Il Monte Kosica | Il biennio rosso 1919-21 | L'equilibrio del pianeta passa per la Cina | La notte del 43 a Ferrara | Foibe (viste dai comunisti | Dresda | L'Antonovscina |
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La zona del Kosica Nino Saverio Basaglia Il Capo Manipolo Bonacini Capo Manipolo Sarzano Camicia Nera Vezzali Nello Cartina della zona del Kosica Il cimitero delle CC.NN. a Dunica Il Comandante della Legione Farini Antonio Petti Disegno della Camicia Nera Walter Morselli Il Gagliardetto del Battaglione "Viva la Morte" La medaglia d'oro Galluppi Arturo Il Capo Manipolo Gatti Mauro La Camicia Nera Lami Gustavo Legionari sul Borova I legionari sul Kosica La Madonnina del Kosica in un disegno di Walter Morselli Il Comandante Sacerdoti-Grassi Tende dei legionari sul Kosica Disegno della C.N. Walter Morselli Il Comandante Tusini Ermanno Disegno di Walter Morselli |
Il
Monte Kosica – Ara di gloria dei Legionari Modenesi Sicuramente
non sono molti i modenesi che conoscono l’origine della denominazione
di uno dei più noti Viali della città: viale Monte Kosica.
Nell’immediato dopoguerra e negli anni successivi in tutta Italia e a
Modena in particolare, avvenne l’epurazione di tutta la toponomastica
stradale che faceva riferimento a personaggi e a luoghi del periodo
fascista. Furono pure eliminate sculture, edifici immagini in una furia
iconoclasta che a Modena ebbe il suo vertice nella totale demolizione di
uno degli edifici più belli del puro stile novecento, il palazzo
dell’ex GIL. A
fronte di questo comportamento, resta incomprensibile come sia rimasta
integra la targa di “Viale Monte Kosica - Ara di gloria dei legionari
modenesi” come ancora oggi troviamo scritto. In queste pagine vogliamo
ricordare, in modo succinto il sacrificio di quelle centinaia di Camicie
Nere modenesi che si coprirono di gloria sul confine greco-albanese. Erano
trascorsi pochi mesi dall’entrata in guerra dell’Italia quando il 28
Ottobre 1940, mentre a Firenze Mussolini riceve Hitler e gli comunica
improvvisamente quella che doveva essere una grande notizia,
l’invasione italiana della Grecia, inizia una delle più discusse
campagne di guerra che rimarrà memorabile nella storia italiana per
l’inefficienza, pressappochismo, impreparazione e miopia strategica
dello Stato maggior italiano. L’illusione di una guerra lampo si esaurì
in pochi giorni. Due Corpi d’Armata che dovevano entrare velocemente
in Grecia dall’Albania in breve si impantanarono letteralmente. La
famosa frase di Mussolini “spezzeremo le reni alla Grecia” si rivelò
quantomeno inopportuna poiché immediatamente, dopo il nostro attacco, i
greci riuscirono a bloccare l’iniziativa italiana e a contrattaccare e
costringendo le nostre truppe a bloccarsi sul fronte greco albanese, in
un durissimo inverno. Su questo terreno ostile e impervio i nostri
soldati, malgrado le amarezze e lo scadente supporto di mezzi e di
materiali, oltre alle risse tra gli alti Comandi, scrissero pagine
d’eccezionale valore in quei tremendi mesi dell’inverno 1940-1941. La
composizione del Corpo dell’Esercito comprendeva due Corpi d’Armata
il XXV e il XXVI forte di 12 Reggimenti di Fanteria , un Reggimento di
Granatieri, uno di Bersaglieri, due Reggimenti Alpini, due Reggimenti di
carri armati, cinque Battaglioni di Camicie Nere, tre battaglioni di
Carabinieri, quaranta gruppi di artiglieria e cinque compagnie del
Genio, per un totale di 105 mila uomini, 163 carri armati e 680 cannoni. Tra i
battaglioni di Camicie Nere era presente anche un Battaglione di Modena
