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 Rassegna Stampa 2

 Guerra Civile     43/45

 

 

 

 

 

      

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Cultura

da      http://www.alalba.it/

Seconda guerra mondiale - i bombardamenti anglo-americani sull'Italia, 1943-45

 

Che la brutalità della furia nazista durante l'ultima Guerra mondiale sia sempre da deprecare, non c'è dubbio;

ma che, pur senza prenderne le parti, sia un argomento buono per tutte le stagioni

e lo si tiri fuori in ogni occasione è altrettanto fuori dubbio.

Come nel caso di quei due miei lettori - spero per loro giovani o mal indottrinati - che ad un motore di ricerca hanno chiesto:

"I Tedeschi fanno saltare abbazia Montecassino", o quello più recente che cerca notizie su... "Torino distrutta dai nazisti".

Forse sarà il caso di chiarire un po' le idee, per individuare meglio tutti gli autori di certi eventi dell'ultima guerra,

senza fare immeritati sconti a qualcuno.

 

 

Stati Uniti e Inghilterra sono l'Impero del Bene, lo sappiamo. Loro non fanno le guerre per contendere ad altri e conquistare nuovi mercati o posizioni strategiche favorevoli, ma solo per diffondere nell'universo mondo libertà e democrazia. Ogni tanto magari ci scappa... il morto; ma la mira possiamo sbagliarla tutti.

 

In questa pagina vorrei accennare alle distruzioni, massicce e devastanti, che inglesi e americani hanno portato qui in casa nostra nell'ultima guerra mondiale. E' vero che quell'infausta guerra l'avevamo dichiarata noi; ma loro, l'impegno, ce l'hanno messo tutto.

Le tonnellate di bombe sulle città italiane e tedesche si sprecano. Nel 1940 cominciarono gli inglesi. Naturalmente lo fecero perché còlti di sorpresa dalla barbarie germanica e come reazione ai violenti bombardamenti della Luftwaffe sulle città britanniche. Ebbene, sembra proprio di no. E' lo storico inglese Peter H. Nicoll (v.riferimento esterno) che già dopo la fine della guerra affermava: "Il primo bombardamento aereo notturno è stato fatto dagli inglesi nel maggio 1940 sull'antica città universitaria tedesca di Friburgo, con nessun obiettivo militare." Così, tanto per gradire. "Ed è importante ricordare - continua lo storico inglese - che mentre furono distrutte o gravemente danneggiate città d'arte, in particolare tedesche ed italiane, né Oxford, né Cambridge e neppure Edimburgo furono mai attaccate".

 

E veniamo all'Italia.

Le incursioni aeree sulle nostre città furono compiute soprattutto dopo l'8 settembre 1943 e cioè quando l'Italia aveva già chiesto l'armistizio ed era virtualmente "alleata" degli anglo-americani.
Ma i primi attacchi furono opera della R.A.F. (Royal Air Force britannica) con base nell'isola di Malta, seguiti da quelli dell'U.S. Air Force su Napoli e altre città meridionali. Il 4 agosto del '43 Napoli fu bombardata dall'aviazione americana da altissima quota, quindi alla cieca. La città subì in totale 43 ore di bombardamenti, con 20.000 morti; furono rasi al suolo ospedali, chiese, orfanotrofi, abitazioni civili. "Si raccontò che, in quel periodo, bombardare Napoli e altre città italiane, era diventato per i piloti americani una specie di sport, molto eccitante. Al punto che le gentili signore di quei piloti accompagnavano in volo i mariti, per provare così il brivido dell'atroce diversivo." (Giuseppe Campolieti, Breve storia della città di Napoli, Mondadori Editore, 2004).
Una "leggenda di guerra"? Chissà... Cosa potevano capirne, gli Americani, del terrore di un bombardamento aereo sulle loro città o di rimanere sepolti vivi in un rifugio antiaereo, dal momento che i loro morti civili sul suolo patrio nella Seconda guerra mondiale ammontano all'impressionante numero di... zero...? (cifra tratta da "Memoria per la storia e per la pace - Mai più guerra", a cura di Tullio Ferrari, Vol. III, Associazione Nazionale Combattenti e Reduci, Sez. di Modena, 1986).
Poi, nella cosiddetta "offensiva d'autunno" passarono a quello che era il nostro triangolo industriale: un pesantissimo attacco nell' agosto '43 su Milano, e altri su Torino e Genova. Quest'ultima, nei due mesi autunnali, fu bombardata sei volte con 1250 case distrutte; Torino 7 volte, con la distruzione di 142 ettari di superficie edificata (70 fabbriche, 24 edifici pubblici, e 1950 abitazioni civili); nella notte del 9 dicembre, su questa città gli inglesi scaricarono 147 tonnellate di bombe dirompenti e 256 tonnellate di spezzoni incendiari, sganciati da 1811 aerei.
Queste incursioni erano solo un "assaggio" di quello che sarebbe avvenuto nei mesi successivi.
Il 13 agosto anche Roma, appena dichiarata "città aperta" (cioè città sguarnita di difese e obiettivi militari, e dichiarata tale per i buoni uffici del Vaticano presso i governi americano e britannico), fu violata da circa 500 tonnellate di bombe americane che provocarono più di 2.000 morti e la distruzione di caseggiati civili.
Le notti del 13 e 17 agosto su Torino caddero altre 244 e 248 tonnellate di bombe. Ma l'attacco aereo più feroce fu quello scatenato su Milano nella notte fra il 12 e il 13 agosto: 504 aerei da bombardamento inglesi rovesciarono sulla città 1.252 tonnellate di bombe e spezzoni incendiari. Due giorni dopo, nella notte del 15 agosto, 140 bombardieri inglesi scaricarono altre 415 tonnellate di esplosivi. E ancora, nella notte del 16 agosto 199 bombardieri riversarono altre 601 tonnellate di ordigni mortali. In quattro giorni Milano fu colpita da 2.268 tonnellate di bombe sganciate da 843 aerei britannici. Il bilancio finale fu desolante: 239 industrie colpite, distrutte o gravemente danneggiate, 11.700 edifici civili e pubblici abbattuti, più di 15.000 quelli danneggiati, le centrali elettriche irreparabilmente bloccate, la rete di trasporti e di comunicazioni quasi totalmente inservibile, migliaia di morti. Negli ultimi tre mesi del 1943 i bombardamenti anglo-americani  a Milano provocarono 6.500 morti e circa 11.000 feriti, distruggendo e danneggiando migliaia di edifici.
Solo nel 1944 gli anglo-americani effettuarono sull'Italia centro-settentrionale, 4.541 incursioni, uccidendo 22.000 civili e ferendone oltre 36.000. Una vera e propria "escalation" di bombardamenti che non risparmiarono nessuna città (due soli esempi: Firenze, 7 massicci bombardamenti; Treviso, violentemente colpita il giorno del Venerdì Santo), con una frequenza quasi quotidiana. Si potrebbe continuare.

