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GEOPOLITICA

Eurasia - Limiti geopolitici del Continente Eurasia

Le poste in gioco dietro la crisi iraniana

Il vero bersaglio dei bombardamenti Usa in Pakistan

Rullo di tamburi del grande Satana: Guerra!

Geopolitica come destino del sangue e del suolo

Carlo Terracciano

 Eurasia
 
Limiti geopolitici del Continente Eurasia

 (da Terra degli Avi)

Dopo l’improvviso crollo dell’Unione Sovietica e la fine della divisione politica dell’Europa in due blocchi contrapposti, a risorgere dalle ceneri di Yalta non è stato solo il Vecchio Continente ma anche la Geopolitica. Possiamo anche dire l’una in conseguenza dell’altro, in naturale simbiosi.
Dottrina ostracizzata e demonizzata nel dopoguerra come “pseudoscienza nazista”, oggi le analisi geopolitiche riempiono le pagine di giornali, periodici, rotocalchi, arrivando persino talvolta ad intrufolarsi, QUASI SEMPRE A SPROPOSITO, nei discorsi di politici e  politologi.
Un termine geopolitico che, seppur molto a fatica, si sta facendo strada nelle analisi degli esperti, o presunti tali, è quello di EURASIA.
Forse uno dei più abusati nell’uso che se ne fa ora, quanto fumoso nei reali contorni storico-geografici.
Anche per le evidenti implicazioni di politica internazionale che esso rappresenta e sempre più rappresenterà nel futuro prossimo.

Eppure Eurasia, nella terminologia geopolitica, è un CONTINENTE che ha un ben preciso connotato geografico.
Intanto bisogna sfatare un luogo comune giornalistico, facilmente veicolabile dalla parola stessa, chiaramente composta da “Europa” e “Asia”; e cioè che essa non sia altro che la somma dei due continenti dei quali, in effetti, geograficamente parlando, è innegabile l’unitarietà, essendo l’Europa nient’altro che un prolungamento ad ovest della massa terrestre asiatica, una penisola di grosse dimensioni dell’Asia stessa.
Europa a sua volta suddivisa in penisole (la Scandinavia, l’Iberia, la penisola italica…e isole).
Se a questa unità dovessimo aggiungere l’Africa, avremmo quello che si denomina il Vecchio Mondo (meglio “Mondo Antico”) contrapposto all’altra grande massa di terre emerse che è l’America (le Americhe): potremmo definirla EURASIAFRICA, con un neologismo ridondante.

In verità le cose non stanno affatto così.
Bisogna prima di tutto ricordare che la suddivisione dei continenti considerata dagli studiosi di geopolitica NON corrisponde a quella che ci hanno insegnato fin dalle elementari, cioè i 5 Continenti: Europa, Asia, Africa, America, Australia (i cinque cerchi colorati del vessillo olimpico).
Per la geografia classica i continenti sono masse di terra emersa circondate da mari e oceani ed atte alla vita dell’uomo; la qual  cosa spiega, per esempio, perché l’Antartide, vera isola-continente a se stante, terra perennemente ricoperta di altissimi ghiacciai, non sia mai considerata come tale e semmai posta in parallelo all’Artide, notoriamente fatta solo si ghiaccio.

 Già da questa definizione possiamo dedurre che l’Europa appunto NON è un “continente” neanche per la geografia cattedratica ufficiale, rispondendo solo su tre lati alla caratteristica dell’isolamento marino e oceanico.
Ad est il confine con l’Asia corre lungo la catena degli Urali per oltre 2000 km., da Circolo Polare Artico, al fiume Ural e al Caspio.
Montagne non particolarmente alte, 1000/1500 metri e che al centro e sud degradano verso la depressione caspica. Poco più che un sistema collinare esteso in verticale.

Nei millenni gli Urali non hanno mai rappresentato un vero baluardo alle migrazioni di popoli, in un senso e nell’altro, come dimostrano tra le tante le invasioni mongoliche della Russia e la colonizzazione russa della Siberia.

In Geopolitica i continenti sono quelle aree della Terra che, per le loro caratteristiche di OMEGENEITA’, CONTIGUITA’, INTERDIPENDENZA economica, politica, umana, rappresentano una UNITA’, geografica e [quindi] anche storica; favorendo migrazioni di popoli, interscambi, conquiste che passano per alcuni nodi geostrategici essenziali.

E si badi bene: queste Aree Geopolitiche Omogenee NON sono nettamente confinanti l’una con l’altra, ma intersecantesi tra loro. Proprio come i cerchi olimpici rappresentati l’uno concatenato all’altro.
Ecco perché le aree confinarie, sul modello non del confine moderno ma del  limes romano, sono rappresentate da fascie, molto estese e non nettissimamente definibili.
Così uno o più stati odierni possono appartenere ad almeno due unità geopolitiche confinanti, anzi intersecatesi.
Esempio: le penisole meridionali della grande penisola Europa, Iberia, Italia, Grecia sono certamente eurasiatiche (nel senso che specifichiamo oltre), ma contemporaneamente e altrettanto certamente Mediterranee.
Il Mediterraneo (in medium terrae) infatti, mare chiuso, con numerose isole e penisole e con stretti che lo collegano sia all’Atlantico, che al Mar Nero e al Mar Rosso/Oceano Indiano (specie dopo l’apertura del canale di Suez) è esso stesso un’unità geopolitica.
Non separazione, ma passaggio e collegamento tra le sue coste a nord e a sud, in Medio Oriente e nord-Africa, fin dai tempi più remoti.
La posizione privilegiata della penisola italica al centro, con la Sicilia come nodo strategico di controllo (si pensi al ruolo decisivo del suo possesso nello scontro mondiale tra Roma e Cartagine o durante l’avanzata islamica o anche nell’invasione USA del continente nel 1943), spiega, per esempio, come gli etruschi prima e i romani poi siano stati per secoli i dominatori dell’area e questi ultimi gli unificatori totali del bacino mediterraneo.
A sua volta il nordafrica arabo-islamico rappresenta un’altra catena intersecantesi con l’Europa attorno a questo mare, fino alle propaggini mediorientali; mentre il vero baluardo tra Magreb e “Africa Nera” corre a sud, nel vasto mare non di acqua ma di sabbia che, dopo il Sahel arriva alle savane e alle boscaglie nel cuore dell’Africa.
Sahel e savana sono la loro elissi di congiunzione.

 Avendo sempre ben presenti questi presupposti, torniamo alla nostra Eurasia.
L’unità geopolitica dell’Eurasia è allora rappresentata dalla penisola Europa, ben oltre la non rilevante “strozzatura” tra Kalinigrad e Odessa, fino agli Urali E l’intera Siberia, fino al mare di Okhotsk/Mar del Giappone, con a sud Vladivostock, la “Porta d’Oriente” e a nord lo stretto di Boering. Uno stretto peraltro superato nei millenni passati dalle popolazioni siberiane che raggiunsero il continente poi americano, percorrendolo da nord a sud, nonché da esploratori russi che arrivarono fino a metà dell’attuale California !
Il VERO confine dell’ Eurasia, come unità sia geografica che politica, è quindi dato a nord dal Mare Glaciale Artico fino al Polo, ad ovest dall’Atlantico (vero separatore storico-geografico di due masse continentali ben distinte), a sud dal Mediterraneo/Bosforo/Mar Nero, fino al Caspio, lungo la linea meridionale del Caucaso.

In Asia poi, da sempre, sono i deserti centroasiatici e le grandi catene montuose ad aver rappresentato il più naturale ostacolo tra “bacini geopolitici omogenei”; certo non insuperabili, ma comunque tanto ben netti da creare diversi tipi di civiltà, almeno fino all’avvento della moderna tecnologia di movimento.
Per esser più precisi, partendo dal nord-Caspio e fiume Ural, potremmo indicare nel 50° PARALLELO  all’incirca la linea di separazione tra Eurasia “bianca” (termine che usiamo senza alcuna connotazione razziale”) e Asia Turcofona; una fascia quest’ultima a sua volta storicamente omogenea, che corre dalla costa mediterranea della repubblica turca fino ai bassopiani delle ex repubbliche sovietiche islamiche e al Sinkiang cinese; Tagikistan escluso, il quale, a sua volta fa parte di quell’Islam “ariano” che comprende Iran, Afghanistan e Pakistan, fino al tradizionale confine dell’Indo.
Oltre inizia il “subcontinente indiano” che, protetto a nord dal bastione himalayano, ha sviluppato nei millenni una sua civiltà autonoma, che oggi conta ben oltre un miliardo di individui.
Altra unità geopolitica l’Asia “gialla” con Cina - Mongolia - Corea - Giappone e poi Birmania - Indocina - Thailandia - Malesia fino agli arcipelaghi meridionali che, con l’Indonesia e la Guinea rappresentano il “ponte di isole” verso la grande isola-continente Australia.

Tornando alla nostra Eurasia a nord del 50° parallelo del Kazakhistan, ancora abitato da forti minoranze russe post-sovietiche, possiamo considerare l’attuale confine russo-mongolo-manciuriano, dagli Altaj fino all’Amur-Ussuri come il confine tra i due mondi, le due “Asie”, o meglio l’Eurasia propriamente detta e le altre unità geopolitiche della più grande massa continentale mondiale.
Notiamo per inciso che il baricentro di questa Eurasia, praticamente la Siberia nord-occidentale a ridosso degli Urali, fu indicato dal geopolitica inglese Sir Halford Mckinder, all’inizio del secolo scorso,  come il famoso HEARTLAND, il “Cuore della Terra”, cioè il retroterra logistico della massa continentale più lontano e difendibile dall’attacco di una potenza marittima (ieri Impero Britannico, oggi Stati Uniti).
Nel conflitto planetario tra il “Mare” e la “Terra”, intese come categorie geopolitiche in conflitto, il possesso dell’Heartland assicurerebbe il controllo dell’Eurasia, quindi dell’Isola Mondo, quindi del mondo intero.