che faceva parte della 72° Legione Farini ed era composto da 18
Ufficiali, 32 sottufficiali e 460 CC.NN. Assieme al battaglione modenese
era aggregato il CXI battaglione
CC.NN. di Pesaro. Il
1° Seniore Antonio Petti comandava il battaglione dei nostri
concittadini che nel suo gagliardetto, ricamato e consegnato ai
legionari dalle donne fasciste modenesi, portava la scritta “Viva la
morte”. Il
giorno 7 Dicembre 1940, “i Falchi”, così era chiamato il
Battaglione delle Camicie Nere, si
imbarcano da Bari sulla motonave “Giuseppe Verdi” e il giorno
successivo sbarcano nel porto di Durazzo in Albania. Andranno a
schierarsi sul fronte Est albanese tra il Monte Kosica e il Lago Okrida
giungendo, attraverso mulattiere piene di fango e dopo sforzi sovrumani,
sulla linea del fronte nelle vicinanze di Dunica. In questa zona
rimarranno per alcuni mesi, in una durissima guerra di posizione. Il
periodo prenatalizio e sino ai primi giorni di Gennaio è dedicato alle
ricognizioni tattiche, alla sistemazione delle tende e degli
accantonamenti alle varie quote in Val Dunica dove avverrà il
“battesimo del fuoco” dei legionari modenesi. A metà Gennaio si
aggiungono ai reparti già schierati altre camicie nere, in particolare
i plotoni di salmerie con i fidati muli che si riveleranno i migliori
mezzi di trasporto su quelle impervie montagne. Assieme a loro è
presente il C.M. Nino Saverio Basaglia, giornalista, sindacalista e
scrittore. Dal suo diario
abbiamo appreso le tante notizie dei fatti e degli uomini modenesi che
hanno affrontato quel periodo di guerra eroica e drammatica. Molti
uomini si dovettero improvvisare mulattieri, uomini del plotone comando
che erano partiti con diversi compiti si resero disponibili a svolgere
il servizio pesante e gravoso di accudire i muli e con loro fare
miracoli per compiere il trasporto dalla base alle linee. Vogliamo
citare alcuni modenesi che si dedicarono a quelle operazioni: i due
operai della Manifattura Tabacchi di Modena, Rinaldi Amos e Sighinolfi
Ivo, il tramviere Frateschi Giuseppe di Modena, l’impiegato Mazzuccato
Luigi, il meccanico Pistoni Agostino, l’edile Capellini Terzo, il
metallurgico Forti Alberto tutti di Modena. Mano a
mano che i vari reparti della 72° Legione Farini vanno a posizionarsi
sulle quote a loro destinate, hanno la possibilità di valutare e di
giudicare la vita di quelle popolazioni e fare valutazioni come quelle
del giornalista citato che visitando la cittadina di Kavaja
scrive”……Osservo qundi le condizioni miserabili in cui
l’urbanistica di re Zog ha lasciato un centro così popolato. Bimbi
dappertutto, bimbi stracciati, macilenti. Questo non è il “colore
locale” che amiamo e che una letteratura cosmopolita descrive come
caratteristiche di molte regioni balcaniche……. E se i turisti delle
lussuose e potenti macchine fuori serie si lamenteranno per il perduto
colore locale, che Iddio non ci metta in corpo la proletaria voglia di
farli discendere dai morbidi e lussuosi cuscini, di sporcar loro la
faccia con una maleodorante manata di fango………Prenderemo loro
fotografie a testimonianza postuma, a documento ultimo di una stupidità
umana e di una insensibilità morale che non è l’ultima causa dei
perturbamenti sociali, culminati nelle rivolte civili e nelle guerre fra
i popoli.” Le
pendici del Monte Kosica sono a strapiombo e difficilissime da superare,
a quota 1108 è distaccato un plotone agli ordini del C.M
Florindo Longagnani assieme al II° Battaglione dell’84° fanteria
“Venezia” e alla 10° Compagnia mitraglieri della Divisione Arezzo.
