Grassini, allora al vertice dei servizi segreti con gli
altri massoni Giuseppe Santovito e Walter Pelosi.
Soffermandosi
sul ruolo avuto da Pecchioli e altri esponenti del PCI nella nomina dei
vertici dei Servizi, l’ex Presidente della Repubblica confermò che
proprio Gelli e la P2 fecero arrivare a Botteghe Oscure attraverso il Banco
Ambrosiano il prestito per il giornale “Paese Sera”(6).
Un
modo elegante per evidenziare come la figura di Pecchioli, allora
vicepresidente dell’organo di coordinamento e supervisione dei Servizi
Segreti, fosse decisiva nella scelta dei generali piduisti del Sismi Pietro
Musumeci e Giuseppe Belmonte, condannati per depistaggio nelle indagini
sulla strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, così come
nell’ascesa del dirigente del Sisde Silvano Russomanno, autore del
depistaggio del 28 agosto(7).
Cossiga
aggiunse anche come non fosse “nemmeno vero che la politica di Moro
dispiacesse agli USA, almeno non più dal momento in cui nasce il governo
Andreotti”, giusto per ribadire il via libera di Washington
all’operazione euro-comunista (il senatore a vita in passato aveva già
confermato all’opinione pubblica il timbro CIA sui governi di
centro-sinistra)(8). Nominato nel 1993 Presidente della Commissione di
controllo sui Servizi Segreti e intervistato da RAI 1, Pecchioli confessò
candidamente che il principale nemico combattuto durante il suo mandato fu
il Patto di Varsavia …
In
questa panoramica non vanno dimenticati gli interventi parlamentari di due
deputati di Alleanza Nazionale, Mirko Tremaglia e Altero Matteoli. Il primo
fece parte della Commissione d’inchiesta sulla P2 e fece notare come negli
atti esaminati comparisse per almeno una sessantina di volte il nome di
Eugenio Scalfari, direttore del progressista quotidiano “La
Repubblica”(9).
Tra
gli affari citati nel dossier spiccano l’accordo tra Caracciolo-Scalfari e
Tassan Din-Rizzoli, rinvenuto in originale a Castiglion Fibocchi e siglato
dallo stesso Gelli.
Ma
anche gli affari strettissimi con il faccendiere Flavio Carboni e i Servizi
Segreti, le manovre per un finanziamento di tre miliardi di lire al Banco
Ambrosiano, le memorie del braccio destro dello stesso Carboni, Emilio
Pellicani.
Matteoli,
relatore di minoranza nella medesima Commissione, rincarò la dose,
ricordando il documento firmato da Gelli e ridenominato “Appunto 22z/Riz”,
cioè l’accordo fra Rizzoli per il gruppo “Corriere” e
Caracciolo-Scalfari per il gruppo “Espresso-Repubblica”.
Questo
patto sigillò la reciproca non belligeranza tra i due gruppi, alfine di
avere le massime possibilità di espansione nelle zone di maggiore
diffusione: “Il gruppo “Corriere” non doveva disturbare nel settore
periodici, il gruppo Caracciolo-Scalfari non avrebbe preso iniziative che
potessero infastidire il “Mondo”. A Caracciolo-Scalfari venivano
garantite entrature sul Banco Ambrosiano”(10).
Il
documento porta la data del 5 luglio 1979 ma già nel 1981 tutto venne
confermato davanti al tribunale di Milano dagli stessi Rizzoli, Tassan Din,
Caracciolo e Scalfari.
A
pag. 60 della relazione di minoranza della Commissione parlamentare
d’inchiesta sulla Loggia P2, un altro deputato, l’On. Massimo Teodori
invece scrisse: “Caso tipico quello del giornalista … Eugenio Scalfari,
che dapprima sostiene la scalata di Cefis alla presidenza della Montedison
ed appoggia la sua spinta accentratrice e poi combatte per appoggiare contro
di lui Michele Sindona, nell’operazione mirata al controllo della Bastogi”.
In
quegli anni, infatti, Carboni riuscì ad intrecciare le alleanze più solide
in direzione degli ambienti repubblicani, dei settori della sinistra
democristiana e della stampa progressista, facente capo al gruppo
Scalfari-Caracciolo.
Lo
stesso gruppo che, insieme all’ingegnere Carlo De Benedetti, sostenne
negli anni Ottanta le proposte di “rinnovamento” democristiano di
Eugenio De Mita e oggi punta tutte le sue carte sul progetto dell’Ulivo (o
dell’Unione) di Romano Prodi.
