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Economia
Italia, impara dai paesi
dell' Est
TASSO
D'INFLAZIONE A MODENA IN AUMENTO
L'Economia
Italiana di Ugo Gaudenzi
L'Apocalisse
Sociale nell'epoca del totalismo neoliberista di Filippo
Ronchi
Lasciate
ogni soldo o voi che entrate di Manuel Negri
“Italia,
impara dai paesi dell’Est”
intervista
a Marc A. Miles di Arianna Capuani
[02
feb 06]
Ha l’aspetto compito di un’analista finanziario ma la passione che ci mette
nel descrivere il “suo” Index of Economic Freedom lo fa assomigliare a un
uomo politico in piena campagna elettorale. Marc A. Miles è il Deus ex machina
dell’Indice sulle libertà economiche che, per conto della Heritage Foundation
e del Wall Street Journal, monitora di anno in anno i progressi o le restrizioni
al libero mercato di tutti i paesi del globo. In Italia è stato ospite
dell’Istituto Bruno Leoni, partner per l’Italia della Heritage
nell’elaborazione dei dati e ha illustrato a Roma i risultati dell’edizione
2006. Lo abbiamo intervistato per valutare assieme le tendenze registrate a
livello globale in un anno considerato economicamente difficile nell’Europa
occidentale, di grande sviluppo nell’area asiatica.
Novantanove nazioni, quest’anno, hanno riportato una
performance migliore rispetto allo scorso anno. Come si spiega questo balzo in
avanti? Possiamo davvero parlare di un legame indissolubile tra libertà civili
e libertà economiche?
Non è nostro compito misurare le libertà civili, come ad esempio fa Freedom
House, ma soltanto quelle economiche. Ma in sostanza sì: sono libertà che
vanno di pari passo. Ad esempio, uno dei nostri parametri è stato quello del
rispetto della legge, per valutare il tasso di corruzione. E talvolta, le libertà
economiche aiutano quelle civili ad emergere. Prendiamo il caso della Cina, in
modo particolare delle ricche province del Sud. Hanno creato nuove industrie,
c’è ricchezza di investimenti, si sta formando un ceto medio a tutti gli
effetti, e questo ha fatto sì che per la prima volta i diritti di proprietà
siano entrati nella Costituzione. Non è impossibile, quindi, che questo cominci
a spianare la strada anche alle libertà che definiamo più propriamente
“civili”. Quello che vorrei sottolineare, è che la libertà economica non
è elargita dallo Stato: è qualcosa che riguarda gli individui. Persone che si
alzano la mattina e pensano a come sfruttare il proprio talento naturale per
produrre ricchezza. Non sta ai governi farlo. E’ esattamente il contrario
dell’opinione di Kofi Annan e di Bono: i paesi ricchi dovrebbero versare
ingenti quantità di denaro a quelli più poveri. Ma così facendo, non si
ottiene altro che finanziare le solite oligarchie, e i vari dittatori: la
redistribuzione della ricchezza non ci è di nessun aiuto. La povertà è
soltanto un sintomo: il vero problema, se mai, è la mancanza di opportunità.
Quale è il bilancio dell’Europa? La sensazione generale
è ormai quella di un continente in declino: corrisponde alla realtà? E il
diffuso Stato assistenziale è divenuto un freno alla crescita?
Dovreste fare attenzione a non guardare soltanto all’Europa occidentale. In
Europa centrale e orientale è in atto una vera e propria rivoluzione.
L’introduzione della flat tax - in un sistema più ampio di tagli delle tasse
- ha prodotto notevoli risultati. Pensiamo alla Slovacchia, che ha ridotto le
tasse sul reddito dal 38% all’attuale 19. In Europa occidentale, una nazione
che cresce in modo eclatante oggi è l’Irlanda, che da esportatrice è
diventata importatrice di manodopera. Intanto, altri paesi cominciano a imparare
dall’Europa dell’Est: pensiamo alla Germania, dove i lavoratori hanno
rinunciato alle 35 ore per lavorarne 40 con un salario invariato. E per quanto
riguarda il welfare state, vorrei segnalare che in Europa occidentale credete di
averlo. In realtà, si tratta di un welfare senza copertura finanziaria:
insomma, i vostri governi promettono più di quanto non possano pagare. La
situazione è sempre più simile a quella del Giappone di qualche anno fa: una
popolazione sempre più invecchiata, difficoltà a pagare le pensioni, capitali
e persone che fuggono all’estero. E’ anche un problema culturale: le nazioni
dell’Europa dell’Est hanno guardato nell’abisso dell’economia
completamente statalizzata, e hanno imparato la lezione.