In questa zona, mentre porta un ordine al Comando del settore di Dunica,
a quota 1033 viene mortalmente colpita da schegge di mortaio la camicia
nera Montanari Ferruccio di Vignola. E’ il primo caduto
modenese. Le
temperature sul Kosica sono sempre rigidissime e l’azione delle
pattuglie è totalmente condizionata; i greci dominano la vallata dalle
quote 1475 e 1498 del monte e di frequente attaccano le nostre
postazioni che si difendono e mantengono le loro posizioni a prezzo di
notevoli sacrifici. La
difficoltà dei trasporti e degli approvvigionamenti è notevole. Per
quasi due mesi le CC.NN. modenesi dovranno accontentarsi delle razioni
dei viveri che consistevano in un pezzetto di formaggio, venti grammi di
marmellata, un gavettino di caffè, una pagnotta e cinque sigarette, a
quelle rigidissime temperature sempre sotto lo zero non era il massimo. Uno dei
più ardimentosi attacchi delle CC.NN alle quote alte del Kosica avviene
il 5 Gennaio “alla legionaria, con lo sprezzo del mortale pericolo
ereditato dagli arditi della grande guerra , con un ardore che accende
il sangue e lo sommuove come un fervido sole di vendemmia fa con l’uva
ribollente nei tini, gli arditi fascisti attaccano il trincerone” Il
trincerone viene raggiunto di slancio ma i greci si difendono con
rabbiosa decisione e con l’aiuto delle nuove mitragliatrici e di
freschi rinforzi riescono a ricacciare le CC.NN. alle loro posizioni di
partenza¸poi vi è il contrattacco dei greci che viene in parte
rintuzzato. Ma la compagnia è gia priva di una trentina di elementi,
tra feriti più o meno gravi e congelati. Quattro camicie nere vengono
date per disperse sono, i legionari Giorgio Crabbia, Pietro Bellei,
Francesco Gherardini e Marino Bonazzi. Ma dopo tre giorni, senza viveri
e senza medicinali per curare uno di loro ferito, dopo essere rimasti
nella cavità di una grossa roccia, riescono a ritornare tra i loro
camerati. In un
ulteriore attacco alle postazioni greche rimane gravemente ferito, preso
in pieno da una rosa di schegge di mortaio, il comandante della
compagnia, Centurione Ermanno Sacerdoti-Grassi: il nemico è su
postazioni privilegiate e cinque volte superiore di numero ai circa
cento legionari modenesi che si proiettano avanti con impeto indomabile:
una raffica di mitragliatrice colpisce in pieno la camicia nera Michele
Bollettini e altri rimangono feriti sul terreno; i capi delle squadre e
dei plotoni Tonino Zoboli, Gustavo Lami, Adolfo Muzzarelli e Armando
Bosi portano i loro uomini sin sull’orlo della trincea nemica che
attaccano con bombe a mano: le perdite avversarie sono moltissime ma
anche molti modenesi sono a terra: la battaglia prosegue per tutto il
giorno e alla notte i resti della compagnia si attestano sui costoni
sino al momento che con il raggiungere dei rinforzi riusciranno ad
attestarsi su di una linea difensiva più solida. Rimangono su quella
montagna con il rosso del loro sangue i valorosi: Aldo Gelmuzzi,
Guido Malpighi, Roberto Zanetti, Antonio Ballati e Armando Morandi. I
feriti sono molti e così gli atti eroici come quello del nonantolano
Tonino Zoboli, o di
Domenico Pini che pur feriti continuano a lanciare bombe sino
all’esaurimento di queste. In
seguito, per questi fatti, furono concesse le medaglie al valore:
Medaglia d’Argento a C.N. Bonazzi
Maurizio di Ferdinando da Castelfranco Emilia; Medaglia di Bronzo
ai C.P
Benassi Mario da Modena, Bonacini Umberto da Modena, Pignatti
Aroldo da Bomporto, alle CC.NN. Maccaferri Arturo da Castelfranco
Emilia, Marani Abdon da Bomporto, Gherardini Francesco da Castelfranco
E., Vaccari Gildo da Nonantola, Bellei Nino da Bomporto, Rebuttini Primo
da Nonantola. Croci di Guerra al Vice caposquadra Belli Pietro da
Spilamberto e Crabbia Giorgio da Castelfranco E. Poi per
il mese di Gennaio riprende la normale routine di vigilanza sulle linee
e di qualche scaramuccia per rintuzzare sporadici attacchi greci. Un
operaio meccanico di Fanano certo Monterastelli Edoardo tenne un diario
di quei drammatici giorni sul Kosica e così con una vena poetica
notevole descrisse la vita sotto la tenda su quei costoni impervi e
desolati: “Il giorno stà per finire. Il cielo è sereno, ma
l’aria è gelida: I teli all’interno luccicano di uno strato di
ghiaccio che li fa sembrare d’argento. “ Oh telo di tenda, debole
come una ragnatela, sembri a
noi una fortezza inespugnabile. Tu ci ripari dal vento, dalla neve e ci
dai l’impressione di difenderci anche dal piombo nemico. Abbiamo
fiducia in te, fratello telo, che fermi sul nostro capo il vento di gelo
e di morte che fuori infuria”. Il mese
di Febbraio è gelido come i precedenti, le camicie nere modenesi lo
trascorrono sotto i bombardamenti dei nemici e a rintuzzare gli attacchi
che abbastanza di frequente sono portati loro. Molti
battaglioni sono in prima linea da oltre tre mesi e in condizioni
veramente difficili, il freddo, l’acqua, il gelo, la neve. Molti
legionari si ammalano, congelamenti, febbri ed anche dissenteria
provocano vuoti nei ranghi per lunghi periodi ed alcuni purtroppo
morirono come le CC.NN. Giuseppe Reggiani, Erasmo Baraldi e Fulvio
Veroni. Le
azioni delle pattuglie della 72° Legione Farini sono frequenti alle
varie quote del Monte Kosica dove sono dislocate e precisamente a q.