Di
quest’ultimo, tipico rappresentante dell’establishment mondialista,
passato dalle sedute spiritiche per trovare la prigione di Moro alle
consulenze per la multinazionale Unilever, è sufficiente ricordare il
viaggio negli Stati Uniti del maggio 1998(11), nel quale si distinse per
aver domandato a più riprese “l’instaurazione di una zona di libero
scambio transatlantico” all’interno della quale imprigionare l’Europa
unita.
L’intermezzo
di Massimo D’Alema, protagonista dei bombardamenti sulla Serbia nel 1999
(dopo una telefonata di Clinton) con un governo sostenuto da Verdi e
Comunisti italiani(12), completò il presunto sdoganamento della
“sinistra” tricolore, rifinito in seguito dalla retromarcia di
Bertinotti(13) e dall’adesione di Fassino alla “Dottrina Bush”(14).
Il
duopolio USA-URSS condiziona tutte le varie tappe della “politica”
italiana, compresa la strategia della tensione, il “compromesso storico”
e i governi di solidarietà nazionale, grazie a una dinamica molto simile a
quella attuale. Oggi, infatti, due grandi contenitori partitici privi di
contenuto fingono di affrontarsi nella competizione elettorale ma finiscono
– in nome dell’ “emergenza terrorismo” - per compattarsi sui
principali provvedimenti.
L’obiettivo
ultimo dei burattinai di sempre è quello del “grande centro”, un enorme
guscio vuoto all’interno del quale rinchiudere tutti i movimenti politici,
da AN ai DS (questo è il motivo principale delle manovre di disturbo
compiute recentemente da Fini e Rutelli verso i rispettivi schieramenti),
passando per l’intermezzo del partito unico di centro-destra e di
centro-sinistra.
Alle
“estreme”, probabilmente, verranno lasciati liberi di ruotare Lega Nord
da una parte e Rifondazione Comunista dall’altra, giusto per dimostrare
che esiste ancora un’opposizione: in realtà, il potere rimarrà più che
mai saldo nelle mani delle “centrali” di Washington.
Note
1)
Cfr. un’intera pagina della “Gazzetta di Modena” del 10/7/2007.
Il libro di Ennio Tassinari s’intitola significativamente “Un americano
nella Resistenza”.
2) Petracchi
Giorgio, “Al tempo che Berta filava: Alleati e patrioti sulla Linea
Gotica, 1943-1945”, Milano, 1995. Si confronti anche Claudio Mutti:
“L’amblimoro antifascista” su www.italiasociale.org
3)
La Fondazione Ford, in particolare, aveva il compito di
finanziare i gruppi federalisti. Cfr.
Centre Européen d’Information, La lettre de Pierre de Villemarest, 15 mai
1998, n.5.
4)
Ibidem, 7 juin 1994, n.6.
5)
Ibidem.
6)
« Le confessioni di Cossiga : Io, Gelli e la massoneria »,
« La Repubblica », 11 ottobre 2003.
7)
“Orientamenti e ricerca”, Inverno 1994, n. 22, p. 26.
8)
“Cossiga contro i complottardi”, “Il Resto del Carlino”, 7
novembre 1997.
9)
“P2, Eugenio ha la memoria corta”, “Secolo d’Italia”, 4
febbraio 1995.
10)
“Scalfari e la P2: qualche fatto oltre la demagogia”, “Secolo
d’Italia”, 12 febbraio 1995.
11)
“Centre Européen d’Information”, op. cit., 15 mai 1998, n.5.
12)
Si confronti il mio « Clinton : una vita da bugiardo »
su www.italiasociale.org
13)
Cfr. anche “La lunga marcia del compagno Fausto” su www.italiasociale.org
14)
Cfr. ancora “Fassino show” su www.italiasociale.org
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Rullo
di tamburi del Grande Satana: Guerra!
Stefano Greco
da
"AURORA"
n° 45 (Gennaio 1998)
A otto anni dal tentativo iracheno di ricostruire
l'unità nazionale, incorporando lo staterello feudale e fantoccio del Kuwait
(perfidamente inventato dall'Inghilterra colonialista dopo il secondo
conflitto mondiale), tentativo incoraggiato dalla Francia e giustificato da
esperti americani, continua l'embargo ONU alla faccia delle incredibili
sofferenze dei civili. I conti bancari delle ambasciate di Bagdad nei paesi
occidentali restano bloccati.