 

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Citazione a memoria di una frase dell'americano gen. Dwight Eisenhower, tratta da un discorso rivolto alle sue truppe, di cui ai tempi era comandante in capo ( fonte: commento audio di una trasmissione televisiva di carattere storico, RAI o Mediaset, probabilmente del 2004 ):

"Stiamo per invadere e conquistare, col ferro e col fuoco, un Paese [l'Italia] ricco di opere d'arte. Ma voi non fatevi scrupoli e portate a casa la pelle: nessuna opera d'arte può valere quanto la vita di un soldato americano".

 

Confronta con il rifiuto di George W. Bush a sottoscrivere il Protocollo di Kyoto contro l'emissione nell'atmosfera di gas nocivi: "Il benessere del popolo americano non può essere messo in discussione".

 

 

Nella Milano del dopoguerra, una collinetta artificiale denominata Monte Stella è stata costruita con oltre un milione di quintali di macerie, recuperate da tutti i settori della città rasi al suolo dai bombardamenti anglo-americani: fra queste macerie una buona parte è quella di edifici scolastici: due istituti superiori, sei scuole elementari e cinque materne completamente distrutti, oltre ad altre provenienti da centoventicinque scuole della provincia.
Fra le scuole elementari distrutte, ce n'è una di cui nessuno, specialmente fra i giovani, ne sa qualcosa: è la scuola elementare di Gorla, che la mattina del 20 ottobre 1944 era piena di bambini dai sei agli undici anni, con le loro maestre. Fu completamente distrutta da un' apocalisse di bombe sganciate da quadrimotori americani B24 e B27. Nella zona circostante la scuola si contarono 635 vittime; nella scuola trovarono la morte centonovantaquattro bambini, la loro direttrice, quattordici maestre, un'assistente sanitaria e quattro bidelli.

 

Ogni anno, nella ricorrenza, c'è un piccolo numero di vecchi - col tempo sempre più esiguo - che li ricorda mettendo un fiore sul monumento eretto in loro ricordo (e che dopo la guerra - come asserito recentemente da un conduttore radiofonico di una nota radio privata del Nord, dicembre 2004 - il Consolato americano a Milano voleva fosse abbattuto). Ma quei piccoli morti non fanno storia, perché sono scomodi: dicono che sono stati uccisi dai liberatori americani e non dalla feroce barbarie nazi-fascista, buona per tutte le stagioni. E ciò, in questa Italia sempre pronta a osannare i padroni di turno, è deplorevole ed è meglio che non si dica...

Ogni anno, in questa Italia, celebriamo con grande enfasi, grande partecipazione delle alte cariche dello Stato e grande risonanza mediatica, il Giorno della Memoria, a ricordo dello sterminio perpetrato dai nazisti sugli ebrei. Ma dei nostri morti sotto le bombe inglesi e americane è meglio non parlare.

 

quel che resta di un giorno

Scuola elementare F.Crispi - Milano-Gorla, 20 ottobre 1944

 

 

 

La foto sopra si trova nel fascicolo "La strage degli Innocenti" - Edizioni Erre, 1944,  ed è pubblicata nel sito www.piccolimartiri.it , da dove è stata tratta.

 

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“Folgore”: come e perché fu distrutta

(retroscena della disfatta)

prima parte

 

Di NINO ARENA

 

 

            Fu una delle poche GG.UU. del R.E. ad emergere dal grigiore e dalla mediocrità generalizzata delle FF:AA: italiane nella 2° guerra mondiale; una delle poche divisioni, che unitamente all’ “Ariete” e alla “Julia” ebbe notorietà internazionale dall’avversario, per avere conquistato, meritatamente, prestigio e indiscusso valore in una impari battaglia come fu quella di El Alamein, combattuta e persa 50 anni or sono, con grandi sacrifici da parte di migliaia di soldati italiani e tedeschi. In realtà la “Folgore” non doveva trovarsi a combattere in quel desolato campo di battaglia, ed è su questa anomala presenza, che si incentra la nostra descrizione. Se andò distrutta nel corso della battaglia, come del resto tutte le altre G.U. di fanteria italiane, l’evento deve attribuirsi ad una precisa intenzionalità dei comandi di Roma per eliminare la divisione paracadutisti, come entità fisica e combattiva, ipotesi questa che si avverò con sconcertante puntualità.

            La costituzione dei reparti paracadutisti e il loro inserimento nelle FF.AA., come specialità della fanteria, fu travagliata sin dall’inizio, il cammino reso difficoltoso da indifferenza, intralci burocratici, ostracismo e cialtroneria via via sempre più radicate nel tempo, con una escalation negativa permeata da diffusa e preconcetta ostilità, del tutto ingiustificata ma vera.