1033, q. 1214, q. 1333 dove
era situata la Madonnina del Kosica e a q. 1434. I piccoli villaggi dei
dintorni sono tenuti sotto controllo per evitare che vi s’installino
reparti dell’esercito greco, pertanto, in vari punti si creano posti
avanzati per il controllo e la difesa degli sbocchi verso valle che non
devono cadere in mano nemica. Di tanto in tanto si davano il cambio con
i legionari sistemati nel paesino di Dunica a quota 900 metri.
L’operare delle pattuglie, specialmente per quelle impegnate di notte,
è un compito snervante e difficilissimo per la tensione di improvvise
imboscate o di scontri diretti con il nemico. Nelle
giornate del 12 e 13 Febbraio avvennero numerosi attacchi dei greci alle
postazioni dei modenesi e le nostre linee sono sconvolte da un furioso
fuoco di artiglieria e mortai, in quegli attacchi e bombardamenti
trovano la morte le CC.NN. del 72° Battaglione, Ivo Gasparini,
Tonino Vecchi, Cesare Dondi e Zoello Gilli
e molti furono i feriti.: vennero particolarmente colpite
quota 1033 e 1333. La reazione dell’artiglieria italiana non si fece
aspettare e le postazioni greche vennero tenute per alcune ore sotto un fuoco incessante. La
battaglia era divampata, in un primo tempo i greci riuscirono a
penetrare nelle linee italiane a quota 1333 ma da qui vennero ricacciati
indietro dal fuoco delle mitragliatrici delle camicie nere. Poi le
posizioni si consolidano e le trincee delle camicie nere sono ad una
distanza, da quelle greche, di circa 150 metri mentre le postazioni
avanzate delle vedette, sono a non più di 70 metri. La vita in quelle
condizioni è difficile ma i legionari devono “tenere” il fronte,
sorvegliare i movimenti dei vicini, sopportare i principi di
congelamento, controllare costantemente le armi affinché l’olio non
geli nei congegni, restare vigili sotto i rabbiosi bombardamenti, poi
dopo i lunghi turni di guardia entrare nella tana seminterrata per dare
un morso alla pagnotta, bere un sorso di caffè freddo, dormire vestiti
con le scarpe ai piedi. In una
relazione al Comandante il Settore Occidentale di Dunica, il Console
Petti comandante della 72° Legione Farini, faceva presente la
situazione difficile, dopo tre mesi di permanenza al fronte durante un
inverno particolarmente gelido, dei suoi reparti che,
tra morti (13), feriti (51) e ammalati (84) si trovava ad essere
particolarmente decimato e pertanto chiedeva un periodo di riposo. Durante
i primi giorni di Marzo avvengono numerosi scontri di pattuglie e scambi
ripetuti delle artiglierie mentre i legionari attendono il cambio.
Vogliamo sottolineare un aspetto particolare della presenza dei modenesi
in terra d’Albania che è quella della presenza di tante famiglie
quali ad esempio i tre fratelli Dario, Alberto e Remo Stefani nella
stessa compagnia di CC.NN e il quarto fratello in un altro reparto in
Albania: altro esempio quello dei quattro fratelli Rivaroli, l’ing.