Continua
pure ad essere vietato il sorvolo di aerei nazionali nel nord Iraq per
assicurare, si dice, la difesa della popolazione curda. Ebbene in questa
stessa regione il PUK (Unione patriottica del Kurdistan) ha denunciato all'ONU
ripetuti bombardamenti sulle sue postazioni ad opera dell'aviazione turca. La
circostanza che la Turchia possa passare impunemente i confini, ogni qual
volta lo voglia per svolgere azioni militari anche con mezzi pesanti è
piuttosto interessante, se si pensa che il cielo nord-iracheno, scorrazzato da
cacciabombardieri turchi, è stato proclamato da Gran Bretagna e Stati Uniti
«zona vietata al sorvolo», un divieto rivolto evidentemente solo agli aerei
iracheni che sarebbero i soli a trovarsi in spazi aerei propri. Se la zona
vietata al sorvolo è destinata a difendere la popolazione curda, non si
capisce perché nessuno sollevi obiezioni al governo di Ankara, responsabile,
negli ultimi quattordici anni, del massacro di 27mila Curdi. E questa è solo
la cifra ufficiale, di più non è dato sapere. La Turchia non ammette
intromissioni; per essa la questione curda è una faccenda interna,
un'emergenza terroristica da combattere con esercito, polizia, servizi
segreti, ma Saddam Hussein non può certo sentirsi lusingato dal fatto che uno
Stato confinante possa mettere a ferro e fuoco una sua regione, solo perché
alleato a USA e Inghilterra, mentre egli non può neanche sorvolarla.
Se
Saddam è punibile di lesa maestà al padrone del mondo perché si
consente a Benjamin Netanyahu di violare gli accordi presi con i palestinesi e
gli USA? Intenzionalmente si esaspera il governo iracheno, lo si costringe a
un più che legittimo segno d'insofferenza.
Gli
ispettori ONU setacciano l'Iraq da sei anni: hanno trovato e distrutto 38mila
armi chimiche, 480mila litri di agenti chimici attivi per armi chimiche, 48
missili operativi, 6 rampe di lancio, 30 testate speciali per armi chimiche,
centinaia di attrezzature correlate. Ciò nonostante le ispezioni e le
sanzioni continuano senza limiti di tempo. Chi lo tollererebbe? Dopo sei anni
Bagdad avrà ben il diritto, se non di esigere la fine dell'ispezione, almeno
di espellere dal patrio suolo i propri aguzzini, gli ispettori di nazionalità
americana! Ebbene, per gli USA e l'Inghilterra (la special relationship
anglo-americana resiste a tutte le stagioni) questa decisione è un affronto
da purgare con un bagno di sangue e l'eliminazione fisica di Saddam Hussein,
capro espiatorio delle ben più vaste resistenze all'infernale "pax
americana".
Le
aperture di Bagdad (libera ispezione di tutti i siti sospetti; Tereq Aziz apre
ai diplomatici stranieri il palazzo presidenziale più sospetto e non s'è
trovata neppure una pistola ad acqua) sono cadute nel vuoto.
Il
5 gennaio Clinton e Blair, prima in una colazione di lavoro alla Casa Bianca,
poi in una cena trimalcionesca, scandita dalle ugole «d'oro» di Elton
John e Stevie Wonder, concertano la strategia militare da intraprendere. Nel
Golfo arriva la portaerei "Invincibile" della marina inglese; il
Pentagono annuncia lo spostamento del ventiquattresimo corpo dei Marines, a
bordo della portaelicotteri "Guam", che si aggiungerà alle tre
portaerei, due incrociatori, due sottomarini d'attacco, centosettantaquattro
aerei e millecinquecento soldati già in posizione strategica. L'attacco si
prevede violentissimo, il più massiccio dalla guerra del Golfo. Bombardamenti
a tappeto per quattro o cinque giorni con l'utilizzo di missili sparati dalle
navi da guerra di stanza nel Golfo, dalle portaerei e dai cacciabombardieri
dell'aviazione. L'operazione ha già un nome in codice: "Desert Thunder",
"Tuono del deserto".
In
questo frangente quello che l'arroganza USA non capisce, o non vuole capire,
è l'atteggiamento internazionale, ben diverso da quello del '91. L'Iraq non
rappresenta una minaccia. Contro le arrugginite o presunte armi irachene,
Israele dispone un potenziale bellico spaventoso. «Se Saddam non è
completamente pazzo (dice Gerald Caplan, specialista di crisi internazionali),
dovrebbe sapere che se sgancia una bomba su Tel Aviv, noi sganceremo una bomba
atomica sulla sua testa».