Le recenti invasioni americane di Afghanistan e Iraq, con minacce all’Iran e alla Corea del Nord e gli avamposti nel Caucaso (Georgia) e nelle repubbliche ex-sovietiche dell’Asia centrale, possono essere letti (non solo, ma anche e diremmo principalmente) come il tentativo di penetrare quanto più possibile all’interno della massa continentale, verso l’Heartland appunto: mirando da una parte al “ventre molle” della Russia ancora non ripresasi dalla crisi post-sovietica dell’implosione dell’impero e dall’altra alle spalle “terrestri” della Cina, il cui baricentro politico e demografico è tutto spostato a oriente, verso il mare e le cui retrovie terrestri sono abitate in buona parte da popolazioni non-cinesi (Uiguri, Tibetani, Mongoli).

La geostrategia della talassocrazia americana da due secoli a questa parte è di una tale linearità, a prescindere dal succedersi delle “amministrazioni” al potere a Washington, da non lasciare alcun dubbio sugli effettivi intenti anti-eurasiatici degli Stati Uniti d’America.
I quali possono sempre contare sull’inviolabilità del proprio continente isola, almeno fino all’ 11 settembre 2001…

A occidente dell’Eurasia le isole atlantiche e in particolare l’Islanda fanno parte sempre della storia e della geografia d’Europa, almeno dalle spedizioni vichinghe in poi.

Notiamo infatti come la grande epopea scandinava sia arrivata da una parte alle coste americane (la Groenlandia e la Vinlandia) e dall’altra abbia attraversato per via fluviale l’intera Russia, dal Baltico al Mar Nero, per non parlare dei Normanni in Sicilia.

L’unità eurasiatica da Reykjavik a Vladivostok, al di là dell’assonanza, è quindi una REALTA’ GEOPOLITICAMENTE (cioè geograficamente e storicamente) OMOGENEA.
L’Islanda in questo senso, per la sua collocazione nord-Atlantica, non è solo parte integrante del mondo europeo scandinavo, ma eventualmente avamposto della difesa dell’Eurasia in quel settore, contro la minaccia marittima dell’altro lato dell’Atlantico. Non per nulla, cosa poco nota, fu occupata subito dalle truppe angloamericane che attaccavano la “Fortezza Europa” nella II Guerra Mondiale.
La Groenlandia stessa, legata oggi alla Danimarca, pur se lontana geograficamente, è parte di questa storia europea.
E’ la più grande isola del mondo, con i suoi 2.175.000 kmq.
Thule (l’attuale Qaanaaq) tra lo Stretto di Nares e la Baia di Baffin è l’estremo avamposto proprio di fronte alla costa americana. Per esser precisi alle isole del nord Canada.

L’Eurasia unita delineata dalla Geopolitica sarebbe indubbiamente il più esteso stato del mondo, con una popolazione etno-culturalmente omogenea, ma con una ricchezza di minoranze che rappresenterebbero i naturali punti di saldatura con le nazioni e i popoli delle altre “nicchie geopolitiche” confinanti: arabo-mediterranea, turche, iraniche, sino-mongoliche.
E non dimentichiamo che lo stesso continente americano, sia quello “latino” ispano-lusitano a sud che, a nord, il Quebec francofono, hanno ancor oggi strettissimi rapporti di sangue, di lingua, di civiltà con il nostro mondo e l’Eurasia così delineata.
L’Eurasia inoltre, per le sue dimensioni e la sua potenza, per la sua cultura e la sua pluralità creativa,  rappresenterebbe un fattore di stabilità, di pace e di vero progresso nella Tradizione per tutti i popoli al di qua dell’Atlantico e del Pacifico.

Una stabilità di equilibrio offerta soprattutto dal riconoscimento dei rispettivi limiti geopolitici di appartenenza, in sinergica collaborazione tra aree comunque autarchicamente autosufficienti.

Ma, ovviamente, anche gli strateghi mondialisti della superpotenza oceanica USA conoscono la Geopolitica, le sue regole, i suoi confini.
Essa è materia di studio nelle università americane e nei centri strategici militari.
Del resto è già dai tempi dell’Ammiraglio Mahan che le FFAA U.S.A hanno tracciato le linee espansive della loro geostrategia planetaria.
Il mito mobilitante del “Far West”!
La marcia ad Ovest che prosegue idealmente il viaggio previsto da Colombo dall’Europa all’Asia, prosegue tutt’ora.
Oggi in Afghanistan, in Iraq, in Medio Oriente, con la base fissa di Israele, domani ancor oltre contro Cina e Russia: QUINDI contro il nostro retroterra strategica, di noi europei.
Già l’Europa occidentale fu sottomessa nella II Guerra Mondiale e incatenata nei trattati asimmetrici con al centro l’America, come la NATO, oramai superata, attorno all’asse oceanico atlantico.
Una logica geopolitica “marittima” che ritroviamo nell’opera del trilateralista Huntngton.

La nuova Europa che si tenta oggi di formare sarebbe solo un moncherino se fosse privata della sua naturale proiezione geopolitica siberiana, delle sue materie prime , ma soprattutto del suo SPAZIO vitale che in Geopolitica fa la potenza di uno stato, anzi E’ POTENZA.
Lo scontro tra Eurasia e America, fra Terra e Mare, fra Civiltà tradizionale e Mondo Moderno, tra Imperium e globalizzazione è inevitabile alla lunga, perché iscritto nelle leggi immutabili della Storia e della Geografia.

O sapremo riconoscere l’inevitabilità del nostro destino geopolitico ed agire di conseguenza o saremo destinati a scomparire in un pulviscolo di staterelli impotenti, assoggettati tutti dall’unico comune denominatore dell’american way of life, il vero nome della globalizzazione mondialista

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Le poste in gioco dietro la crisi iraniana
:::: 11 Febbraio 2006 :::: 13:03 T.U. :::: Analisi :::: Voltaire, édition internationale

Continua la progressiva crescita di tensione tra le potenze atlantiste preoccupate di controllare le ultime riserve di idrocarburi e la Repubblica islamica dell’Iran. Su pressione britannica, i membri permanenti del Consiglio di sicurezza sono convenuti a ridefinire le relazioni tra l’Agenzia internazionale dell’energia atomica e l’ONU. Questo compromesso dovrà facilitare il compito ai sostenitori del confronto armato, mentre la Russia e la Cina temporeggiano. In effetti, Vladimir Putin si prepara a svelare un progetto di grande portata che risolverebbe definitivamente il problema della proliferazione nucleare, pur garantendo il diritto di ogni nazione a disporre dell’energia atomica a fini civili.

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1 febbraio 2006


Il confronto tra grandi potenze a proposito dell’Iran procede a fasi alterne. Dal dicembre 2002, gli Stati Uniti accusano l’Iran di cercare di dotarsi dell’arma atomica in violazione del Trattato di non proliferazione nucleare (TNP). Essi tentano di ottenere una formale condanna dell’Iran da parte del Consiglio di sicurezza, che interpreterebbero come un segnale di via libera che consentirebbe loro di attaccare la Repubblica islamica. [1].

Il dominio di Washington sull’Iran significherebbe una presa di controllo militare della riva Est del Golfo e della riva Sud del Caspio, delle loro riserve di petrolio e di gas naturale stimate, le une e le altre, come le seconde del mondo [2]. Già ora, gli Stati Uniti hanno preso il controllo militare di una parte del bacino del Caspio e del corridoio che permette di collegare quella zona all’Oceano Indiano (Afghanistan, Pakistan). Hanno pure preso il controllo militare della parte essenziale del Golfo (Arabia Saudita, Iraq). Alla fine di questa operazione, Washington dovrebbe dunque impadronirsi delle principali zone di attuale sfruttamento degli idrocarburi e delle principali riserve restanti da sfruttare. L’economia mondiale sarebbe nelle sue mani ed il suo potere sarebbe assoluto.

Allo stadio attuale del conflitto, le grandi potenze sono divise di fronte alle accuse statunitensi. Il Regno Unito, la Francia e la Germania sono convinte di un progetto nucleare militare iraniano. Essi si basano su rapporti dei servizi d’informazione statunitensi. In documenti confidenziali, questi affermano che Teheran lavora a un Green Salt Project che punta a sviluppare un vettore e delle testate per missili nucleari. Al contrario, la Russia, la Cina e l’India ritengono che il programma nucleare iraniano sia puramente civile [3]. Esse si fondano sulla fatwa pronunciata dalla Guida suprema, l’ayatollah Ali-Hosseini Khamenei, che condanna la fabbricazione, la detenzione e l’uso della bomba atomica come contrarie all’etica islamica.

Oggettivamente, la distinzione del TNP tra nucleare civile autorizzato e nucleare militare proibito, allo stato attuale della tecnologia, non è più pertinente. Le conoscenze tecnico-scientifiche e le installazioni civili possono trovare rapidamente un utilizzo militare. Una lettura rigida del TNP porterebbe a proibire ad ogni Stato di dotarsi di un’industria nucleare civile, mentre una lettura permissiva del trattato aprirebbe le porte ad una proliferazione generalizzata. Non essendo deciso questo dibattito, è impossibile risolvere serenamente il caso iraniano, ed è precisamente questa labilità che gli Stati Uniti intendono sfruttare per arrivare alla guerra [4].