Bruno con i legionari sul Kosica ed i fratelli, Oberdan, Antonino e
PierDomenico in altri reparti, ma sempre in Albania Pochi
giorni prima di andare al meritato riposo, i legionari modenesi
subiscono un improvviso attacco, e dopo un furioso fuoco di artiglieria
da una postazione greca a q. 1461, partono rabbiose raffiche di
mitragliatrice che prendono d’infilata, in fondo ad un breve sentiero
scoperto, un gruppo di legionari che stavano per avvicinarsi ad una
piccola fonte di scarsa acqua torbida. Una quindicina di questi, al
settantesimo giorno di permanenza in linea sul fronte, rimangono a terra
colpiti. Tre di loro perdono la vita: i CapiSquadra Guido Ramini
e Arnaldo Pastorelli e la Camicia Nera Gino Vezzali. Il 16
Marzo, è l’ultimo giorno in linea e i greci per quasi tutto il giorno
tengono sotto il fuoco delle loro batterie i legionari modenesi e la
Camicia Nera Vittorio Goldoni paga l’ultimo tributo al
caposaldo sul Monte Kosica ; così aveva scritto in una lettera alla
famiglia trovatagli in tasca “ ..abbiamo già avuto il cambio,
stanotte lasciamo la linea e quando questa vi arriverà saremo a riposo
molto lontani dal pericolo.” Arriva
così il momento del sospirato riposo e i legionari modenesi vengono
sostituiti dalle CC.NN di Parma e di Forlì, e vanno a Qukes nel vicino
Lago di Okrida. Ai
primi giorni di Aprile, dopo un breve periodo di riposo e dopo che i
reparti sono stati rinforzati dai complementi appena giunti
dall’Italia a seguito delle perdite sul Kosica, la 72° Legione si
rimette in marcia, sulla base di un ordine improvviso, per raggiungere
nuovamente la prima linea. Si vanno a disporre sulla linea che va dal
Kosica al Lago Okrida, la compagnia mitraglieri della 72°, comandata
dal Centurione Ermanno Tusini, che da poco tempo è arrivato in Albania,
si dispone nel settore tra il Kungullit e il Breshenikut e il
battaglione “Viva la morte” raggiunge il Kalase: così i due reparti
modenesi, che in quei giorni ricevettero la visita del Console Calzolari
e di Roberto Farinacei, furono schierati uno fianco all’altro. In quei
giorni, dopo continui duelli di artiglieria su tutto il fronte i greci
compiono un tentativo di sfondamento nel settore del Kungullit dove è
schierato il reparto “mitraglieri”. La lotta è furiosa varie
compagnie rimangono isolate e numerosi sono i corpo a corpo. Il 1°
plotone, comandato dal C.M. Renzo Gemma, il 2° plotone al comando del
C.M. Mauro Gatti, il 3° plotone comandato dal Cm: Branco Piacentini e
il plotone comandato dal C.M. Aldo Giovannardi, vengono a trovarsi al
centro dell’attacco nemico. Un formidabile bombardamento nemico,
preparatorio all’assalto, sconvolge le nostre linee. Molte
mitragliatrici furono messe fuori uso dal violentissimo fuoco dei greci
e molti legionari tra morti e feriti gravi vennero messi fuori
combattimento. Alcune compagnie furono completamente distrutte. Con un
numero preponderante di uomini il nemico attacca furiosamente e alcuni
gruppi di CC.NN. già completamente accerchiate riuscirono ad aprirsi un
varco, usando pugnali e bombe a mano, attraverso le fanterie nemiche
riuscendo a raggiungere una posizione leggermente arretrata tenuta
dall’ultimo plotone “mitraglieri” ancora efficiente. Poi verso
sera, con l’aiuto dell’intervento del CXI° battaglione di Pesaro fu
sferrato il contrattacco che riuscì a rigettare indietro le fanterie
nemiche che lasciarono sul terreno molti caduti.
I Legionari modenesi in linea erano circa 150. Dopo i furiosi
combattimenti si contarono 8 morti sessantre feriti e 16 dispersi. Dei
cinque Ufficiali della Compagnia: 1 morto 3 feriti e 1 disperso. Numerosissimi
furono gli atti di valore, tanto che la compagnia ebbe una medaglia
d’oro assegnata al giovanissimo “balilla” Arturo Galluppi, tre
d’argento, sette di bronzo oltre a numerose croci di guerra al valore.