Nel vostro indice l’Italia è scivolata di ventidue
posizioni ricevendo lo stesso punteggio di Trinidad e Tobago: non è certo una
bella sorpresa. Cosa ha determinato questo dato? E cosa suggerirebbe al prossimo
governo, qualunque esso sia, per rimettere in moto la nostra economia?
Il più grande problema dell’economia italiana sono i monopoli: pensiamo al
sistema bancario, all’Alitalia. Iniziare sul serio una deregulation è
fondamentale, e bisognerebbe inoltre eliminare tutti gli ostacoli burocratici
attualmente esistenti quando si vuole fondare un’impresa. E c’è
dell’altro. Per quanto riguarda le tasse sul reddito, soltanto 26 paesi sono
oppressi da una pressione fiscale maggiore di quella dell’Italia. Certo,
cercare l’armonizzazione, come fanno Francia e Germania, non è poi una
cattiva idea, a patto però che si intenda praticare gli stessi tagli delle
tasse della Slovacchia. Ed è un problema di tutti gli italiani. Ai prossimi
governanti direi: volete essere ricordati come quelli che non hanno fatto nulla
per salvare il proprio paese, o come quelli che lo hanno soccorso?.
02
febbraio 2006
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TASSO
D'INFLAZIONE A MODENA IN AUMENTO
Nel mese di gennaio 2006 il tasso di inflazione a Modena è cresciuto dello
0,3% rispetto al mese precedente, mentre il tasso tendenziale annuo risulta pari
al 2,2%.
I dati, elaborati dall’Ufficio Statistica del Comune di Modena, segnalano che
il maggiore incremento su base mensile è stato registrato nel capitolo Servizi
ricettivi e di ristorazione (+1,2% rispetto a dicembre), seguito dai capitoli
Ricreazione, spettacolo e cultura (+0,8%). In calo, invece, rispetto al mese di
dicembre, il capitolo Servizi sanitari e spese per la salute (-0,6%), grazie
alla diminuzione dei prezzi dei medicinali.
Nel dettaglio delle singole voci, rispetto al mese di dicembre gli aumenti più
marcati, calcolati a livello nazionale, si registrano negli impianti di risalita
(+9,7%) e nei pacchetti vacanze tutto compreso(+11,2%). La diminuzione più
forte invece è relativa ai trasporti aerei (-14,3%, sempre su base nazionale).
Su base annua, infine, il massimo incremento registrato rimane quello del prezzo
dell’acqua potabile, salito del 22,9%, mentre il massimo ribasso è per le
apparecchiature e materiale telefonico (-16%).
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“Lasciate
ogni soldo o voi che entrate…” |
Manuel Negri (Fiamma Tricolore): “Quando entrate
in una banca, dovete chiedervi sempre che cosa state facendo, ma
soprattutto essere prevenuti e diffidenti. Non dimenticatevi che rischiate
praticamente ogni volta di prendere una supposta…”.
(wwww.dilloadalice.it n.92 del 15/02/2006)
Quando entrate in una banca, dovete chiedervi sempre che cosa state
facendo, ma soprattutto essere prevenuti e diffidenti. Questo perché,
spesso e volentieri, i "truffatori in doppiopetto" circuiscono
le proprie vittime attraverso un efficace sistema di persuasione e di
convincimento assimilato durante i periodici corsi intrapresi per
imparare ad arruffianarsi i clienti.
Entrate in banca per aprire un semplicissimo libretto di deposito o
per un conto corrente: vi sedete, vi incantano con belle parole, vi
illustrano le sfavillanti condizioni poi, inebetiti da tanto bel
ciarlare, acconsentite; loro stampano il contratto, due chili di carta e
vi dicono "firmi qui, sono le solite formalità burocratiche, non
si preoccupi".
E lì vi siete già fregati legandovi alla banca e, più lungo rimane
il vincolo, più la banca ci guadagna.
Solitamente, i contratti non li legge mai nessuno, chi li legge non
li capisce, tanto meno le parti microscopiche a piè di pagina che
sanciscono magari le condizioni di recessione o di risoluzione del
rapporto. Successivamente, passato qualche tempo, potete toccare con
mano il modo in cui, direttori o semplici impiegati, tentano di vendervi
i prodotti della banca che, a sentir loro, vengono realizzati solo ed
esclusivamente a vostro vantaggio e secondo le specifiche esigenze del
cliente ma che, in realtà, risultano vere e proprie manne per gli
stessi istituti che ne incamerano le salatissime commissioni. Ma non
dimenticatevi mai, siete considerati "clienti privilegiati".