Tuttavia, esiste forse un mezzo per chiarire tale situazione. Un metodo particolare di arricchimento dell’uranio, finora non completamente acquisito, permetterebbe di distinguere nuovamente l’uso civile da quello militare. La Russia si è impegnata nel metterla a punto e si propone dunque di farne beneficiale non solo l’Iran, ma tutta la comunità internazionale. Questa dovrebbe essere una delle tre grandi proposte del presidente Putin durante il vertice del G8 che quest’estate egli presiederà a San Pietroburgo.

La realizzabilità di tale progetto deve essere dimostrata. La Russia fabbricherebbe il combustibile nucleare sul suo territorio, in impianti costruiti congiuntamente agli Stati beneficiari e sotto il controllo dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica (AIEA). Restano da elaborare dettagliati protocolli per garantire gli interessi dei diversi protagonisti. Se questo progetto andasse in porto, le intere relazioni internazionali si troverebbero rovesciate. La Russia, apportando sicurezza energetica al mondo, eclisserebbe l’autorità degli Stati Uniti che oggi soddisfano la loro sicurezza energetica a detrimento del resto del mondo.

L’Iran ha innalzato la sua ambizione nucleare civile fino a farne il simbolo della sua indipendenza nei confronti del colonialismo anglosassone del quale tanto ha sofferto. [5]. Contrariamente ad un’idea da tempo diffusa sulla stampa atlantista, questa ambizione non è propria di una fazione del potere iraniano, ma trova consenso in tutta la società. Inoltre, se la Repubblica islamica ha abbandonato il suo sogno di espansione della rivoluzione khomeynista, essa oggi intende interpretare un ruolo motore nel movimento dei non-allineati in via di rivitalizzazione. Essa intende anche condividere con altri la sua rivendicazione e far trionfare il diritto ad un’industria nucleare civile non solo per se stessa, ma per tutti.

Lungi dal sollevare la sola questione del futuro dell’Iran, il gioco diplomatico in corso comporta dunque l’equilibrio internazionale e la pretesa statunitense, riaffermata ieri nel discorso sullo stato dell’Unione, di assumere da soli la le leadership mondiale.

Durante gli anni 2004-2005, i diversi protagonisti hanno moltiplicato le loro manovre. Si riteneva che una troïka europea (Francia, Regno Unito, Germania) facesse da intermediaria tra Washington e Teheran ; essa aveva chiesto agli Iraniani un congelamento della situazione, per poi sbilanciarsi nettamente dalla parte degli statunitensi. L’Iran, dopo aver accettato una moratoria di due anni e mezzo sulle sue ricerche, le ha riprese il 10 gennaio 2006, considerando di aver atteso abbastanza per dimostrare la sua buona volontà, mentre gli Europei non avevano avanzato alcuna proposta seria. La posizione russa era diventata illeggibile, in quanto il ministri degli Esteri russo lasciava intendere che si sarebbe allineato al punto di vista dei suoi omologhi occidentali, prima di farsi pubblicamente rimettere a posto dal presidente Putin che ribadiva la sua fermezza per una soluzione pacifica. Infine, nelle ultime settimane, numerosi viaggi diplomatici hanno permesso ai dirigenti russi, cinesi e iraniani di elaborare una comune strategia.

Il dossier ha avuto una brusca evoluzione con l’organizzazione da parte del Regno Unito, il 30 gennaio 2006, di una « cena ministeriale privata », che ha riunito i ministri degli Esteri britannico, francese, tedesco, russo, statunitense e cinese. Nel corso della riunione, il britannico Jack Straw ha proposto che l’AIEA porti la questione davanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, prima tappa del processo verso la guerra. I suoi omologhi russo e cinese hanno opposto che una tale decisione non ha allo stato attuale alcuna base giuridica. Confidando nella realizzabilità del suo progetto di arricchimento dell’uranio, la Federazione Russa desidera temporeggia giusto per arrivare alla messa a punto di un protocollo di accordo con l’Iran: da uno a due mesi, secondo gli esperti. I convitati hanno concluso la cena definendo un’agenda che ogni parte interpreta come una vittoria : la prossima settimana, il Consiglio dei governatori dell’AIEA non trasmetterà il dossier iraniano al Consiglio di sicurezza, perché non ne ha il potere, ma invierà ad esso un rapporto che richiederà l’adozione di misure che rafforzino la sua autorità in modo che in futuro possa farlo.
Questo compromesso permette agli Euro-statunitensi di mantenere la pressione e ai Russo-cinesi di guadagnare tempo. Sapere chi ha vinto quella sera, dipende da come si vede il bicchiere, se mezzo pieno o mezzo vuoto.
In pratica, supponendo che il Consiglio di sicurezza dia potere di deferimento al Consiglio dei governatori dell’AIEA, quest’ultimo non potrebbe metterlo in atto che nel corso della prossima riunione, il 9 marzo.

Gli Iraniani hanno finto di sentire questo mercanteggiare come un possibile abbandono dei loro amici russi. Potrebbe comunque darsi che essi abbiano ottenuto per iscritto la garanzia che la Federazione Russa opporrà il suo veto al Consiglio di sicurezza in caso di risoluzione che autorizzi la guerra.
In ogni caso, gli Iraniani si sono affrettati a chiamare all’appello i loro partner del movimento dei non-allineati. Il presidente Mahmoud Ahadinejad ha ottenuto per via telefonica il sostegno del suo omologo sud-africano Thabo Mbeki (il Sud-Africa, che aveva fabbricato la bomba atomica con Israele durante il regime dell’apartheid, vi ha successivamente rinunciato). L’Indonesia ha moltiplicato le dichiarazioni distensive, mentre il Venezuela e la Malesia si preparano a ricevere il presidente iraniano.

Nello stesso tempo, l’Iran prepara « un mondo senza Israele, né gli Stati Uniti ». Teheran spera ottimisticamente di dare vita ad una borsa del petrolio che rifiuti il dollaro. Essa già funziona in modo sperimentale. Anche se nessuno Stato ha ufficialmente annunciato che vi parteciperà, molti incoraggiano delle società intermediarie a ricorrervi. Ora, il dollaro è una moneta iper-valutata che si mantiene essenzialmente perché è la divisa delle transazioni petrolifere [6]. Una tale borsa, se funzionasse realmente anche trattando solo un decimo del mercato del petrolio, provocherebbe un crollo del dollaro paragonabile a quello del 1939. La potenza statunitense ne sarebbe devastata e, a termine, anche Israele sarebbe al fallimento.

Washington è dunque obbligata ad usare tutto il suo peso sugli attori economici internazionali perché essi rompano con Teheran. Se non alla guerra, gli Stati Uniti devono almeno giungere ad imporre un isolamento economico dell’Iran.
Paradossalmente, nessuna di queste due opzioni sembra praticabile. L’US Air Force e Tsahal non possono ragionevolmente bombardare i siti nucleari iraniani, perché il funzionamento di questi è gestito da consiglieri e tecnici russi. Colpire l’Iran sarebbe anche dichiarare guerra alla Russia. Del resto, se fossero possibili degli attacchi, l’Iran non mancherebbe di rispondere su Israele con i devastanti missili Thor M-1 che la Russia gli ha venduto. E gli Sciiti dell’Iraq renderebbero la vita ancora più dura alle forze d’occupazione. Nel caso in cui gli Stati Uniti preferissero utilizzare il blocco economico, esso sarebbe aggirato dall’Iran attraverso il suo accordo privilegiato con la Cina. In ogni caso, il blocco priverebbe « l’Occidente » di una parte del suo approvvigionamento in petrolio, provocando un rialzo del 300 % del prezzo del barile e una vasta crisi economica.

In definitiva, l’esito di questa prova di forza dipende dalla capacità di ciascun protagonista di adattare il suo calendario a quello degli altri. Al contrario, l’amministrazione Bush preme caparbiamente verso un confronto che essa non ha i mezzi per gestire e nel quale rischia di perdere la sua autorità.

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[1] Vedi gli articoli « Le duel Washington-Téhéran », di Thierry Meyssan, Voltaire, 6 settembre 2005 e le Tribunes et Décryptage « Iran : la diabolisation avant quoi ? », Voltaire, 16 gennaio 2006.

[2] Per maggiori informazioni sulle riserve di idrocarburi, vedi i nostri articoli « Le déplacement du pouvoir pétrolier » e « L’avenir du gaz naturel ».

[3] Vedi in particolare, nella nostra rubrica « Tribunes et Décryptage » : « L’Iran et la Russie souhaitent renouer avec l’Europe de l’Ouest », Voltaire, 22 seyyembre 2005, come l’articolo « Face aux États-Unis, l’Iran s’allie avec la Chine », Voltaire, 17 novembre 2004.

[4] Vedi l’articolo « François Géré : « La position iranienne à propos du nucléaire est légitime », di François Géré, Voltaire, 22 maggio 2005.

[5] Vedi in particolare l’articolo « BP-Amoco, coalition pétrolière anglo-saxonne », di Arthur Lepic, Voltaire, 10 giugno 2004.

[6] Vedi l’articolo « Le talon d’Achille des USA », di L.C. Trudeau, Voltaire, 4 aprile 2003.

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Il vero bersaglio dei bombardamenti USA nel Pakistan       Da EURASIA
:::: 1 Febbraio 2006 :::: 7:22 T.U. :::: Analisi :::: Voltaire, édition internationale

L’8 e il 13 gennaio 2006, gli Stati Uniti hanno bombardato il loro alleato pakistano, con il pretesto di voler eliminare il « numero 2 di Al Qaida » Al Zawahiri. Successivamente, importanti manifestazioni hanno scosso il Pakistan per denunciare queste azioni. Perché questi bombardamenti fanno in realtà parte della repressione etnica che gli Stati Uniti conducono nel paese per mantenere il controllo della dittatura del generale Musharraf sulla zona del Balucistan, ricca di gas. La stampa atlantista si sforza di nascondere la realtà all’opinione pubblica internazionale scambiandola con la favola di Al Qaida.