Caddero in quella furiosa battaglia oltre alla giovane camicia nera Arturo
Galluppi, le CC.NN: Irmo Righi, Donato Toni, Ettore Lusetti,
Mario Lanzotti, Remo Vandelli, Giovanni Cadignani, Ettore Vezzani e il
Capo Manipolo, Mauro Gatti. Il
reparto schierato sul Kalase era stato sistemato su di una specie di
altipiano argilloso, sconvolto dalle bombe e con attorno boschi di
castagni, tutti colpiti e frantumati dall’artiglieria. In quei giorni
entra in guerra anche la Iugoslavia e i reparti modenesi vengono a
trovarsi in una zona delicatissima, esattamente al confine con la Grecia
e la stessa Iugoslavia. Come è avvenuto sul vicino Kongullit anche sul
Kalase, dopo un fortissimo fuoco di artiglieria, si accende furioso il
combattimento e tantissimi furono gli scontri ravvicinati con i greci:
numerosi feriti e i seguenti caduti modenesi rimasero sul terreno: il
Capo Squadra Vezzani Nello, e le CC. NN. Givera Mario, Zanni
Mario e RiccardoZanella. Il
giorno 13 Aprile, giorno di Pasqua, dopo logoranti combattimenti,
termina in sostanza la battaglia su quelle montagne impervie. E’ il
contrattacco italiano, con la collaborazione dei reparti tedeschi; su
tutto il fronte, l’inseguimento ai greci è frenetico, si
riconquistano tutte le posizioni di confine e sono fatti moltissimi
prigionieri. Sulle alture di Borova i legionari trovano un forte sistema
difensivo e il giorno 19 Aprile al pomeriggio scatta l’attacco per
debellare quella forte resistenza: oltre ad alcuni feriti restano per
sempre sul terreno alcuni modenesi: il Centurione Felice Sarzano
il Capo Manipolo Umberto Bonacini e le CC. NN. Ottavio
Righetti e Contardo Bolelli. |
Il biennio rosso 1919-1921 - Nascita del Fascismo a Modena (di Bruno Zucchini) | |
Manifesto Arditi |
Al
termine della prima guerra mondiale (conclusasi il 4 Novembre 1918)
l’Italia e la Provincia di Modena in particolare si vengono a trovare
in una situazione che definire precaria ci pare eufemistico. 630.00
morti di cui oltre 6.000 modenesi e oltre un milione di feriti
sono il bilancio di quel tremendo conflitto. Oltre ad un debito
per spese belliche di 65 miliardi di lire-oro. L’economia
modenese era a rotoli, migliaia e migliaia di disoccupati, gli ex
combattenti umiliati e avviliti, il rincaro dei prezzi era arrivato sino
a valori del 625%. La chiusura massiccia di laboratori, botteghe
artigianali e piccole industrie, aveva creato nell’opinione pubblica
uno stato di frustrazione e di incertezza per il futuro che, nonostante
la guerra vinta, non prometteva nulla di buono. Oltre a tutto questo vi
fù la pesantissima epidemia
di influenza chiamata “spagnola” che provocò numerosissime vittime.
La
gioia della vittoria fu un'ebbrezza forte e fugace. L'Italia si poteva
considerare divisa in due settori: uno ottimista, l'altro sfiduciato.
Quello ottimista comprendeva soprattutto la gioventù e quindi, la
grande maggioranza del Paese. L’enorme sforzo della guerra aveva
costretto l'Italia alla mobilitazione globale di tutte le sue risorse,
materiali e morali. Si dovevano mantenere segrete le notizie deprimenti
e dare di tutti gli avvenimenti le interpretazioni più favorevoli. Da
questa situazione si venne a creare
la nozione di "disfattismo".
Era logico, quindi, che al
termine della guerra si verificasse un crollo delle speranze dei
combattenti. Coloro che si
potevano considerare facenti parte del gruppo degli sfiduciati e che era
composto soprattutto dai neutralisti del 1915, rimaneva convinto che la
guerra era stata un grosso errore. Il governo del dopoguerra, presieduto
da Vittorio Emanuele Orlando, commise quello decisivo. La Camera, era ancora quella del 1913, al termine del
conflitto mondiale aveva già terminato da qualche mese i cinque anni di
vita. Si dovevano, come in Francia e in Inghilterra, organizzare subito
le elezioni, approfittando dell'entusiasmo della vittoria ma questo non
avvenne. La conseguenza fu che l'euforia andò rapidamente svanendo
cedendo il campo ad un tremendo spirito di disgregazione. Un altro degli aspetti
importanti per la dissoluzione del vecchio stato borghese fù la
rivoluzione russa dell'ottobre 1917 che praticamente portò a un vero e
proprio sconvolgimento nei partiti socialisti di tutti i Paesi. Finita
la guerra, il bolscevismo russo, che già voleva crearsi uno sbocco
nell'Europa occidentale e quindi anche in Italia, favorì con danaro e
con ogni mezzo il sovversivismo nostrano che, sfruttando le tristi
condizioni economiche del periodo del dopoguerra, tentava in qualche
modo di impadronirsi dello Stato. II
partito maggioritario a Modena, in quegli anni, era il Partito
Socialista Italiano con le sue due anime, riformista e rivoluzionaria.