Siete così entrati in banca per un conto corrente o un libretto di
deposito ma ne siete usciti con un PAC (piano di accumulo), naturalmente
"fatto su misura per voi", qualche etto di obbligazioni della
banca stessa, ma state tranquilli, "sono garantite da noi" vi
dicono e qualche titolo di una nuova e promettente società quotata sul
mercato di un paese emergente.
"Tutti investimenti senza alcun rischio", e poi "state
tranquilli" perché "avete scelto una banca che aderisce alla
convenzione Patti Chiari", di cui fanno parte Capitalia, Banca
Intesa, Unicredit, Monte dei Paschi di Siena... le banche per bene, per
intenderci, quelle delle gestioni trasparenti... "Tutti prodotti
fatti su misura per voi".
E per la Banca? Solo un piccolo disturbo, "solo qualche spesa di
commissione, un briciolo di spese di entrata, un pizzico di spese di
gestione, qualche bollo, un po' spese di custodia, qualche spesa fissa,
il recupero della trasparenza, le spese di invio del documento di
sintesi, una piccola polizza, le spese di istruttoria, di revisione....
Inoltre avrete il vantaggio di ricevere gratuitamente un bancomat ed una
nuova carta di credito, sa, di quelle moderne, quelle attraverso cui
potrete rimborsare a rate le vostre spese", in modo da dilapidare
più efficacemente i vostri ultimi risparmi.
Vi inviano poi a casa i documenti di sintesi, papiri illeggibili il
cui contenuto nemmeno il direttore di filiale conosce, "sa, sono
documenti che inviano dalla direzione centrale", se non da
quell'occhialuto e brufoloso funzionario paranoico che li ha redatti; le
norme sulla privacy dove voi, firmando, autorizzate al trattamento dei
vostri dati personali, apparentemente riservati solo all'istituto con
cui avete il rapporto ma che, in effetti, convoglieranno negli archivi
di qualche altro rapace soggetto interessato a fagocitare i vostri
ultimi risparmi.
Poi ci sono i famigerati rapporti sulla trasparenza bancaria,
divenuti di moda dopo i recenti crack finanziari; ma toccatevi, perché
quando riceverete quelli, vuol dire che ve l'hanno già messo in quel
posto e senza accorgervene; perché non dovete mai dimenticare che
quando entrate in banca, è come prendere una supposta, ve la infilano
piano piano...
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L’Economia
italiana….
Ugo Gaudenzi
Tutti
i riflettori della stampa (in)dipendente d’Italia sono stati accesi
sulle dichiarazioni sul caso Unipol rese dal Cavaliere nella notte di
martedì a Porta a Porta, trasmissione disertata, con un manifesto
autogol, dal duo Fassino-D’Alema.
Tutti questi (in)formatori dell’opinione pubblica hanno versato dunque
fiumi d’inchiostro sull’attacco di Silvio Berlusconi ai magistrati
che “hanno insabbiato l’inchiesta” sul caso dell’assicurazione -
di ispirazione Pci-Pds-Ds - i cui vertici erano stati colti con le mani
immerse nel barattolo della marmellata. Commenti, distinguo, cronache
rosa. Imbarazzo, bacchettate e quasi generale biasimo per la
sottolineatura della “evidente differenza di trattamento fra le
indagini sulla scalata Bnl e quelle su Bpi”.
Nessun rilievo invece, o appena delle punte di interesse nascoste tra
tutte le cronache, per le altre dichiarazioni di Berrlusconi, quelle che
più ci interessano, quelle sullo stato di benessere o malessere della
nostra nazione.
Proviamo noi a darne conto ai nostri lettori, una pattuglia ben ferrata
e con gli occhi non avvolti dalle pesanti bende mediatiche utilizzate
per rendere instupiditi, anzi: forzatamente ciechi i cittadini italiani.
Ecco. Berlusconi, che è evidentemente un liberale e non un liberista
(mentre gli ospiti-reporter del salotto di Vespa sono ormai più
realisti del re, tutti allineati e coperti nell’omaggiare il più
vergognoso liberismo), ha messo un dito nella piaga sottolineando come
lo stato della nostra economia sia ormai comatoso perché, per
un’Italia rimasta in possesso di industrie desuete - settore tessile
o, perché no, settore auto - è molto difficile reggere la concorrenza
con le tigri emergenti, con i prodotti in dumping di Cina, India e Paesi
in via di accelerato sviluppo. L’unica soluzione, ha detto, è quella
di imporre la parità tra gli scambi bilaterali tra l’Italia (o
l’Europa) e questi Paesi. E ha dato la colpa di questo squilibrio
all’Ue.