Le agenzie di stampa atlantiste ci parlano in modo confuso della situazione nel Pakistan. Il fatto è che le spiegazioni contorte dei dirigenti statunitensi e pakistani mirano, con la copertura della caccia ad Al Qaïda, a mascherare importanti operazioni congiunte di pulizia etnica in una regione ricca di gas. La dittatura militare mostra il sorriso davanti alle telecamere.

Quando era capo di stato maggiore, il generale Pervez Musharraf aveva fomentato incidenti con l’India, provocando la guerra di Kargil (Kashmir). Tuttavia, vista la resistenza dell’esercito indiano e la pressione della comunità internazionale, il Primo ministro dell’epoca, Nawaz Sharif, giudicò più saggio battere in ritirata. Ne seguì un confronto tra militari e civili e la revoca di Musharraf, mentre si trovava in trasferta all’estero. Ma, avendo previsto la situazione, il generale ritoornò surrettiziamente, il 12 ottobre 1999, e si impadronì del potere senza spargimento di sangue.

All’epoca, il presidente Clinton aveva blandamente condannato il colpo di Stato, in nome della democrazia, ma il generale Anthony C. Zinni, comandante in capo del Central Command, sostenne i golpisti senza riserve. Si chiusero dunque gli occhi. Il generale Musharraf restò per alcuni mesi al bando della comunità internazionale fino all’agosto 2001, alla rottura dei negoziati tra gli Stati Uniti e lo pseudo-emirato dei Talebani circa la costruzione di un oleodotto che doveva collegare il Caspio all’Oceano Indiano [1]. Egli offrì allora l’aiuto dei suoi servizi segreti, l’ISI, per rovesciare i Talebani che essi stessi avevano inquadrato ed insediato alla testa di un auto-proclamato emirato. Seguirono gli attentati dell’11 settembre, la designazione dei Talebani come responsabili e l’innalzamento di Pervez Musharraf a pilastro della guerra al terrorismo.

Egli cumula sempre le sue funzioni di capo dello Stato e dello stato maggiore, ma in realtà le condivide con l’ambasciatore Ryan C. Crocker [2]. Entrambi supervisionano lo sfruttamento dei campi di papavero afgani e, tramite questi, il finanziamento delle operazioni nere della CIA [3].

La dittatura non sembra disporre di sufficiente sostegno dalla popolazione. Essa si mantiene soprattutto sfruttando abilmente le divisioni della sua opposizione, in seno alla quale si confrontano islamisti e laici, e appoggiandosi agli Stati Uniti.

Il paese è organizzato secondo un sistema federale. Oltre al disputato Kashmir e due territori, esso si divide in quattro province : Sind, Panjab, Balucistan, Provincia della frontiera Nord-Ovest. Le ultime due includono zone tribali che godono di una certa autonomia. Nel corso degli ultimi anni, si p sviluppato tra i Baluci un forte movimento regionalista. La popolazione reclama di non voler più essere esclusa dallo sviluppo economico ed è indignata dal fatto che quasi nessuno dei 72 più alti funzionari della regione sia un baluci. Esprimendosi inizialmente in un satyagraha gandhiano, il movimento si traduceva in occupazioni non violente di edifici pubblici. La repressione è diventata sanguinosa da quando si è scoperto che la regione è ricca di gas naturale. Così, in un secondo tempo, p stato costituito un Esercito di liberazione del Balucistan (BLA), che recluta in massa tra i giovani. L’esercito pakistano, che dispone di una solida tradizione repressiva nel ricordo del massacro delle élite e dei giovani baluci del 1971, ha deciso di sradicare la contestazione. Le forze USA si sono unite ad esso, perché il famoso oleodotto che deve collegare il Caspio all’Oceano Indiano non deve passare solo per l’Afghanistan, ma anche per il Balucistan. Le operazioni di pulizia etnica sono celate alla comunità internazionale sotto la copertura della guerra al terrorismo. Sui media atlantisti è stata riversata un’abbondante propaganda per definire la zona tribale del Balucistan una base di retrovia di Al Qaida e per ottenere così l’indifferenza delle opinioni pubbliche.

Nel 2001, le forze armate USA avevano utilizzato basi militari in territorio pakistano per dare assistenza ai baroni della droga contro lo pseudo-emirato dei Talebani e per insediare al potere a Kabul un cittadino statunitense, Hamid Karzaï. Mai i GI’s non si sono dispiegati sul territorio pakistano che in occasione del terremoto dell’8 ottobre 2005. Con il pretesto di un’assistenza umanitaria tanto pubblicizzata quanto parsimoniosa, le forze USA hanno investito il Kashmir e la Provincia della frontiera Nord-Ovest. Esse sono state appoggiate dalla NATO che ha mobilitato la sua Unità E-3. In realtà, questa comprende 3 Boeing 707 trasformati in cargo e utilizzati per il trasporto di aiuti umanitari, ma soprattutto, 17 aerei da ricognizione AWACS, destinati a supervisionare la repressione nel Balucistan. Le operazioni sono dirette, dalla Germania, dallo SHAPE (quartier generale dell’alto comando delle forze alleate in Europa) e, dagli Stati Uniti, dal Central Command.

Il primo dicembre 2005, gli eserciti pakistano e USA hanno iniziato un’operazione per eliminare i Sadar delle tribù Marri, Bugtis e Mengal. A tal fine, essi si sono basati sulla Legge contro le tribù criminali che altro non è se non la riedizione della Regolamentazione del crimine sulle frontiere promulgata nel XIX secolo dall’Impero britannico. Sembra che i combattimenti siano stati molto sanguinosi. Ma non vi sono testimonianze affidabili, poiché l’esercito pakistano non ha esitato a sparare, per costringerli a fuggire, sugli osservatori inviati dalla Commissione per i diritti dell’uomo del Pakistan.

Il primo dicembre, da un aero da ricognizione della CIA è stato tirato sul villaggio di Haisori a Nord della zona tribale, uccidendo almeno cinque persone. Il 3 dicembre, in una conferenza stampa durante il suo viaggio nel Kuwait, il generale Musharraf garantiva di essere « pressoché sicuro » che quel raid aveva permesso di eliminare un dirigente di Al Qaida, l’egiziano Abu Hamza Rabia. Non lontano da lì, al posto di frontiera di Mir Ali, il 7 gennaio 2006, violenti scontri hanno opposto l’Esercito di liberazione del Balucistan (BLA) alle forze pakistane. 24 insorti e 17 soldati sarebbero stati uccisi nei combattimenti. Per recuperare dei soldati fatti prigionieri dal BLA, le forze USA hanno organizzato un’operazione aviotrasportata di soccorso che si è tradotto in un bombardamento supplementare che ha fatto almeno 8 morti e 19 feriti. In seguito a questo incidente, il governo pakistano ha rivolto una forma protesta alla Coalizione. Il portavoce del ministro degli Esteri pakistano ha dichiarato che gli Stati Uniti hanno negato ogni responsabilità e che è in corso un inchiesta per determinare l’accaduto. Queste grottesche dichiarazioni ufficiali lasciano pensare che lo scontro di Mir Ali abbia in realtà opposto il BLA a forze speciali USA in uniforme pakistana e che lo stato maggiore pakistano non controlli più granché.

Il 13 gennaio 2006 ha luogo un altro bombardamento. 4 aerei da ricognizione Predator hanno colpito per due volte il villaggio di Damadola, nella zona tribale, facendo 18 morti, tra cui 11 bambini, e 6 feriti. In un primo tempo, il portavoce del governo, il maggiore-generale Shaukat Sultan, non è stato in grado di riferire i fatti alla stampa e ha escluso ogni possibilità di un intervento militare statunitense. Ma è rapidamente emerso che si trattava di un bombardamento da parte dei Predator della CIA. Il governo è allora ricorso ad una nuova versione : la Coalizione sarebbe stata informata della presenza nel villaggio, in occasione della festa del montone, del n. 2 di Al Qaida, Ayman Al-Zawahri. Essa avrebbe tentato di eliminarlo, ma non ci sarebbe riuscita.

Dopo il bombardamento della propria popolazione da parte di una potenza straniera, il presidente Musharraf si è ben guardato dall’espellere il suo ambasciatore Crocker o di chiedere una riparazione di fronte alla Corte internazionale di arbitraggio de L’Aia. Si è limitato a scrivere una lettera pro-forma di disapprovazione. La signorina Condoleezza Rice, segretario di Stato degli Stati Uniti, non ha confermato né smentito l’implicazione del suo paese nel raid aereo, ma ha commentato l’agire ufficiale pakistano indicando che Washington coopera pienamente con Islamabad nella guerra al terrorismo e che risponderà alla lettera che le è stata inviata.

Domenica 15 gennaio, in tutte le grandi città del paese sono state organizzate importanti manifestazioni per protestare contro l’aggressione straniera. L’opposizione sostiene che non serve a niente allearsi con gli Stati Uniti, se questo significa essere bombardati da essi. Denuncia la visita programmata di George Bush padre, in qualità di inviato speciale dell’ONU presso le vittime del terremoto, e reclama le dimissioni del « traditore » Musharraf. Segno dei tempi, il Muttahida Qaumi Movement (MQM), uno dei partiti che sostengono la dittatura militare, ha preso parte alle manifestazioni.

16 gennaio 2006

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[1] Vedi L’Effroyable imposture di Thierry Meyssan, Carnot éd., 2002, pp. 132-138.