            I motivi di questa strisciante avversione ad alto livello, furono molteplici e differenziati, poiché vanno in parte ricercati nella diffidenza del vertice militare per le novità (il nostro L.E. Longo ha trattato con chiari concetti e lucidità questi argomenti sulla preparazione (o meglio impreparazione) delle FF.AA. prima del conflitto). Una diffidenza istintiva per il nuovo, per tutto ciò che esulava dall’assioma tradizionale, risorgimentale e piemontardo, del “suldat, del fusil, del mul e del canun” così caro a Badoglio ed al suo clan servile, rinnovato con qualche variante nel primo dopoguerra, ma pur sempre valido per respingere, anche per pigrizia intellettiva e professionale, ma soprattutto imposizione della casta dominante, la novità. Se accettata, per ipotesi, l’innovazione andava comunque esaminata con riserva e prevenzioni mentali a seconda dell’umore del capo, resa asfittica e inutilizzata dalla noncuranza se proposta da altri, disattesa dal disinteresse o esaminata da tiepido incoraggiamento se realizzata sperimentalmente, così come avvenne per i carri armati o per le GG.UU. celeri sorte all’insegna del compromesso del tradizionale col moderno e dell’assurdità operativa, che ne derivò, per la limitata diffusione della motorizzazione, la cooperazione cielo-terra, il rinnovo del parco artiglierie, istanze queste disattese dai compiti istituzionali del capo di Stato Maggiore Generale.

            Ed ecco i fatti. Una prima dimostrazione dell’ostilità verso i paracadutisti, si ebbe già nell’anteguerra, allorché Balbo – comandante supremo delle FF.AA. della Libia- ma anche scomodo e potenziale personaggio concorrenziale alla carica di Capo di Stato Maggiore Generale, detenuta da oltre un decennio da Badoglio, volle sfidare con audace iniziativa, l’immobilismo del vertice di comando delle FF.AA., costituendo in Libia i primi reparti di paracadutisti italiani, anche in funzione di progresso militare, per adeguarsi agli esperimenti fatti in tal senso dai più importanti eserciti del mondo (ed anche fra i minori come Cecoslovacchia, Ungheria, Finlandia).

            Se l’esperimento fosse riuscito, il quadrunviro avrebbe acquisito maggiore potere e importanza, risvegliato l’interesse per l’ammodernamento delle FF.AA. italiane dimostrando fantasia concreta e idee innovative: tutti elementi che si richiedono con la capacità professionale ad un candidato al livello superiore di comando; se invece fosse fallito, tutto sarebbe rientrato nella normalità di un esperimento mal riuscito con conseguente perdita di prestigio personale.

            Il complotto venne ordito nascostamente per realizzare la seconda ipotesi, ostacolandolo accortamente con cavilli giuridici, ordinativi, formali, difficoltà tecnico-finanziarie, procedure legislative, prerogative di comando col rifiutare ad esempio, ai militari del R.E. in Libia, di partecipare al concorso di arruolamento e la conseguente necessità per Balbo di rivolgersi al Regio Corpo Truppe Coloniali, che godevano di un ordinamento istituzionale diverso, in condominio col Ministero della Guerra, quello dell’Africa italiana e delle Finanze, per invogliare gli ascari libici ad arruolarsi.

            Le adesioni furono numerose, la selezione severa, gli arruolati numerosi anche se sussistevano fondate remore per il basso livello culturale dei nativi, difficoltà psicologiche e religiose, scarsa dimestichezza con la tecnologia, diffidenza e timori con l’aeroplano, il paracadute, il lancio dal cielo: una serie di elementi che potevano anche precludere, pur considerando l’ostracismo in atto, ad un giustificabile fallimento dell’esperimento. Le cose andarono però diversamente.

            Forte della legge n. 220 del febbraio 1937, che attribuiva all’Aeronautica la costituzione, gestione, amministrazione delle scuole di paracadutismo militare, Balbo, uomo dell’Aeronautica, si rivolse al comando della 5° Squadra Aerea della Libia da cui ottenere aerei, paracaduti, istruttori, contributi finanziari, materiale e assistenza tecnica e riuscì a eliminare, con accordi diretti fra Ministero delle Finanze e quello dell’Africa italiana, ogni ulteriore motivo giuridico ed economico che ostacolava la piena utilizzazione dei libici.

            I risultati, in contrasto con le pessimistiche previsioni dello Stato Maggiore Generale, furono superiori alle aspettative, anche se pesanti per perdite umane (17 caduti in esercitazioni lancistiche) ma in definitiva l’esperimento, che portò alla costituzione di un reggimento paracadutisti su due battaglioni libici a tutto il 1938, rimase fine a se stesso, circoscritto alla Libia, al di fuori degli interessi dello stesso Alto Comando.

            Venne ripreso in Italia, nel 1940, dopo la costituzione della Scuola militare di paracadutismo a Tarquinia gestita dalla Regia Aeronautica, anche se si ripetettero difficoltà di principio e istituzionali già riscontrate a Castel Benito di Tripoli, creando nuovi dissidi, incomprensioni e freddezza di rapporti fra Esercito e Aeronautica col risultato di rallentare la preparazione alla guerra già dichiarata, dei reparti paracadutisti, bloccandone l’attività sino al novembre del 1940, col conseguente slittamento del programma approntato alla grande dal comandante della scuola col. Pilota e paracadutista Giuseppe Baudoin De Gilette, determinato come Balbo, scomparso nel frattempo tragicamente, a realizzarlo senza guardare in faccia nessuno, con ostinazione, con pervicacia, saltando quando necessario la superiore gerarchia, parlando direttamente col Duce, per superare speciose difficoltà, inconcludenti riserve mentali, ostracismo, lacune ordinative e istituzionali (dopo tre anni dagli esperimenti di Balbo con decine di rapporti e relazioni sulle aviotruppe).