Un dito nella piaga che anche noi constatiamo.
Ma poiché oltre a non essere liberisti non siamo neanche liberali,
andiamo oltre.
Ricordiamo che l’Italia era una sorta di grande piattaforma di
trasformazione produttiva. Si importava il petrolio, le sue raffinerie
ne producevano i derivati, ed altre aziende inventavano nuove
tecnologie, nuovi prodotti sintetici. Avevamo la Nuovo Pignone,
l’Ansaldo per costruire ed esportare turbine e reattori in tutto il
mondo. Avevamo l’Enel e le sue società di ricerca che costruivano
dighe sul Paranà o progettavano ponti sul Bosforo. Si compravano le
materie prime e le acciaierie producevano leghe speciali, i cantieri,
navi ad alto tonnellaggio, e tecnicamente sofisticate, la nostra
produzione di macchine utensili per l’automazione industriale era la
più eccellente nel mondo... e così via.
Ma qualcuno (lanciamo dei nomi a caso: Prodi, Andreatta e, per la Cee,
Van der Miert) pensò bene che l’Italia doveva abbandonare le
produzioni di eccellenza, contingentarle, privatizzarle, svenderle,
abbandonarle. Nel mosaico del “nuovo ordine economico mondiale”
sorto dalle ceneri del muro di Berlino e dall’assalto delle
multinazionali, per l’Italia l’unico ruolo disponibile nel mondo
globalizzato era quello di “forno” per creare camerieri-albergatori,
operatori turistici, designers e stilisti (i fuochi fatui
dell’economia).
E così è stato. Questi signori, liberisti e liberaldemocratici, hanno
distrutto, in una quindicina d’anni, cento anni di lavoro italiano. Ne
vanno anche fieri. E la stampa (in)dipendente fa il tifo per loro e li
applaude.
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L'apocalisse
sociale nell'epoca del totalitarismo neoliberista
(1ª parte)
da
"AURORA"
n° 51 (Gennaio 1998)
Filippo
Ronchi
La
situazione attuale
Sotto
la superficie della nostra società, incomprensibili allo sguardo fatuo dei
mass-media, mimetizzati sotto le immagini retoriche della modernizzazione e del
progresso, sono in atto processi profondi di ristrutturazione produttiva. Essi
stanno sconvolgendo il «modello di civiltà» che aveva caratterizzato
nell'ultimo mezzo secolo l'Occidente industrializzato ed il suo sistema di
relazioni sociali. L'aspetto più devastante di questa apocalisse è, senza
dubbio, quello della disoccupazione incontenibilmente in crescita, o comunque
non riducibile al di sotto di percentuali ad alto rischio per la tenuta
complessiva degli Stati. Si tratta di un processo di lunga durata se è vero
che, solo per limitarci al caso italiano, i senza-lavoro sono passati dal 5,9%
del 1933 al 12,5% del 1998, con un aumento costante nel corso dei vari decenni.
Veramente drammatici sono oggi inoltre i dati sulla disoccupazione giovanile:
20,6% su base europea, 33,7% in Italia con punte che superano il 50% in alcune
regioni del Sud. Il nostro Paese detiene un triste primato anche per quanto
riguarda i «disoccupati di lunga durata», cioè in pratica coloro che hanno
perso la speranza di trovare un lavoro.