[2] L’ambasciatore Crocker è assai noto ai nostri lettori orientali : egli svolse un ruolo centrale nell’operazione « Pace in Galilea », il massacro di Sabra e Chatila e il blocco di Beirut, nel 1982.

[3] « Le Pakistan exploite le pavot afghan », Voltaire, 19 aprile 2005.


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GEOPOLITICA COME DESTINO DEL SANGUE E DEL SUOLO

Luca Lionello Rimbotti

Una semplice osservazione del pianeta terracqueo sul quale viviamo è in grado di verificare, sin da una prima occhiata, che esiste un monoblocco fatto di continuità e compattezza, situato centralmente rispetto alle derive: è la Terra di Mezzo, l'Heartland, il Cuore della Terra. Questo monoblocco è il grande spazio destinale dell'Eurasia, il macro-continente che corre dalle coste atlantiche del Portogallo sino alla Siberia orientale. E' il luogo degli accadimenti biologici e storici in cui si è manifestata la facies indoeuropea dalla quale, volenti o nolenti, tutti gli europei oggi discendono.
L'esatta percezione di una corrispondenza tra dispiegamento della vita associata, politica, e continuità del suolo dal quale essa prende vita è nozione moderna solo relativamente alla sua sistemazione teorica. Prima della modernità, l'associazione tra essere e essere-entro-uno-spazio delimitato era spontanea, irriflessa, naturale. Un segmento culturale che non abbisognava di alcuna teorizzazione, poiché era vita, era ovvia associazione tra il sangue di un popolo e la terra da cui quel sangue prende vita e alimento. La geopolitica in quanto scienza dell'appartenere ad uno spazio e tecnica per difenderlo è una nozione culturale primo-novecentesca, un ripensamento occasionato dall'allargamento degli orizzonti planetari, quella vocazione alla dismisura che, rinnegando l'aspetto politico del limes e quello psicologico della scala dimensionale, lungo i secoli dell'espansionismo europeo – e molto di più oggi - ha fatto perdere all'uomo occidentale la nozione del contatto tra azione e territorio.
La geopolitica è il tentativo di correggere l'allontanamento causato dalla spinta mercantile, che nel suo slancio individualistico generò la perdita del senso dello spazio, abbandonandosi solo a quello del tempo, da comprimere e da ottimizzare.
Le politiche imperialiste che sono andate per qualche secolo a caccia di spazio planetario, ingurgitato ma mai digerito, compromisero quell'asse psicologico interno all'uomo civilizzato che è la simmetria fra provenienza e destinazione: cioè la sana percezione che l'allontanamento dall'origine, dalla casa, quando si verifica, deve essere in ogni caso una conquista e non una perdita. Il cosmopolita ha creato l'abbattimento delle barriere psicologiche atte a definire lo spazio, dilatando l'Altrove nell'Ovunque e perdendo l'Origine: e quindi causando il taglio di una radice vitale, prima di tutto psicologica. Lo sradicamento dell'uomo globalizzato è un guasto operato soprattutto nella psiche. L'errare migratorio del “cittadino del mondo” si è risolto in un tradimento prima culturale e poi effettivo della percezione della terra. L'erranza, ideologica prima ancora che reale e fisica, crea indisponibilità al luogo, disconoscenza di un combaciare di uomo e suolo. Ci si considera a casa dappertutto, e quindi da nessuna parte. E si è nulla ovunque. E' una visione impolitica, solo economica, questa, è una disintegrazione degli spazi e dei metri culturali di giudizio, una loro vanificazione come concetti legati alla realtà della disposizione geografica e di quella mentale.
Poiché lo spazio, al contrario, è soprattutto integrazione: tra individuo, prossimo, luogo della permanenza e terreno sul quale crescono i frutti delle opere. E' una relazione che intercorre tra l'uomo e la sua intelligenza che, come sempre nell'apprendere e nel sapere, chiede ogni volta delimitazioni, precisazioni, com-prensione: cioè, come dice la parola, divisione del proprio dall'altrui, dell'entro dal fuori, del sopra dal sotto. L'intellettuale snazionalizzato vive la sua a-politìa – il suo essere apolide, privo di città in cui essere se stesso, privo di mura psicologiche all'interno delle quali coltivare identità – come fosse un segno di libera sovranità, non riuscendo a comprendere le implicazioni che, al contrario, rendono la sua fluttuante ubiquità precisamente un non-essere: fantasma retorico, il cosmopolita è un orpello inessenziale alla vita dei popoli, ne costituisce anzi l'esatta antitesi.
Chi invece riesce a contenere la vertigine spaziale e a mantenere intatto il legame tra luogo di provenienza e luogo di destinazione è il popolo semplice. Gli emigranti italiani di inizio Novecento, come talvolta le masse terzomondiste oggi inurbate in Occidente, mostrano di trattenere una volontà di terra che è ignota al cosmopolita. Di qui i vincoli sempre potenti tra il povero emigrato e la memoria della sua terra-patria, le sue culture della terra, i suoi istinti memoriali pre-culturali: la cucina, ad esempio, che è sempre stato un umile mezzo di protezione identitaria altamente simbolico per le popolazioni private della patria fatta di terra, ma ancora in possesso della patria interiore. Si dice, a questo proposito, che ad esempio in Francia il cus-cus negli ultimi anni abbia soppiantato la cucina mediterranea come piatto nazionale: ciò è potuto accadere perché gli immigrati maghrebini hanno avuto un senso della terra più forte dei francesi metropolitani, e ne hanno potuto imporre, così, un simbolo evidente come quello della tradizione alimentare. Il cus-cus, quando mangiato in Francia o in Italia dai nordafricani, per dire, è spirito della terra fatto materia, che si prolunga negli spazi, ricreando le naturali leggi di una geopolitica della psiche.
Lo sradicato dagli insediamenti dell'Atlante sahariano alla banlieu parigina che apre una macelleria islamica o un ristorante di piatti maghrebini impone una sottaciuta, atavica e inconscia legge della terra. Egli è un evidente messaggero della insopprimibile energia che deriva dal suolo: i prodotti della terra su cui si è nati, elevati al rango di ultimo segno di appartenenza culturale, sono un argomento geopolitico di straordinaria vitalità, allo stesso modo della politica di potenza di un grande Stato nazionale. Sono segnali che ci mostrano una volontà di vita, una capacità di dinamismo e un'aderenza anche materiale ai bisogni necessari nati nell'origine, che derivano da un sangue non ancora corrotto dalle sovrastrutture ideologiche cosmopolite, quelle artefatte impalcature che un giorno inventarono l'uomo universale, quel fiore reciso che è l'individuo globalizzato.
Vorremmo infatti che si considerasse la geopolitica, oltre che la manifestazione delle necessità invariabili che regolano la collocazione di un popolo in un territorio, anche e soprattutto il suo vincolo interiore con gli spazi limitati della nascita e della provenienza: una concezione “ulisside” dell'essere che, anche quando sottoposta al distacco, veicola la necessità dell'andare ma custodendo la nostalgia dolorosa del ritornare che è vita, magnete culturale, fonte di capacità di giudizio altrimenti soffocata dall'indifferenza per la diversità dei luoghi e dal nulla esistenziale.
Geopolitica è innanzi tutto legge di vita, qualcosa che è regolato da un fluire delle cose che non è a disposizione del libero arbitrio individuale. “Gettati” nella vita da una nascita da loro stessi non voluta, affidata all'inesplicabile, gli uomini si connotano per un sigillo di appartenenza che è allo stesso modo non scelto, ma subìto, così come si subisce il tratto fisiognomico che ci connota, così come si subisce l'identità dei genitori non scelti o del trovarsi alla nascita qui anziché là. Questa è la legge del nomos, anzi, proprio alla maniera di Carl Schmitt, del nomos della terra.
Poiché nomos è essenzialmente legge – i greci definivano l'a-nomos come l'empio, il fuori limite, il precluso alla con-vivenza – ma legge della terra che sovranamente dispone i destini. Quando si nasce in un popolo che abita una terra, si esibisce un crisma, uno stigma, un segno di provenienza ovunque ci si rechi: né è possibile sottrarsene, senza allo stesso tempo vedere decaduto il proprio status di uomo differenziato dal proprio esclusivo legame sociale. E si rammenti che il nomos è non solo la legge che regola queste disposizioni della differenza dell'identità entro la differenza dei luoghi, ma è anche capacità di abitare il suolo.
Non si hanno ordine e legge dentro di noi se si è incapaci di renderli operanti nel mondo fuori di noi. Dice Massimo Cacciari, in Geofilosofia dell'Europa, laddove riprende i significati arcaici del vivere lo spazio di terra come spazio esistenziale, che il nomos si vincola al némein, che è appunto non solo l'afferrare e lo spartire la terra secondo i bisogni del vivere associato, ma anche il saperla abitare.
Questo sentimento dell'afferrare la terra è stato decisivo nella storia dell'Europa, ne costituisce un segno distintivo quale elemento di cultura superiore, fatta di popolo e non di astrazioni d'intelletto vagante. Esso ci conduce nel senso di volere, e volere fortemente, quel destino subìto e trovato già bell'e fatto alla nascita, di cui dicevamo. E proviene dalla capacità inconscia, e viva nei popoli che sono rimasti psicologicamente fedeli al suolo della nascita, di trattenere l'idea di terra-madre come proprio volto immutabile dinanzi al mondo mutevole. Afferrare la terra propria e condurla dentro di sé ovunque si vada è un permanere se stessi ben più grande che non lo sfaldato smarrimento di quanti, pur rimanendo fisicamente sulla loro terra, non ne riconoscano più i suoni e gli accordi di armonia: come di quei francesi – rimanendo all'esempio fatto sopra – che si trovino ad apprezzare di più il cus-cus che non i maccheroni. Essi, così facendo, irrompono in uno spazio culturale che li trova estranei, migranti apatrìdi, scollati dalle ascendenze e ormai incapaci delle discendenze. Essi non riconoscono più le madri, negano e non avvertono più un sangue fatto ormai di terra abbandonata, isterilita, devastata. Il cuore di chi abbandona la terra dentro di sé è un cuore freddo, secco, inetto a percepire i sussurri e i sussulti del sempiterno genius loci, il luogo umido e fecondo da cui salgono le culture vigorose e si inerpicano le frondose ricchezze dell'identità.
Seguire le leggi della città è il più alto titolo dell'uomo, secondo la cultura greca. E la città è essenzialmente collocazione storica e biologica su un territorio, l'innesto dell'uomo su un suolo che è quello, non un altro a piacere. La legge non la si sceglie. E questo suolo da cui scaturisce la legge ha i suoi diritti, le sue necessità, le sue aggregazioni e le sue repulsioni, che sono immutabili nel tempo. I problemi politici e sociali di un popolo dislocato in una certa posizione geografica sono i medesimi dall'antichità ad oggi. Ad esempio, la posizione continentale della Russia odierna impone la medesima politica, la medesima economia, la medesima ecologia del tempo degli zar; la posizione insulare del Giappone gravita sugli stessi versanti e chiede le medesime soluzioni strategiche e politico-economiche oggi come all'epoca Meiji. Le invarianti geopolitiche sono assai più tenaci delle variabili storiche. Ma anche il popolo è il medesimo, anch'esso, se inserito in uno spazio creativo e non distruttivo, non varie nelle esigenze vitali e nelle domande di fondo relative alla sicurezza: prima delle irruzioni etno-mondialiste di oggi, ovunque i popoli erano della stessa sostanza bio-storica di mille anni fa, cosicché l'Europa del XX secolo era, antropologicamente, la medesima dell'anno Mille.
Se infatti il nomos della terra è fondamentalmente un intreccio dinamico di atavismi, risultando come esito di Ordine e di Radice, questi elementi condizionano il territorio alla stessa maniera di chi quel territorio coabita. Poiché nelle armonie geopolitiche, popolo e suolo sono di fatto indistinguibili. Quella che una volta era la lotta per gli spazi, semplice risvolto dell'eterna lotta per la vita su scala comunitaria, quindi naturale legge d'ordine tra gruppi omogenei, oggi si è mutata nella lotta tra un progetto che vuole disintegrare e una resistenza, soprattutto presente nell'inconscio dei popoli, che non vuole farsi disintegrare. L'era globale segna il limite delle possibilità di dimensionare la politica sulle evidenze della terra, cioè sulla geografia. La sovversione mondialista è anche una sovversione della geografia, oltre che della storia e della legge d'ordine che con un lavoro di secoli aveva creato le appartenenze. Nella polverizzazione dello spazio, ottenuta attraverso le concentrazioni metropolitane di masse servili derubate della terra, accade di vedere il capolavoro di una modernità che non riconosce più i fondamenti umani dell'esistenza. I creatori di meccanismi sociali artificiali sanno che il loro dominio infernale sarà perpetuo il giorno in cui non verrà più riconosciuta alcuna legge: né quella del sangue, né quella del suolo, né quella dell'ordine, né quella dello spazio. Per questo il mercato, e soprattutto la finanza che lavora con una materia incorporea, virtuale, inesistente, il denaro telematico, non sanno nulla dello spazio e del territorio. Il mercato e la finanza mondiale sono ubiqui e quale elemento nutritivo concepiscono solo l'etere, l'abbattimento dei limiti al cui riparo si erano da sempre consolidate le identità. Senza l'identità nata sul suolo da un sangue comune che ha coscienza di sé, si apre lo spazio incontrollato del grande Nulla, e questo irrompe nelle coscienze e nella vita quotidiana di ognuno di noi con la demenza universale che ovunque, come un moloch reso pazzo dalla vertigine dello smisurato, impone la violenza di tutti i rimescolamenti in un Caos universale.