Gli esponenti più in vista erano Gregorio Agnini, Alfredo Bertesi di
Carpi, l’avvocato Cesare Marverti, il Segretario della CGIL Enrico
Ferrari, l’avvocato Pio Donati sempre nell’area di sinistra;
esistevano altri piccoli partiti quali i socialisti libertari, gli
anarchici, i radicali. Erano
i partiti della classe operaia, degli anticlericali e delle classi più
deboli in generale. All’inizio del 1919 fu costituito il Partito
Popolare Italiano (PPI); i cattolici, che si erano fondamentalmente
astenuti dalle lotte di inizio secolo, entrano nell’agone politico. A
Modena i maggiori esponenti di questa formazione erano: l’avvocato
Francesco Luigi Ferrari, il
professore Claudio Nava, l’avvocato Alessandro Coppi, l’avvocato
Giuseppe Casoli, il professore Giovanni Rizzati e altri, nella
maggioranza appartenenti alla classe borghese e dominante: anche i
cattolici presentavano al loro interno due anime, i progressisti e i
conservatori. Al centro dunque i cattolici, a destra i liberali che non
avevano, almeno a Modena, un partito ben definito ed erano raccolti in
associazioni, clubs, circoli di vario tipo, ma che si unirono in vista
delle elezioni in una lista chiamata “Unione di Rinnovamento”. I
maggiori rappresentanti di questo raggruppamento erano: l’avvocato
Ottorino Nava, il Sindaco Giuseppe Gambigliani Zoccoli, il
giornalista–scrittore Giovanni Borelli, il capitano Mario Pellegrini,
medaglia d’oro della prima guerra mondiale. Sempre nell’area di
destra si trovava l’Associazione Combattenti guidata dall’avvocato
Vittorio Arangio Ruiz. Nel
Marzo 1919, il giorno 23, a Milano, Benito Mussolini
fonda i Fasci di Combattimento che in brevissimo tempo passerà
da un piccolo gruppo a grossa formazione politica. A
proposito della situazione in Italia così scriveva lo storico Attilio
Tamaro: “in
quel momento la fiumana rossa ingrossava, la vita nazionale sembrava
doversi spartire tra le camere del lavoro e le sagrestie e il valore
della vittoria perdersi nelle bestemmie degli uni o nell’ipocrisia
degli altri, Mussolini pensò di fondare un organizzazione che si
opponesse a tanto sconquasso. Era colmo di energia esplosiva, credeva
nel suo destino e pensava sé
stesso nell’avvenire.. Nel gennaio 1919 appoggiò (dato che si trovava
ancora su di una linea socialista) l’agitazione dei metallurgici, nel
febbraio dei fonditori, nel marzo lo sciopero agrario novarese. Si
precipitò a Dalmine per inneggiare, con un discorso diventato celebre,
agli operai di una fabbrica, che, guidati da sindacalisti, l’avevano
occupata e vi avevano alzato il tricolore.
Il
27 Maggio, il sottotenente degli arditi
Cesare Cerati, nella sala San Vincenzo di Corso
Canalgrande (
dove ora ha sede il Tribunale) tiene il primo comizio fascista alla
presenza di ex combattenti e studenti, in sala erano presenti anche
alcuni socialisti che intonarono l’inno dei lavoratori scatenando un
putiferio tale che dovette intervenire la forza pubblica e il comizio fù
sciolto. Dopo pochi mesi Gabriele D’Annunzio partì per l’impresa di
Fiume, dove vi entrò il 12 Settembre e alla quale si aggregarono alcune
decine di giovani modenesi. Il
15 Novembre del 1919 si svolsero le prime elezioni politiche del
dopoguerra che diedero a Modena i seguenti risultati: Partito Socialista
Italiano 36.976 voti, Partito Popolare Italiano 10.939 voti, Liberali
6.844 voti, Fascio d’Avanguardia 5.426 voti, Combattenti 1383 voti.