La
menzogna americana
In
merito a questo problema, la retorica neoliberista, a partire dagli anni Ottanta
con le presidenze Reagan, ha sempre vantato negli USA successioni numeriche di
segno positivo. Il tasso di disoccupazione, che aveva raggiunto in precedenza il
9,7% (corrispondente a oltre 13 milioni di persone) sarebbe andato declinando
seppur con alterne vicende e avrebbe fatto segnare, in particolare nell'ultimo
quinquennio, apparenti trionfi su cui non ha mancato di ricamare una fitta
letteratura apologetica del «modello americano» (flessibilità, mobilità,
libertà di licenziamento, cancellazione dei diritti sindacali, abbattimento
delle retribuzioni, ecc.) di cui in Italia si sono fatti portavoce specialmente
gli economisti del Polo delle Libertà. Secondo queste stime, nell'estate del
'97, ad esempio, la percentuale dei disoccupati si sarebbe ridotta al 4,8%, pari
a circa 6 milioni e mezzo su una forza lavoro complessiva di circa 135 milioni
di persone. Sarà bene, allora, aver chiaro che questa rosea descrizione si basa
su dati deformati. Negli Stati Uniti, prima di tutto, le statistiche sulla
disoccupazione sono elaborate in base a «sondaggi», cioè a questionari
sottoposti a un campione che si ritiene rappresentativo della popolazione,
anziché su rilevazioni ufficiali e sistematiche sulla popolazione reale. Come
se non bastasse, i suddetti questionari classificano come «occupati» anche
coloro che svolgono lavori del tutto precari, effimeri o intermittenti e che in
Europa finirebbero nell'elenco statistico dei disoccupati. Alcuni osservatori più
attenti della situazione americana quali Hans Peter Martin e Harold Schuman
sostengono che negli USA vi siano in tutto quasi 35 milioni di persone spinte ai
margini della società e del mercato del lavoro, al di fuori delle aree «stabilizzate»
del rapporto di lavoro dipendente duraturo e regolato. Altri studiosi
d'indiscutibile prestigio come Barry Bluestone e Stephen Rose sono giunti a
conclusioni analoghe. Aggiungendo alla massa dei disoccupati che ancora cercano
un lavoro, quella degli scoraggiati (che non figurano come disoccupati perché
ormai il lavoro neppure più lo cercano), quella dei marginali e infine quella
di chi non sceglie il part-time ma lo subisce, si otterrebbe anche negli
Stati Uniti una percentuale di sottoccupazione (che in Europa sarebbe
classificata senz'altro come disoccupazione) quasi doppia rispetto al tasso
riconosciuto dal governo: per il '95 il 10% contro il 5,6% dichiarato;
attualmente il 9% contro il 4,8%, ossia una massa di circa 13 milioni di
persone. Ci troviamo di fronte, dunque, ad un panorama non così lontano da
quello europeo, con percentuali di disoccupazione effettiva comunque molto più
alte, quasi doppie, rispetto alle stime considerate «reali» dal governo. Ma
anche a voler prendere per buone le statistiche ufficiali americane, è tuttavia
evidente che esse non costituiscono un indicatore del grado di benessere,
coesione e integrazione sociale che si accompagnava, invece, al vecchio concetto
di «piena occupazione».
La
rovina dei ceti medi
Le
condizioni finanziarie del lavoratore medio americano, peggiorate costantemente
dalla fine degli anni Settanta e nel corso dell'era reaganiana, continuano
tuttora a deteriorarsi. Tra il '90 ed il '96 i salari reali della maggioranza
dei lavoratori sono caduti nella stessa misura del precedente ciclo economico
(1979-89) e si sono approfondite le disuguaglianze tra gli americani più ricchi
e il resto della popolazione. La diminuzione media dei salari reali tra il '73
ed il '95 si aggira sul 13% circa. Questo dato è tanto più sconvolgente se si
pensa che tra il '47 ed il '72 i salari erano invece cresciuti di ben il 79%. I
lavoratori impiegati a tempo pieno, negli USA, vengono ormai considerati
un'aristocrazia del lavoro, ma il minimo salariale è sceso al livello storico
più basso dal dopoguerra: 4,75 dollari all'ora, il 41% in meno rispetto al '69
(a prezzi costanti). Sul versante opposto della piramide sociale, al vertice, la
remunerazione dei ristretto top management è cresciuta vertiginosamente
(del 66% negli anni Ottanta). Per chiarire: oggi lo stipendio di un massimo manager
d'impresa americano è tra le 100 e le 120 volte superiore a quello dei suoi
dipendenti. E la divaricazione continua ad allargarsi. Contemporaneamente,
l'orario di lavoro si è costantemente allungato. Oggi il lavoratore medio
americano sta in ufficio o in fabbrica quasi un mese in più all'anno rispetto
ai primi anni Settanta (1949 ore contro 1786). I lavoratori multipli, cioè
coloro che decidono di tentare la strada del doppio lavoro, crescono anch'essi
in maniera significativa. Erano poco più di 4 milioni una quindicina d'anni fa,
oggi sono quasi 8 milioni e mezzo, stretti nella tenaglia di un lavoro sempre più
precario e di un salario sempre più basso.