            L’idea della nuova specialità non aveva trovato credito alcuno presso gli Stati Maggiori a dimostrare la noncuranza e la cialtroneria esistente sui criteri d’impiego delle aviotruppe, sull’ordinamento, gli organici, l’armamento, i programmi addestrativi (poi approntati dal magg. SPE Giovanni Verando a Tarquinia in collaborazione col col. Baudoin). Non si era avuta ad esempio, alcuna collaborazione tecnica e materiale con i paracadutisti tedeschi e le loro esperienze di guerra (Eben Emael, Rotterdam, Narvich, Trondheim, ecc.) in applicazione al principio della “guerra parallela” ispirata da Badoglio e applicata dal suo clan.

            Fu necessario col dopo-Badoglio ricominciare dal principio utilizzando un nuovo paracadute di modello tedesco, manuali tattici, equipaggiamenti, metodi di lancio, preparazione specifica e costituzione di reparti a livello organico sempre più alto come GG.UU. anche se rimase invariato l’armamento assegnato ai paracadutisti (quello standard del R.E.) mediamente inferiore, tecnicamente superato per obsolescenza, inadatto alle aviotruppe e assegnato ai reparti in misura più limitata del 35% a quello delle GG.UU. del R.E..

            Il risultato finale di tutto questo fervore instaurato a Tarquinia da Baudoin, ottenuto in armoniosa collaborazione fra il personale della scuola del R.E. e della R.A., fu l’insorgenza ingiustificata di gelosie fuori luogo, risentimenti, prevenzioni, resistenza trasversale radicata in taluni ambienti dello SM/RE (all’epoca il deus et machina di ogni decisione era il sottocapo di SM generale Mario Roatta uomo del clan Badoglio), la cui influenza contagiò numerosi collaboratori dello stesso, generando negativamente, oltre ad un diffuso disinteresse, una imprevedibile defezione a livello superiore, manifestatasi  col rifiuto di accettare il comando della costituenda divisione paracadutisti da parte di generali dell’entourage del sottocapo, con un condizionamento mentale che valutava furbescamente l’eventualità di uscire dal clan, con pesanti riflessi sulla carriera e la conseguente necessità di rimanervi per godere di favori e privilegi.

            Una pesante atmosfera cui non era estraneo personalmente lo stesso Roatta, una strisciante contestazione che causò perplessità nell’intero SM/RE, con l’unica, lodevole eccezione del generale di brigata Enrico Frattini, ufficiale addetto al sottocapo di SM/RE, che mettendo da parte riluttanze, ingiustificate prevenzioni e timori del nulla che non facevano certamente onore a tanti suoi colleghi, si offrì volontario per il comando della divisione paracadutisti a cinquantacinque anni di età, con l’uso di pince-nez (si precettò paracadutista lanciandosi con occhialini gommati) riscattando con personale coraggio e determinazione il poco edificante spettacolo offerto dagli altri succubi generali. Fra l’altro, Frattini, proveniente dall’Arma del Genio e non da reparti operativi di linea, aveva precedenti più diplomatici che di comando (era stato per lunghi anni addetto militare a Tokio) e non rappresentava quindi l’optimum nella complessità degli elementi valutativi che si richiedevano ai candidati per diventare paracadutista e comandante di G.U. di aviotruppe, ed ottenere sia pure a malincuore il placet del suo temuto superiore.

            Ci vollero due lunghi anni a Tarquinia per completare gli organici divisionali, assolvere i gravosi compiti addestrativi, prepararsi specificatamente a scendere armati dal cielo di giorno e di notte per conquistare l’isola di Malta, primario obiettivo dell’unità –pur operando la specialità in mezzo a crescenti difficoltà- con compromessi sull’armamento, lanci notturni e manovre tattiche, addestramento in comune con i paracadutisti tedeschi sotto la supervisione del generale Ramcke. Non ci fu ancora come previsto, la dovuta attenzione da parte dei superiori comandi, la necessaria considerazione e assistenza alla nascente specialità, il cui investimento morale futuro avrebbe molto reso in prestigio e valore all’intero esercito italiano, ripagando abbondantemente con i risultati ottenuti, l’ingente costo economico pagato dalla comunità, per la preparazione e i grandi successi di così avveduta iniziativa.

            La preparazione per la C.3 (Malta) era giunta nell’estate del 1642 al 90% del programma stabilito e doveva essere realizzata fra i mesi di giugno/agosto, coinvolgendo 65.000 uomini di 6 GG.UU. di fanteria, 500 aerei e alianti, la squadra navale da battaglia e circa 10.000 militari tedeschi.

            Venne invece dapprima rinviata poi definitivamente annullata, anche se fra i motivi determinanti del suo annullamento vanno annoverati i provvedimenti arbitrariamente e ingiustificatamente adottati dallo SM/RE per snaturare l’operazione di aviolancio, trasferendo in Africa Settentrionale la divisione paracadutisti e decapitando in tal modo il corpo di spedizione, impossibilitato senza la partecipazione delle aviotruppe, (13.000 paracadutisti italo-tedeschi con 14 battaglioni e reparti speciali N.P.) ad eseguire la difficile impresa. Ed è sui motivi di questi provvedimenti che portarono alla distruzione della “Folgore”, che s’incentra la nostra narrazione.