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Il recente voto alla Camera dei Deputati da parte del centro-sinistra contro il prolungamento della missione militare italiana in Iraq, unica eccezione l’Udeur di Mastella, non può ingannare nessuno, in quanto non rappresenta un’autentica svolta rispetto alle posizioni atlantiste della cd. ”opposizione”. Le stesse reazioni d’indignazione ai gravissimi episodi che hanno visto coinvolti Roma e Washington, l’uccisione di Nicola Calipari e il rapimento di Abu Omar, sono paradossalmente sfociate nel viaggio di Francesco Rutelli e Lamberto Dini negli Stati Uniti.

Dal 27 al 30 giugno i due hanno incontrato tra gli altri il finanziere George Soros e lo stratega Henry Kissinger, grazie alla mediazione di Aryeh Neier dell’Open Society Institute e di John Podesta, ex chief of staff di Bill Clinton, nonché rappresentante del Center of American Progress.

L’occasione è stata fornita dalla presentazione di un manifesto comune tra i “democratici” delle due sponde dell’Atlantico, molto probabilmente un pretesto per accedere ai finanziamenti del Soros Fund Management, sempre generoso quando si tratta di fornire i mezzi per esportare la “libertà”.

Ma anche per ricevere il via libera statunitense al voto contrario alla missione in Iraq, specchietto per le allodole (leggasi moltitudini colorate pacifinte) che si spera dia i suoi frutti in campagna elettorale. Molti, ingenuamente, ritengono che questi rapporti ad alto livello siano dovuti all’opera di revisione storica e politica intrapresa dalla sinistra italiana dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine dell’identificazione tra Partito comunista e nemico sovietico.

Ancora oggi suscitano scalpore, perciò, le rivelazioni di ex partigiani che affermano candidamente di aver lavorato per l’OSS (nel 1948 verrà ribattezzato CIA) durante la Seconda guerra mondiale(1), rifiutando invece le offerte di rimanere nel servizio segreto americano dopo la fine del conflitto.

In realtà furono decine i militanti del PCI e del PSI arruolati dall’OSS con il pieno consenso di Palmiro Togliatti e Pietro Nenni, così come testimoniato dalle ricerche condotte nei National Archives di Washington dal prof. Giorgio Petracchi(2).

Quello che la vulgata ufficiale non dice è che con ogni evidenza l’unità comunista voluta dall’ufficiale statunitense Irving Goff e messa al servizio del generale William Donovan non fu mai definitivamente smantellata, bensì solo congelata in attesa degli sviluppi della “guerra fredda”.

Il ruolo sotterraneo di collegamento tra USA e URSS svolto da alcuni esponenti di primo piano del Cumer, il comando unico militare dell’Emilia Romagna, rimase vivo fino al 1989, riflettendo i rapporti tra le due superpotenze e soprattutto le diverse strategie che dividevano Dipartimento di Stato e CIA da una parte, PCUS e KGB dall’altra.

Fino al 1953, anno della morte di Stalin, il confronto fu sicuramente aspro, in quanto con l’innalzamento della Cortina di ferro e il completo rinnovamento degli organi dirigenti interni il dittatore georgiano intendeva conservare all’Unione Sovietica il ruolo di grande potenza, in alleanza con l’altro gigante eurasiatico, la Cina di Mao Zedong.

Le direttive mondialiste, finita la guerra, erano allora chiare: combattere il comunismo staliniano favorendo l’emergere di tendenze “nazionalcomuniste” (leggasi “revisioniste”) nei paesi dell’Europa orientale, un esempio per tutti la Jugoslavia del “fratello trepuntini” Tito, che romperà clamorosamente con Mosca.

I successori di Stalin, Malenkov, Kruscev e Berja furono così sottoposti a una costante pressione dai cd. “liberali” angloamericani, affinché acconsentissero a un’intesa e ad una cooperazione a tutto campo con l’Occidente.

La loro idea era quella di un condominio russo-americano sul continente europeo e di uno giapponese-americano nel Sud-Est asiatico, la stessa proposta che ancora oggi viene formulata alla  dirigenza cinese dibattuta tra una politica di “appeasement” e una di confronto a tutto campo.

Secondo i dettagli di questa offerta, Mosca avrebbe avuto la garanzia che in nessun caso le nazioni baltiche, dell’Europa centrale e del Sud avrebbero minacciato i suoi interessi, in quanto esse sarebbero rimaste sotto il controllo della NATO.

Una sorta di zona grigia che si sarebbe sviluppata economicamente ma che non avrebbe goduto di alcuna sovranità politica.

D’altronde l’Europa occidentale si trovava già sotto il controllo dei tecnocrati di Washington, che ne avevano lautamente finanziato il processo di unificazione sotto la direzione dell’ACUE (Comitato Americano per un’Europa Unita), organo creato nell’estate del 1948 da Allen Dulles(3).

Dai primi fondi messi a disposizione dall’OSS, passando per il sostegno economico delle due conferenze tenutesi a Bruxelles e a Westminster nel 1949, all’edificazione del Movimento europeo, del gruppo Bilderberg e del Comitato d’Azione di Jean Monnet per gli Stati Uniti d’Europa, fino ai contributi della CIA alla fine degli anni settanta, questa assistenza si rivelò decisiva per l’adozione del Piano Schumann, della CED e dell’Assemblea europea.

Divenuta operativa nel 1966 la strategia sovietica di compromesso e distensione con l’Occidente capitalista, gli effetti del condizionamento occulto non tardarono a manifestarsi presso i più importanti funzionari del Partito comunista italiano.