Le
malefatte del premier israeliano Netanyahu hanno rinsaldato la
solidarietà dei sentimenti arabi. Se i governi dei paesi arabi si limitano a
opporsi all'intervento americano, i loro popoli simpatizzano apertamente con
Saddam, anche per il gesto di liberalità con cui ha liberato tutti i detenuti
politici. Centinaia di bambini palestinesi manifestano in Cisgiordania con slogans
anti-americani e di solidarietà con i fratelli iracheni, privati delle più
elementari necessità. Perfino la Turchia e l'Iran solidarizzano con l'Iraq. A
nessuno sfugge il reale movente dell'azione armata USA: riaffermare il ruolo
di guardiani e padroni del Golfo, l'area più strategica e sensibile del
mondo.
Dalla
Russia, dalla Francia, dalla Cina, dalla India, dalla maggior parte dei paesi
europei, dal Segretario Generale dell'ONU, dal mondo arabo, dalla Palestina,
si leva un coro di protesta.
Le
parole di Boris Eltsin sono dure: «Se gli Stati Uniti lanceranno un attacco
contro l'Iraq rischieranno la terza guerra mondiale». Il ministro cinese
degli Esteri, Qian Qichen, aggiunge: «L'intervento farebbe moltissime
vittime, aggraverebbe la crisi nella regione e potrebbe creare nuovi conflitti».
"L'Osservatore romano", organo del Vaticano, il 10 febbraio, riporta
il messaggio congiunto dei Patriarchi e Capi della Chiesa del Medio Oriente,
comprese quelle greco-ortodosse, nel quale si definisce «tragica» la
situazione del popolo iracheno, attribuita «all'embargo ingiusto e
ingiustificabile che provoca grave pregiudizio ai civili» e si invitano le
Chiese nel mondo «a esprimere la loro solidarietà al popolo dell'Iraq e al
suo diritto a una vita degna».
E
l'Italia o, meglio, i governanti italiani cosa dicono? Niente! Per non
scontentare nessuno non dicono niente. Il PDS e RC, pur contrari
all'intervento, usano toni soft, attenti a non urtare la suscettibilità
americana, avallando comunque le ragioni del più forte. In sostanza l'opzione
statunitense risulta ben netta. A palazzo Madama si è discusso
sull'opportunità di sbloccare il conto bancario dell'ambasciata di Bagdad
presso il Vaticano. Il 26.11.97 la commissione Esteri del Senato, presieduta
da Gian Giacomo Migone (PDS), ha dato parere negativo. La discussione iniziata
da Tana de Zuleta (anch'essa PDS), definendo la proposta «scorretta», «che
pone importantissimi e gravi problemi di politica estera nei rapporti con i
nostri alleati», è terminata con la sconcertante dichiarazione di Migone: «Se
proprio bisogna dividersi fra USA e Iraq, non mi sembra un crimine stare con
gli USA».
Ora,
alla stessa Commissione, è depositato un nuovo testo, a firma di Russo Spena
e Folloni, per lo sblocco di tutti i fondi iracheni congelati nelle banche
italiane dal tempo dell'embargo, un deposito valutabile intorno ai
240miliardi di lire. Vedremo chi lo appoggerà e chi lo respingerà, quali
sono le forze politicamente credibili e quali no. È questa una di quelle
occasioni storiche che, per dirla con Mussolini, «con la rapidità del
fulmine opera la distinzione tra i forti e i deboli, tra gli apostoli e i
mestieranti, tra i coraggiosi e i vili» (23.3.13). Certo la proposta avrebbe
molte più possibilità di riuscita se fosse sostenuta dalla società civile,
se chi l'avanza non si limita come Ponzio Pilato a dire... Si potrebbe e
dovrebbe fare di più, innanzi tutto riconoscere onestamente nella crisi
USA-Iraq un conflitto locale con effetti globali, una partita decisiva per la
continuazione o per il superamento della divisione del mondo in popoli
sfruttati e popoli sfruttatori. Da questa prospettiva la crisi del Golfo apre
una questione squisitamente politica, umana, rivoluzionaria.
Il
conflitto riguarda tutti e la politica dello struzzo non paga. Si abbia
il coraggio di scegliere tra gli interessi in causa, tra le ragioni
dell'umanità e quelle della borsa. Volendo, questa ennesima crisi
internazionale, potrebbe essere un'occasione formidabile per ricompattare le
frange sparse della sinistra (la vera sinistra), per avviare una nuova
stagione rivoluzionaria affrancata dalle tragiche illusioni del passato.
Stefano Greco
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