            Nella primavera del 1942, con l’Asse vittorioso su tutti i fronti di guerra e il Giappone all’offensiva in tutta l’Asia, iniziarono a manifestarsi al vertice militare italiano, dapprima cautamente poi in forma sempre più evidente ed incisiva alcuni preoccupanti atteggiamenti; si avvertiva odore di fronda, si intravedevano comportamenti contrastanti con gli eventi in corso, si intuivano motivi controproducenti con la realtà avvertendo, quasi tangibilmente, la presenza di una oscura regia che nell’ombra manovrava accortamente uomini che contavano, potenti e temuti, inseriti in posti di responsabilità con grande capacità d’azione, detentori di punti chiave dell’apparato di comando da cui poter imporre decisioni, dissentire, argomentando ordini e disposizioni per annullare direttive o snaturarle, proporre e attuare trasferimenti di uomini e unità miranti ad ottenere determinati risultati convogliati dal misterioso regista ad una ben precisa finalità: far cadere il regime fascista e i suoi uomini, imporre una svolta decisiva all’alleanza con la Germania, uscire fuori dalla guerra e, se si presentavano le necessarie condizioni per agire, passare in campo alleato. Una serie di eventi inseriti nel programma occulto di Badoglio, che stava gradualmente trovando applicazione con l’appoggio della casa regnante, dei partiti antifascisti, degli ambienti finanziari-industriali, del clero e di una frangia del PNF facente capo a Ciano, Grandi, Bottai e altri personaggi minori fra cui il capo della Polizia Senise e alcuni diplomatici. Un complotto allargato che troverà concreta applicazione l’anno successivo col colpo di stato del 25 luglio.

            Per far cadere il fascismo la posta in gioco era rappresentata anche dalla sconfitta militare, dal discredito che avrebbe colpito Mussolini comandante supremo delle FF.AA. con gli insuccessi militari, dalla sfiducia che il Re dopo molte esitazioni avrebbe manifestato al suo Capo del Governo e dalla eventualità di possibili dimissioni volontarie o imposte del Duce.

            Per realizzare tali presupposti, coloro che potevano liberamente manovrare senza dare adito a sospetti erano i capi militari inseriti nella congiura, uomini potenti che detenevano stranamente, nonostante molti pareri negativi, il potere decisionale nei posti chiave dell’apparato militare. Chi erano costoro? Nel 1940, Roatta era sottocapo di SM/RE, assente il suo diretto superiore maresciallo Graziani comandante supremo in Libia, mentre Badoglio era Capo di SMG. Dopo la disastrosa campagna di Grecia che provocò l’allontanamento di Badoglio, responsabile in primis dell’impreparazione delle FF.AA., Roatta rimase impensatamente al suo posto di comando anche sotto Cavallero, avversario da sempre di Badoglio, anzi diveniva Capo di SM/RE nel marzo 1941 per essere poi sostituito nel 1942 nella carica dal Generale Vittorio Ambrosio, già comandante della 2° armata in Jugoslavia, al cui comando subentrava stranamente lo stesso Roatta che provvedeva, inusualmente, a svincolarla dalla diretta dipendenza di Superesercito; successivamente lo stesso prendeva il comando della 6° armata in Sicilia, senza peraltro attuare nell’isola tutte le misure difensive atte ad evitare la facile conquista da parte alleata, come poi si verificò.

            El giugno 1943 ritornava, altrettanto inusualmente, a fare il Capo di SM/RE dopo che Ambrosio, con l’appoggio di Ciano, di Vittorio Emanuele e l’avallo di Mussolini aveva sostituito nel febbraio 1943 il filotedesco maresciallo Cavallero come Capo di SMG. Il gioco era fatto. Due uomini importanti del clan Badoglio che da sempre detenevano saldamente posti chiave al vertice militare delle FF.AA., che avevano controllato ininterrottamente da prima della guerra alla vigilia dell’armistizio lo SM/RE e successivamente anche il Comando Supremo, salvo un breve periodo di soli 4 mesi in cui si avvicendarono nella carica di Capo di SM/RE i generali Rosi e Di Stefano tanto per non suscitare sospetti, che complottavano troveremo puntualmente l’8 settembre 1943. Sorprende non poco, come siffatti personaggi abbiano avuto sempre il placet di Mussolini, forse su pressioni del Sovrano, pur ricevendo il Duce assieme a personaggi minori, informazioni confidenziali e riservate che avrebbero dovuto quanto meno suscitare fondati sospetti. Infatti, fra i documenti rintracciati all’A.C.S. troviamo una velina anonima riguardante il generale Mario Roatta, documento questo rinvenuto recentemente dall’autore (ACS-SPD/CR b./73) inviata a Mussolini nel 1942 che denunciava: “contrastanti direttive operative in difformità d’azione nei diversi scacchieri di guerra, erronei apprezzamenti sulle forze nemiche, rifiuto di fornire adeguati rinforzi di truppe e mezzi ai comandanti responsabili, fra cui il generale Visconti-Prasca in Albania, mentre l’interessato sotto il profilo personale, lo si definiva di animo insensibile, capace di ogni abuso, oggetto di disistima persino dai suoi più fidati collaboratori”.

            Per realizzare il colpo di Stato, era necessario allontanare da Roma e dal Lazio tutti i reparti su cui si nutrivano dubbi sull’osservanza assoluta degli ordini (in primo luogo i paracadutisti) avvicendandoli con G.U. di provata ubbidienza e disciplina, affidate a uomini sicuri; un piano questo iniziato gradualmente nel luglio 1942 con l’allontanamento della “Folgore” e completato l’anno successivo con il trasferimento della “Nembo” in Sardegna e dei reparti speciali N.P. in Francia; col 10° reggimento arditi frazionato in Sardegna e Sicilia, dopo aver dissolto con impossibili missioni di aviolancio in nord Africa, il fior fiore dei sabotatori attesi spesso dal nemico e catturati ancor prima di agire. Unica eccezione: il mancato trasferimento della divisione corazzata “M” destinata nelle Puglie ma rimasta bloccata nell’alto Lazio dagli eventi (la “Nembo” farà tristemente la fine della “Folgore”, frazionata opportunamente in due tronconi, decimata dalla malaria, suddivisa fra Sardegna e Italia meridionale). In sostituzione dei reparti allontanati arrivavano GG.UU. già operanti in Jugoslavia con la 2° armata di Ambrosio e Roatta: “Granatieri di Sardegna”, “Re”, “Lupi di Toscana”, “Sassari” mentre la motorizzata “Piave”, destinata da tempo all’A.S., venne ingiustificatamente trattenuta in patria a disposizione del comando Superesercito, quando la sua presenza in A.S. era più che necessaria.