Giorgio Napolitano, ad esempio, alto dirigente di Botteghe Oscure negli anni settanta (divenuto Presidente della Camera dei Deputati negli anni novanta), fu il solo quel periodo a soggiornare negli Stati Uniti a spese del Council on Foreign Relations, mentre si elaboravano il lancio e il finanziamento dell’eurocomunismo sotto il controllo del Royal Institutes di Londra, di alcuni membri della Trilateral Commission e dell’Aspen Institute, della Conferenza di Darmouth e della sezione sovietico-americana dell’Irex.

Appena tornato da Washington insieme all’altro deputato del PCI, Sergio Segre, egli si attivò per mettere in moto questa nuova opzione mondialista, in sintonia con il KGB di Yuri Andropov(4).

La crisi della manovra trilateralista fu provocata dall’assassinio di Aldo Moro in Italia e dall’opposizione della dirigenza moscovita riunitasi attorno al successore di Andropov, Konstantin Cernenko, contraria all’intesa con gli Stati Uniti.

Ma i tentativi non finirono lì e per rilanciare l’operazione dell’eurocomunismo fu necessario  salvare anche il “diavolo”.

Il 4 ottobre 1984, Giulio Andreotti dovette affrontare una mozione parlamentare che reclamava le sue dimissioni, in ragione della lunga protezione da lui accordata al banchiere Michele Sindona e altri personaggi in odore di mafia.

Questa mozione fu però respinta con 199 voti contrari, 101 a favore e 154 astensioni dei deputati comunisti, sollecitati in tal senso da Napolitano e Segre.

48 ore dopo, mutati come detto gli orientamenti del PCUS, Alessandro Natta (successore di Enrico Berlinguer alla direzione del PCI) decise di rivoltarsi contro gli ordini impartiti dai sodali del CFR e reclamò le dimissioni di Andreotti con una nuova votazione; ma per gli umori del Parlamento italiano era già troppo tardi e il senatore democristiano riuscì a salvarsi ancora una volta(5).

Abbiamo parlato di Sindona e subito il pensiero corre a Licio Gelli, agente triplo (sovietico, inglese e statunitense) e capo della P2, loggia massonica di accertata fedeltà atlantica.

In un’interessante intervista al quotidiano italiano “La Repubblica”, un sicuro conoscitore dei misteri italiani, Francesco Cossiga, sottolineò le amicizie dell’ex partigiano e senatore comunista Ugo Pecchioli con il piduista Giulio Grassini, allora al vertice dei servizi segreti con gli altri massoni Giuseppe Santovito e Walter Pelosi.

Soffermandosi sul ruolo avuto da Pecchioli e altri esponenti del PCI nella nomina dei vertici dei Servizi, l’ex Presidente della Repubblica confermò che proprio Gelli e la P2 fecero arrivare a Botteghe Oscure attraverso il Banco Ambrosiano il prestito per il giornale “Paese Sera”(6).

Un modo elegante per evidenziare come la figura di Pecchioli, allora vicepresidente dell’organo di coordinamento e supervisione dei Servizi Segreti, fosse decisiva nella scelta dei generali piduisti del Sismi Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, condannati per depistaggio nelle indagini sulla strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, così come  nell’ascesa del dirigente del Sisde Silvano Russomanno, autore del depistaggio del 28 agosto(7).

Cossiga aggiunse anche come non fosse “nemmeno vero che la politica di Moro dispiacesse agli USA, almeno non più dal momento in cui nasce il governo Andreotti”, giusto per ribadire il via libera di Washington all’operazione euro-comunista (il senatore a vita in passato aveva già confermato all’opinione pubblica il timbro CIA sui governi di centro-sinistra)(8). Nominato nel 1993 Presidente della Commissione di controllo sui Servizi Segreti e intervistato da RAI 1, Pecchioli confessò candidamente che il principale nemico combattuto durante il suo mandato fu il Patto di Varsavia …

In questa panoramica non vanno dimenticati gli interventi parlamentari di due deputati di Alleanza Nazionale, Mirko Tremaglia e Altero Matteoli. Il primo fece parte della Commissione d’inchiesta sulla P2 e fece notare come negli atti esaminati comparisse per almeno una sessantina di volte il nome di Eugenio Scalfari, direttore del progressista quotidiano “La Repubblica”(9).

Tra gli affari citati nel dossier spiccano l’accordo tra Caracciolo-Scalfari e Tassan Din-Rizzoli, rinvenuto in originale a Castiglion Fibocchi e siglato dallo stesso Gelli.

Ma anche gli affari strettissimi con il faccendiere Flavio Carboni e i Servizi Segreti, le manovre per un finanziamento di tre miliardi di lire al Banco Ambrosiano, le memorie del braccio destro dello stesso Carboni, Emilio Pellicani.

Matteoli, relatore di minoranza nella medesima Commissione, rincarò la dose, ricordando il documento firmato da Gelli e ridenominato “Appunto 22z/Riz”, cioè l’accordo fra Rizzoli per il gruppo “Corriere” e Caracciolo-Scalfari per il gruppo “Espresso-Repubblica”.

Questo patto sigillò la reciproca non belligeranza tra i due gruppi, alfine di avere le massime possibilità di espansione nelle zone di maggiore diffusione: “Il gruppo “Corriere” non doveva disturbare nel settore periodici, il gruppo Caracciolo-Scalfari non avrebbe preso iniziative che potessero infastidire il “Mondo”. A Caracciolo-Scalfari venivano garantite entrature sul Banco Ambrosiano”(10).

Il documento porta la data del 5 luglio 1979 ma già nel 1981 tutto venne confermato davanti al tribunale di Milano dagli stessi Rizzoli, Tassan Din, Caracciolo e Scalfari.

A pag. 60 della relazione di minoranza della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla Loggia P2, un altro deputato, l’On. Massimo Teodori invece scrisse: “Caso tipico quello del giornalista … Eugenio Scalfari, che dapprima sostiene la scalata di Cefis alla presidenza della Montedison ed appoggia la sua spinta accentratrice e poi combatte per appoggiare contro di lui Michele Sindona, nell’operazione mirata al controllo della Bastogi”.

In quegli anni, infatti, Carboni riuscì ad intrecciare le alleanze più solide in direzione degli ambienti repubblicani, dei settori della sinistra democristiana e della stampa progressista, facente capo al gruppo Scalfari-Caracciolo.

Lo stesso gruppo che, insieme all’ingegnere Carlo De Benedetti, sostenne negli anni Ottanta le proposte di “rinnovamento” democristiano di Eugenio De Mita e oggi punta tutte le sue carte sul progetto dell’Ulivo (o dell’Unione) di Romano Prodi.

Di quest’ultimo, tipico rappresentante dell’establishment mondialista, passato dalle sedute spiritiche per trovare la prigione di Moro alle consulenze per la multinazionale Unilever, è sufficiente ricordare il viaggio negli Stati Uniti del maggio 1998(11), nel quale si distinse per aver domandato a più riprese “l’instaurazione di una zona di libero scambio transatlantico” all’interno della quale imprigionare l’Europa unita.

L’intermezzo di Massimo D’Alema, protagonista dei bombardamenti sulla Serbia nel 1999 (dopo una telefonata di Clinton) con un governo sostenuto da Verdi e Comunisti italiani(12), completò il presunto sdoganamento della “sinistra” tricolore, rifinito in seguito dalla retromarcia di Bertinotti(13) e dall’adesione di Fassino alla “Dottrina Bush”(14).

Il duopolio USA-URSS condiziona tutte le varie tappe della “politica” italiana, compresa la strategia della tensione, il “compromesso storico” e i governi di solidarietà nazionale, grazie a una dinamica molto simile a quella attuale. Oggi, infatti, due grandi contenitori partitici privi di contenuto fingono di affrontarsi nella competizione elettorale ma finiscono – in nome dell’ “emergenza terrorismo” - per compattarsi sui principali provvedimenti.

L’obiettivo ultimo dei burattinai di sempre è quello del “grande centro”, un enorme guscio vuoto all’interno del quale rinchiudere tutti i movimenti politici, da AN ai DS (questo è il motivo principale delle manovre di disturbo compiute recentemente da Fini e Rutelli verso i rispettivi schieramenti), passando per l’intermezzo del partito unico di centro-destra e di centro-sinistra.

Alle “estreme”, probabilmente, verranno lasciati liberi di ruotare Lega Nord da una parte e Rifondazione Comunista dall’altra, giusto per dimostrare che esiste ancora un’opposizione: in realtà, il potere rimarrà più che mai saldo nelle mani delle “centrali” di Washington.

 

Note

1)   Cfr. un’intera pagina della “Gazzetta di Modena” del 10/7/2007. Il libro di Ennio Tassinari s’intitola significativamente “Un americano nella Resistenza”.
2)  Petracchi Giorgio, “Al tempo che Berta filava: Alleati e patrioti sulla Linea Gotica, 1943-1945”, Milano, 1995. Si confronti anche Claudio Mutti: “L’amblimoro antifascista” su www.italiasociale.org
3)  
La Fondazione Ford, in particolare, aveva il compito di finanziare i gruppi federalisti. Cfr. Centre Européen d’Information, La lettre de Pierre de Villemarest, 15 mai 1998, n.5.
4)   Ibidem, 7 juin 1994, n.6.
5)   Ibidem.
6)   « Le confessioni di Cossiga : Io, Gelli e la massoneria », « La Repubblica », 11 ottobre 2003.
7)   “Orientamenti e ricerca”, Inverno 1994, n. 22, p. 26.
8)   “Cossiga contro i complottardi”, “Il Resto del Carlino”, 7 novembre 1997.
9)   “P2, Eugenio ha la memoria corta”, “Secolo d’Italia”, 4 febbraio 1995.
10) “Scalfari e la P2: qualche fatto oltre la demagogia”, “Secolo d’Italia”, 12 febbraio 1995.
11) “Centre Européen d’Information”, op. cit., 15 mai 1998, n.5.
12) Si confronti il mio « Clinton : una vita da bugiardo » su www.italiasociale.org
13) Cfr. anche “La lunga marcia del compagno Fausto” su www.italiasociale.org
14) Cfr. ancora “Fassino show” su www.italiasociale.org

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Rullo di tamburi del Grande Satana: Guerra!