Scoiattoli
L'attuale
modello americano -preso ad esempio dal Polo delle Libertà, dalla Lega Nord e,
al di là della retorica solidarista utile in occasione delle campagne
elettorali, anche dall'Ulivo- è dunque quello che è stato definito «capitalism
squirrel cage»: «la gabbia dello scoiattolo del capitalismo», in cui
ognuno deve correre sempre più forte unicamente per non precipitare indietro
augurandosi di riuscire a restare sempre allo stesso punto. Due famiglie su
cinque, così, sono state costrette negli Stati Uniti, durante gli anni Novanta,
a mobilitare un proprio membro in più sul mercato del lavoro, o a far assumere
un lavoro aggiuntivo ad un proprio componente già occupato, semplicemente per
far fronte, con un'entrata extra, alle «esigenze quotidiane». Gli USA,
fortezza del capitalismo globalizzato, si stanno insomma trasformando nel luogo
dove vive ed opera il «working poor», il «povero al lavoro», o meglio
«il povero nonostante il lavoro», l'«occupato» il cui salario non garantisce
un livello di vita superiore alle soglie della sopravvivenza. Di questi
lavoratori poveri ne erano stati individuati più di 9 milioni alla fine degli
anni Ottanta, 2 milioni dei quali titolari di un lavoro a tempo pieno per la
totalità dell'anno. In generale, sempre per lo stesso periodo, le statistiche
censivano 27 milioni di poveri.
Nuovo
modello di «sviluppo»
Le
cifre che abbiamo fornito finora delineano, nella loro arida oggettività, il
quadro tipico del «nuovo modello di sviluppo» che si vuole imporre anche nel
nostro Paese. Dietro a tutte le chiacchiere e gli slogans sulla «modernizzazione»,
si profila in realtà il ritorno di aspetti, pratiche, figure tipiche del lavoro
servile: lavoro privo di diritti, ridotto alla disponibilità «personale»
incondizionata, lasciato totalmente nelle mani dell'imprenditore e dell'impresa,
privo di socialità che non sia quella attribuitagli dall'apparato gerarchico
che via via lo sottomette. È stato detto, non a torto, che la società del XXI
secolo sarà la società dei quattro quinti, o dei 20 e 80: un 20% di lavoro
stabile e indispensabile, un 80% di lavoro precario, incerto, temporaneo,
irrilevante. Un quinto della popolazione mondiale composto di «vincenti»,
uomini necessari per far funzionare la «mega-macchina» del capitalismo
globalizzato, e quattro quinti di «perdenti», «eccedenti», «effimeri», che
costituiranno la «massa» su cui scaricare i capricci del mercato. Tutto questo
è già attualmente accompagnato dalla dissoluzione delle istituzioni
tradizionalmente chiamate a strutturare il mercato in modo tale da proteggere la
società dai suoi effetti disgreganti. La crisi delle rappresentanze sindacali
è ovunque evidente nell'Occidente industrializzato. Negli Stati Uniti, in meno
di un ventennio, le grandi organizzazioni sindacali su base nazionale hanno
perduto quasi la metà dei propri iscritti dinanzi all'emergere di un pulviscolo
di micro-occupazioni a basso livello salariate, a elevato tasso di volatilità e
di informalità. Anche in Gran Bretagna, l'altro catalizzatore della «rivoluzione
neoliberista», i nuovi posti, creati in sostituzione di quelli tradizionali
(produzione di massa, miniere, industria pesante) si concentrano nell'immensa
area delle occupazioni a basso salario e a elevato ricambio (i cosiddetti «Mcjobs»,
in riferimento all'occupazione precaria dilagante presso i Mc Donald's).
Cresce, cioè, la massa dei lavoratori «atipici», precari disseminati
territorialmente, «invisibili» dal punto di vista organizzativo e normativo,
quindi difficilmente sindacalizzabili e inquadrabili in un contesto
riconducibile alle classiche «figure contrattuali» e a pratiche negoziali
collettive di tutela. Tra i grandi paesi dell'Occidente si salvano, con tassi di
sindacalizzazione ancora relativamente elevati, solo la Germania e l'Italia dove
CGIL-CISL-UIL continuano a raccogliere quasi il 45% della popolazione attiva
grazie soprattutto alla tenuta del pubblico impiego, ossia dei lavoratori dello
Stato, e alle massicce adesioni dei pensionati.
Concludo
qui questa prima parte della ricerca sulle dinamiche innescate dal totalitarismo
neoliberista a livello economico-sociale nell'Occidente. In un prossimo
intervento mi ripropongono di passare dalla descrizione del degrado che la deregulation
e la connessa globalizzazione capitalistica stanno provocando, alla
individuazione delle cause che tale situazione hanno generato.
Filippo Ronchi
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