            Pur lavorando nascostamente con tali favorevoli premesse, la regia del colpo di stato sbagliò completamente la conclusione, anche dopo il riuscito arresto di Mussolini a Villa Savoia, e il secondo atto della tragedia si tradusse in un disastro immane che coinvolse tutti gli italiani, dissolse miseramente le FF.AA innescando un irreversibile processo di autodistruzione nazionale in cui regista, attori e marionette pagarono col disprezzo degli italiani, di ex amici e di nemici la loro partecipazione e finirono emarginati per sempre dalla storia.

            Nella primavera del 1942, la cambiata atmosfera nei comandi di Roma, avvertita, intuita, sussurrata dai più sensibili e intelligenti ufficiali di S.M. introdotti nei misteri di Palazzo Baracchini, non era sfuggita ad esempio al tenente colonnello Alberto Bechi-Luserna, un ufficiale superiore dei paracadutisti, pluridecorato, brillante scrittore di argomenti militari, attaché militare a Londra, profondo conoscitore dell’ambiente militare anglosassone di cui aveva descritto tradizione e folklore in “Britannia in armi”, compilando anche durante la guerra, un opuscolo di propaganda dal significativo titolo “La falsa democrazia della Gran Bretagna”. Bechi, conosciuto e stimato nei circoli diplomatici e molto introdotto nell’ambiente esclusivo del Ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, di cui godeva l’amicizia e la considerazione, convintosi che i paracadutisti per volontà dello SM/RE non sarebbero mai stati lanciati in battaglia (profetiche parole) e che la preparazione della C.3 sarebbe stata seriamente compromessa da tale preciso intendimento, scriveva una lettera confidenziale al colonnello pilota Giuseppe Casero, segretario del capo di SM/RA generale Rino Corso Fougier, del seguente tenore: “I paracadutisti, posti come sono alle dipendenze dell’Esercito non vanno. Incomprensioni, interferenze, ritardi di ogni genere ne turbano seriamente l’efficienza. Già da tempo mi ero convinto, ma ora ho l’appoggio del generale Ramcke che aveva esposto al Duce la necessità di trasferirci all’Aeronautica, in quanto ritiene che, ogni nostra futura impresa sarebbe destinata al fallimento o a sterili risultati. Il parere è pienamente condiviso da noi tutti ufficiali paracadutisti. Io spezzo una lancia apertamente in proposito di una delle nostre più diffuse riviste militari. Tanto per tua norma acciocché possa, se lo ritieni opportuno, renderne edotto l’Eccellenza Fougier. Tuo Alberto Bechi Lucerna. Roma Aprile 1942” (ACS-SPD/CR).

            Questa era dunque l’atmosfera esistente alla vigilia dell’attacco a Malta, con i soldati e gli ufficiali pronti ad agire e a sacrificarsi per tale importante operazione e i comandi responsabili intenzionati ad annullare ogni sforzo e snaturare ogni previsione per far fallire l’operazione ancor prima dell’attacco. Non più supposizioni o ipotesi ma una avvilente realtà chiamata anche sabotaggio. A dare una mano ai congiurati di Roma, provvedeva indirettamente dall’A.S. il neo maresciallo Rommel, corresponsabile in prima persona della negativa svolta strategica dell’estate 1942, anteponendo alla conquista di Malta, fattibile e già decisa al superiore livello italo-tedesco, il proseguimento dell’avanzata verso l’Egitto. Un discutibile piano di soggettiva valutazione, incerto risultato e istintiva valutazione, che avrebbe rimesso in discussione l’operazione C.3 e scosso ancor più, la tiepida comprensione dimostrata per la “Hercules”  dal Fuhrer e dall’OKW duramente impegnati contro l’URSS. La caduta improvvisa di Tobruk indusse Rommel al gran colpo: continuare l’avanzata in Egitto, anche contestando ordini superiori, nella convinzione che i risultati della sua insubordinazione avrebbero indotto i comandi italo-tedeschi all’indulgenza.

            Sarebbe aumentato il suo prestigio personale nella pubblica opinione, nella considerazione di amici e nemici, convinto, com’era, che sarebbe bastata una semplice spallata, vigorosa ma decisa, a far crollare la residua resistenza dell’8° armata inglese in ritirata verso il delta, conquistare quindi il canale di Suez e penetrare nel Medio Oriente. Alla conclamata e prevedibile riluttanza del più cauto e avveduto maresciallo Bastico, comandante superiore delle FF.AA. dell’A.S., al pensiero del rifiuto che avrebbero opposto il neo maresciallo Cavallero, lo stesso Mussolini e il suo diretto superiore Kesselring a posporre la C.3 per l’Egitto, Rommel rispose a modo suo: saltò a piè pari la scala gerarchica italo-tedesca, l’OKH e l’OKW chiamando direttamente in causa il suo Fuhrer coinvolgendolo personalmente nella sua irrazionale visione per far leva sul Duce. Hitler, impegnato a fondo in Russia non si fece pregare; chiamò Mussolini, indeciso e titubante per il meditato pensiero del suo capo si SMG che anteponeva Malta alle piramidi, per riaffermare con coerenza il principio delle decisioni collegiali per la C.3 al confronto col piano avventato, audace ma aleatorio del riottoso feldmaresciallo ambizioso e impulsivo.