Stefano Greco           da "AURORA" n° 45 (Gennaio 1998)

 A otto anni dal tentativo iracheno di ricostruire l'unità nazionale, incorporando lo staterello feudale e fantoccio del Kuwait (perfidamente inventato dall'Inghilterra colonialista dopo il secondo conflitto mondiale), tentativo incoraggiato dalla Francia e giustificato da esperti americani, continua l'embargo ONU alla faccia delle incredibili sofferenze dei civili. I conti bancari delle ambasciate di Bagdad nei paesi occidentali restano bloccati.

Continua pure ad essere vietato il sorvolo di aerei nazionali nel nord Iraq per assicurare, si dice, la difesa della popolazione curda. Ebbene in questa stessa regione il PUK (Unione patriottica del Kurdistan) ha denunciato all'ONU ripetuti bombardamenti sulle sue postazioni ad opera dell'aviazione turca. La circostanza che la Turchia possa passare impunemente i confini, ogni qual volta lo voglia per svolgere azioni militari anche con mezzi pesanti è piuttosto interessante, se si pensa che il cielo nord-iracheno, scorrazzato da cacciabombardieri turchi, è stato proclamato da Gran Bretagna e Stati Uniti «zona vietata al sorvolo», un divieto rivolto evidentemente solo agli aerei iracheni che sarebbero i soli a trovarsi in spazi aerei propri. Se la zona vietata al sorvolo è destinata a difendere la popolazione curda, non si capisce perché nessuno sollevi obiezioni al governo di Ankara, responsabile, negli ultimi quattordici anni, del massacro di 27mila Curdi. E questa è solo la cifra ufficiale, di più non è dato sapere. La Turchia non ammette intromissioni; per essa la questione curda è una faccenda interna, un'emergenza terroristica da combattere con esercito, polizia, servizi segreti, ma Saddam Hussein non può certo sentirsi lusingato dal fatto che uno Stato confinante possa mettere a ferro e fuoco una sua regione, solo perché alleato a USA e Inghilterra, mentre egli non può neanche sorvolarla.

Se Saddam è punibile di lesa maestà al padrone del mondo perché si consente a Benjamin Netanyahu di violare gli accordi presi con i palestinesi e gli USA? Intenzionalmente si esaspera il governo iracheno, lo si costringe a un più che legittimo segno d'insofferenza.

Gli ispettori ONU setacciano l'Iraq da sei anni: hanno trovato e distrutto 38mila armi chimiche, 480mila litri di agenti chimici attivi per armi chimiche, 48 missili operativi, 6 rampe di lancio, 30 testate speciali per armi chimiche, centinaia di attrezzature correlate. Ciò nonostante le ispezioni e le sanzioni continuano senza limiti di tempo. Chi lo tollererebbe? Dopo sei anni Bagdad avrà ben il diritto, se non di esigere la fine dell'ispezione, almeno di espellere dal patrio suolo i propri aguzzini, gli ispettori di nazionalità americana! Ebbene, per gli USA e l'Inghilterra (la special relationship anglo-americana resiste a tutte le stagioni) questa decisione è un affronto da purgare con un bagno di sangue e l'eliminazione fisica di Saddam Hussein, capro espiatorio delle ben più vaste resistenze all'infernale "pax americana".

Le aperture di Bagdad (libera ispezione di tutti i siti sospetti; Tereq Aziz apre ai diplomatici stranieri il palazzo presidenziale più sospetto e non s'è trovata neppure una pistola ad acqua) sono cadute nel vuoto.

Il 5 gennaio Clinton e Blair, prima in una colazione di lavoro alla Casa Bianca, poi in una cena trimalcionesca, scandita dalle ugole «d'oro» di Elton John e Stevie Wonder, concertano la strategia militare da intraprendere. Nel Golfo arriva la portaerei "Invincibile" della marina inglese; il Pentagono annuncia lo spostamento del ventiquattresimo corpo dei Marines, a bordo della portaelicotteri "Guam", che si aggiungerà alle tre portaerei, due incrociatori, due sottomarini d'attacco, centosettantaquattro aerei e millecinquecento soldati già in posizione strategica. L'attacco si prevede violentissimo, il più massiccio dalla guerra del Golfo. Bombardamenti a tappeto per quattro o cinque giorni con l'utilizzo di missili sparati dalle navi da guerra di stanza nel Golfo, dalle portaerei e dai cacciabombardieri dell'aviazione. L'operazione ha già un nome in codice: "Desert Thunder", "Tuono del deserto".

In questo frangente quello che l'arroganza USA non capisce, o non vuole capire, è l'atteggiamento internazionale, ben diverso da quello del '91. L'Iraq non rappresenta una minaccia. Contro le arrugginite o presunte armi irachene, Israele dispone un potenziale bellico spaventoso. «Se Saddam non è completamente pazzo (dice Gerald Caplan, specialista di crisi internazionali), dovrebbe sapere che se sgancia una bomba su Tel Aviv, noi sganceremo una bomba atomica sulla sua testa».

Le malefatte del premier israeliano Netanyahu hanno rinsaldato la solidarietà dei sentimenti arabi. Se i governi dei paesi arabi si limitano a opporsi all'intervento americano, i loro popoli simpatizzano apertamente con Saddam, anche per il gesto di liberalità con cui ha liberato tutti i detenuti politici. Centinaia di bambini palestinesi manifestano in Cisgiordania con slogans anti-americani e di solidarietà con i fratelli iracheni, privati delle più elementari necessità. Perfino la Turchia e l'Iran solidarizzano con l'Iraq. A nessuno sfugge il reale movente dell'azione armata USA: riaffermare il ruolo di guardiani e padroni del Golfo, l'area più strategica e sensibile del mondo.

Dalla Russia, dalla Francia, dalla Cina, dalla India, dalla maggior parte dei paesi europei, dal Segretario Generale dell'ONU, dal mondo arabo, dalla Palestina, si leva un coro di protesta.

Le parole di Boris Eltsin sono dure: «Se gli Stati Uniti lanceranno un attacco contro l'Iraq rischieranno la terza guerra mondiale». Il ministro cinese degli Esteri, Qian Qichen, aggiunge: «L'intervento farebbe moltissime vittime, aggraverebbe la crisi nella regione e potrebbe creare nuovi conflitti». "L'Osservatore romano", organo del Vaticano, il 10 febbraio, riporta il messaggio congiunto dei Patriarchi e Capi della Chiesa del Medio Oriente, comprese quelle greco-ortodosse, nel quale si definisce «tragica» la situazione del popolo iracheno, attribuita «all'embargo ingiusto e ingiustificabile che provoca grave pregiudizio ai civili» e si invitano le Chiese nel mondo «a esprimere la loro solidarietà al popolo dell'Iraq e al suo diritto a una vita degna».

E l'Italia o, meglio, i governanti italiani cosa dicono? Niente! Per non scontentare nessuno non dicono niente. Il PDS e RC, pur contrari all'intervento, usano toni soft, attenti a non urtare la suscettibilità americana, avallando comunque le ragioni del più forte. In sostanza l'opzione statunitense risulta ben netta. A palazzo Madama si è discusso sull'opportunità di sbloccare il conto bancario dell'ambasciata di Bagdad presso il Vaticano. Il 26.11.97 la commissione Esteri del Senato, presieduta da Gian Giacomo Migone (PDS), ha dato parere negativo. La discussione iniziata da Tana de Zuleta (anch'essa PDS), definendo la proposta «scorretta», «che pone importantissimi e gravi problemi di politica estera nei rapporti con i nostri alleati», è terminata con la sconcertante dichiarazione di Migone: «Se proprio bisogna dividersi fra USA e Iraq, non mi sembra un crimine stare con gli USA».

Ora, alla stessa Commissione, è depositato un nuovo testo, a firma di Russo Spena e Folloni, per lo sblocco di tutti i fondi iracheni congelati nelle banche italiane dal tempo dell'embargo, un deposito valutabile intorno ai 240miliardi di lire. Vedremo chi lo appoggerà e chi lo respingerà, quali sono le forze politicamente credibili e quali no. È questa una di quelle occasioni storiche che, per dirla con Mussolini, «con la rapidità del fulmine opera la distinzione tra i forti e i deboli, tra gli apostoli e i mestieranti, tra i coraggiosi e i vili» (23.3.13). Certo la proposta avrebbe molte più possibilità di riuscita se fosse sostenuta dalla società civile, se chi l'avanza non si limita come Ponzio Pilato a dire... Si potrebbe e dovrebbe fare di più, innanzi tutto riconoscere onestamente nella crisi USA-Iraq un conflitto locale con effetti globali, una partita decisiva per la continuazione o per il superamento della divisione del mondo in popoli sfruttati e popoli sfruttatori. Da questa prospettiva la crisi del Golfo apre una questione squisitamente politica, umana, rivoluzionaria.

Il conflitto riguarda tutti e la politica dello struzzo non paga. Si abbia il coraggio di scegliere tra gli interessi in causa, tra le ragioni dell'umanità e quelle della borsa. Volendo, questa ennesima crisi internazionale, potrebbe essere un'occasione formidabile per ricompattare le frange sparse della sinistra (la vera sinistra), per avviare una nuova stagione rivoluzionaria affrancata dalle tragiche illusioni del passato.

Stefano Greco

 

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