            Nelle remore delle risposte del Duce e di Cavallero, Rommel, anticipando le conclusioni e attuando il suo collaudato e personale autonomo comportamento, già positivamente applicato in altre occasioni, proseguì isolatamente l’avanzata oltrepassando la frontiera egiziana, su cui avrebbe dovuto fermarsi, giunse alla strettoia fortificata di El Alamein con pochi uomini e scarsi mezzi dopo aver disseminato la “Balbia” e la litoranea egiziana di centinaia di veicoli fuori uso, bisognevoli di riparazioni. Lo attendevano a piè fermo gli inglesi di Ritchie e solo allora si rese conto della realtà: in quelle condizioni non avrebbero potuto proseguire anche perché l’8° armata era tutt’altro che distrutta. Era necessario sostare, riordinarsi, attendere i rinforzi e i rifornimenti promessi: soprattutto il prezioso carburante di cui si avvertiva la grande necessità. Un attacco sferrato da Rommel ai primi di luglio con 6.500 uomini, 30 cannoni e 150 carri armati venne respinto dai 25.000 inglesi con 120 cannoni, 121 carri e il concorso di 550 aerei della RAF.

            Pochi giorni più tardi giungeva l’autorizzazione di Mussolini e di Cavallero, convinto il Duce dal demagogico telegramma del Fuhrer: “…la dea della fortuna passa soltanto una volta accanto ai condottieri…” e Mussolini, sollecitato da Hitler, dovette a malincuore diramare l’ordine di: “…far avanzare l’ACIT oltre la frontiera egiziana”, ordine formale ma non rispondente alla realtà, assecondato dal riluttante Capo di SMG che da tempo si trovava in A.S. per seguire da vicino la situazione, seguito gerarchicamente dal maresciallo Bastico, ugualmente non convinto della situazione creatasi.

            Il primo problema messo sul tappeto da Rommel, riguardava il rafforzamento dell’ACIT (Armata Corazzata Italo-Tedesca) con GG.UU. fresche, seguito dall’invio di materiali e rifornimenti, provvedimenti questi che coinvolsero negativamente la divisione paracadutisti, offerta inopinatamente dai congiurati romani, con la favorevole opportunità avanzata da Rommel.

            Dal canto suo l’OKW, su sollecitazione del Fuhrer, sensibilizzò Kesselring, comandante dell’OBS in Italia, affinché facesse il possibile per soddisfare le richieste di Rommel, sollecitamente, anche se Kesselring non disponeva affatto di G.U. e le uniche disponibilità erano date dalla presenza di 4 residui battaglioni di Fallschimjager, assegnati per l’occupazione di Malta, reparti che rinforzati con sezioni genieri, PAK e trasporti costituirono la brigata z.v.B. (di formazione speciale) affidata al generale Bernard Ramcke; l’esperto ufficiale paracadutista cui era stata affidata la supervisione della preparazione dei paracadutisti italo-tedeschi per la C.£. Contemporaneamente l’OKW, disponeva che il comando OBSO (Grecia) rendesse disponibile la m164° I.D., allertasse la 22° Luftlande a Creta mentre la Luftwaffe metteva a disposizione la 19° Flak brigade (36 cannoni da 88/55) di grande utilità nel deserto.

            Dal Villaggio “Berta” dove si trovava, Cavallero si mise in comunicazione col Comando Supremo a Roma e col Superesercito chiedendo qual’era la disponibilità di GG.UU. per l’A.S.nel contesto delle 75 divisioni in servizio. La risposta laconica e deprimente che ricevette fu la seguente: “disponibile div. ftr. ‘Pistoia’ in fase di rimpatrio dalla Grecia (verrà inviata alcuni mesi più tardi in A.S. con autocarrette SPA/CL. 39 inadatte al deserto poi sottoposte a modifiche strutturali); possibilità di trasformare in unità tipo A.S. la div. ftr. ‘Superga’ (andrà a dicembre in Tunisia). Disponibilità immediata: reparti semoventi, genieri, artiglieria c.a.”. In linguaggio corrente non c’era niente di pronto per l’A.S. a dimostrare l’imprevidenza, la superficialità, l’irresponsabilità da parte italiana, di non poter convenientemente sfruttare con adeguate GG.UU. l’eventualità di una travolgente avanzata dell’Asse verso il canale di Suez, se riusciva il piano di Rommel. Cosa era possibile ottenere come risultati da divisioni appiedate e artiglieria ippotrainata?

            Cavallero incredulo per tanta desolante povertà, insistette ancora ma ricevette la seguente risposta: “Comando Supremo per Supercomando AS-15.7.1942-XX n. 31564.

            Per signor maresciallo –in ottemperanza vs. disposizioni verbali et vs. odierno telegramma di superiore approvazione provvedimenti noti, rappresento quanto segue: Parte prima –disponibile divisione Frattini (paracadutisti) che con aviotrasporti intensificati al massimo et considerando che velivoli debbono portare anche carburante per viaggio di ritorno, provedesi arrivo divisione entro primi giorni mese di agosto. Qualora fosse possibile effettuare rifornimenti carburante per viaggio ritorno velivoli, si conseguirebbe maggiore disponibilità carico in andata così che aviotrasporto divisione risulterebbe accelerato di circa una settimana rispetto data suddetta. Conferito stamane con eccellenza Riccardi et Santoro per cui est assicurata possibilità invio benzina avio occorrente at mezzo sommergibili”. Seguivano nel testo a firma generale Magli, varie altre ipotesi e considerazioni circa la scelta per trasformare una G.U. standard di unità tipo A.S./42 (maggiore disponibilità automezzi, cannoni CC., più ridotti ma compatti organici divisionali) selezionando “Pistoia”, “Friuli”, “Piave”, “Brennero” (quest’ultima in Grecia) doveva trasformare il rgt. Artiglieria da ippotrainato in motorizzato (traino meccanico con trattori TL.37 e carrello elastico) trasformazioni che richiedevano da 40 a 60 giorni, motivo questi che escludevano una immediata disponibilità lasciando in tal modo come ultima ipotesi la divisione “Frattini”. Tale residua possibilità, se da un lato esaltava Cavallero dal dover doverosamente rifiutare il concorso italiano, dall’altro lo poneva in condizioni di far fronte con analoga offerta di aviotruppe alla decisione tedesca e fu quest’ultima opportunità ad influenzare ogni residua remora nel quadro della mortificante prospettiva presentata da Superesercito. In tal senso Cavallero telegrafò al Generale Magli del Comando Supremo: “A vs. 31564 deta 14.7.1942 parte prima: La divisione Frattini dovrà essere sbarcata a Tobruk. Sarà provveduto rifornimento carburante per ritorno. Est però necessario che sommergibile parta subito non potendosi anticipare carburante per durata superiore tre giorni. Parte seconda: condivido considerazioni su ‘Brennero’ (trasformazione del 9° rgt. Art.). Parte terza: sta bene per trasporto ‘Pistoia’ dalla Grecia con completamento armamento in A.S./42. Parte quarta: lascio at comando supremo regolare inserimento aviotrasporti per altre esigenze da voi prospettate. Parte quinta: procedete approntamento ‘Brennero’ Cavallero; inoltre, su conforme parere di Supercomando ASI, veniva stabilito che la divisione scelta paracadutisti, sarebbe stata impiegata temporaneamente come fanteria, fino a che le circostanze non ne avessero permesso il suo impiego caratteristico”. In effetti il C.S. sacrificava l’unica divisione di aviotruppe, peraltro incompleta del R.E., imposta e presentata con un pianificato programma di trasporto: un vero colpo di mano arbitrario e scontato. Delle decisioni prese veniva informato Mussolini che da tempo si trovava in A.S. al villaggio “Berta”, il quale non condividendo in toto i provvedimenti presi approntava una relazione-direttiva dal titolo “Considerazioni sulla situazione militare” in cui fra le altre valutazioni stabiliva alla lettera f): fare affluire gradatamente verso lo schieramento le divisioni non ancora impegnate (“Bologna” “GG.FF.”) e quelle in arrivo o predisposte (paracadutisti, “Pistoia”, “Brennero”) avendo cura di non stipare eccessivamente il fronte con unità che non posseggono un minimo di automobilità”.Una evidente preoccupazione personale che teneva in debito conto le passate e negative esperienze in A.S. che avevano causato l’annientamento di almeno 14 G.U. nei precedenti anni di guerra, travolte appiedate da masse moto-corazzate nemiche.

            In ottemperanza a queste direttive, Cavallero con ordine n. 149 diretto a SuperASI stabiliva al paragrafo E): “I battaglioni paracadutisti sono stati assegnati all’arma corazzata per fronteggiare le necessità più urgenti, ma è inteso che, a schieramento assestato, questi battaglioni dovranno essere recuperati, salvo a determinare la più appropriata dislocazione in relazione anche all’impiego che il comando dell’arma farà dei paracadutisti germanici. Dell’intenzione di recuperare i battaglioni paracadutisti, converrà preavvisare il comando dell’armata corazzata. Cavallero”.

            Gli intendimenti di Rommel, meno riguardosi ma più pratici nella prospettiva di rafforzamento dell’A.S., miravano invece a utilizzare i paracadutisti in difformità di quanto previsto da Mussolini, Cavallero e Bastico, poiché egli intendeva estendere lo schieramento a sud di El Alamein impiegando il “Bologna” e la divisione “Frattini” in arrivo, arretrare “Ariete”, “Littorio”, 15° e 21° panzer e 90° leggera da utilizzare con la “Pistoia”, gabellata come motorizzata, come massa di manovra. La situazione statica sarebbe ulteriormente migliorata con il previsto arrivo della 22° Luftlande (alla data 28.7 non era ancora giunta in A.S. la “Ramcke” che contava 4.500 paracadutisti, migliori armamento individuale e di reparto rispetto agli italiani, maggiore mobilità e più servizi).

            A queste considerazioni di ordine generale, dobbiamo aggiungere i motivi per cui si giunse a proporre per l’A.S. la divisione “Frattini” con maggiori organici rispetto alla “Ramcke” (circa 1.500 uomini) ma con minore e più scadente armamento, nessuna disponibilità di automezzi, attrezzature tecniche, materiali campali e ordinari: un confronto da cui la divisione italiana usciva senz’altro penalizzata. Era certamente più idonea per l’A.S. una qualsiasi delle G.U. assegnate per la C.3 da trasformare in modello AS/42, oppure inviare, come prospettato dalla SM/RE ma non attuato, la motorizzata “Piave” (verrà arbitrariamente negata a Cavallero e tenuta come riserva da Superesercito per essere utilizzata nella difesa di Roma nel settembre 1943). Era più idonea ad esempio l’aviotrasportabile “La Spezia” con organici a livello div. ftr., maggiore componente di artiglieria, addestrata come fanteria di linea e predisposta psicologicamente e praticamente a tale impiego, che non la divisione paracadutisti, addestrata per l’operazione veloce e limitata nel tempo, il colpo di mano su un importante obiettivo, maggior elasticità mentale per impiego e preparazione: una serie di interrogativi che non troveranno risposta alcuna e convincenti giustificazioni.

            In questa situazione andava aggiunta la personale frustrazione di Mussolini, che da tempo si trovava in A.S. chiamato prematuramente da Cavallero con la parola convenzionale “Tevere” (imminente vittoria in Egitto) confinato al villaggio “Berta”, inoperoso, insofferente per la situazione che constatava amaramente di persona, deluso da Cavallero, snobbato da Rommel (il feldmaresciallo non si fece mai vedere) in attesa come gli altri di qualcosa che non poteva verificarsi.

 

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