Furono eletti deputati quattro socialisti e un popolare. Si
è parlato tanto di violenza fascista e
sempre in termini di accusa al fascismo. Ma la violenza di quegli
anni non nasce dai fascisti. Finita la guerra furono i socialisti, gli
anarchici, ed anche i repubblicani ad usare la violenza fisica contro
gli avversari. Assalivano i reduci di guerra distruggevano vetrine e
picchiavano cittadini inermi mettendo bombe assassine, scioperando
selvaggiamente oltraggiando la forza pubblica. La violenza nasce
“rossa” e così è rimasta durante tutto il biennio che gli storici
hanno definito “rosso” cioè dal 1919 al 1921. Il modello era la
rivoluzione russa che sarebbe dovuto sfociare nel sistema dei
“soviet”. (non si
dimentichi che già in
quegli anni gli emissari dei Soviet sovietici distribuivano in Europa e
in particolare in Italia somme considerevoli per la propaganda e lo
sviluppo dei programmi e delle idee bolsceviche). A
questa violenza sovversiva, durissima
e sanguinosa, prima individualmente, poi in forma di squadre
organizzate, si opposero cittadini di ogni condizione sociale. In
quel 1920 gli scioperi e le dimostrazioni erano all’ordine del giorno
e la conflittualità tra popolari e socialisti era costante , comizi
interrotti, oratori aggrediti e
lotte in continuazione. A Mortizzuolo di Mirandola ci fù il tentativo
di accoltellamento di un giovane cattolico; a Polinago un altro
cattolico venne pugnalato mentre usciva dalla chiesa; idem a Montese con
rivoltellate ad un popolare. Gravi
incidenti avvennero a Modena in Piazza Grande durante uno sciopero
generale proclamato dalla Camera del lavoro in seguito ai gravi
incidenti avvenuti a San Matteo di Decima di Persiceto dove si dovettero
contare otto morti. Il 7 Aprile gli
scioperanti riuniti in Piazza vennero presi a fucilate dalle guardie
regie che cercavano di sequestrare la bandiera della Lega proletaria. Si
contarono cinque morti (Evaristo Rastelli, Antonio Amici venditore
ambulante, Linda Levoni, l’agricoltore Ferdinando Gatti e Stella
Zanetti.) altre 15 persone rimasero gravemente ferite.
A seguito dell’eccidio vi furono manifestazioni in tutta la
Provincia e lo sciopero generale andò avanti per quattro giorni. I
cattolici reagivano, in modo particolare sull’appennino dove a Lama
Mocogno, a Polinago a Montecreto, vennero bastonati propagandisti
socialisti; gravi incidenti avvennero a Ospitale di Fanano dove rimasero
uccisi, in seguito agli incidenti tra popolari e socialisti, dai colpi
dei carabinieri, due socialisti oltre a numerosi feriti e molti arresti
vennero effettuati dalle forze dell’ordine. Il
31 Ottobre ci furono le elezioni amministrative che videro la conquista
di quasi tutti i Comuni della bassa da parte dei socialisti e ai
popolari quasi tutti i Comuni dell’Appennino e Sindaco di Modena
diventò il socialista Rag. Ferruccio Teglio. Il
movimento fascista non si era ancora organizzato e partecipava alla vita
politica locale in modo disorganizzato e sporadico. Ma la situazione
era, nella nostra Provincia come nel resto dell’Italia, a dir poco
drammatica e così anche nel modenese il desiderio di ritornare ad una
situazione di tranquillità fece sì che tante componenti della società
civile si riunissero per
cercare di mettere un freno alla sovversione rossa. Il
16 Novembre 1920, in casa Cuoghi in Via Sant’Agata a Modena, venne
eletto il Direttorio del
Fascio di Combattimento modenese che
risultò cosi composto: Renato Bussadori, impiegato della Manifattura
Tabacchi; Ing. Antonio Rizzi industriale; Enzo Roncati, maestro
elementare; Mario Aminta Ughi studente di Legge; Fausto Randelli,
assicuratore; Alberto Vellani, ex Ufficiale degli Arditi; Carlo Zuccoli
agricoltore e possidente; Mario Vellani Marchi pittore; segretario venne
nominato Enzo Ponzi, laureando in Legge ex Ufficiale degli Arditi e
giornalista della “Gazzetta dell’Emilia”. Cosi
nei giorni successivi si costituivano altri Fasci locali come quello di
Carpi, costituito in casa Pellicciari, dove veniva nominato Segretario
Bruno Melloni. Pochi
giorni dopo a Bologna si verificarono i tragici fatti di Palazzo
d’Accursio, con nove morti e molti feriti. A Modena e a Carpi così
come in tutta Italia si svolsero imponenti manifestazioni di protesta ,
in città sfilarono centinaia di fascisti e a Carpi venne presa
d’assalto la Camera del lavoro. Anche
nel 1921 la lotta politica continua ad essere segnata da continue
intemperanze e violenze a non finire. Cattolici contro Socialisti,
questi contro i Fascisti in un caos indescrivibile. Bastonature,
accoltellamenti, devastazione reciproca di sedi di partito, si era
scatenata una serie di reazioni a catena che l’autorità costituita
non riusciva a frenare , anzi in moltissime circostanze le guardie regie
contribuirono con reazioni a dir poco sconsiderate, sparando sui
manifestanti, a creare un
clima di intolleranza e di reazione. A
Modena durante il mese di Gennaio venne ucciso un socialista a
Campogalliano e la sera del 21 in località Gallo allora alla periferia
di Modena venne ucciso a colpi di pistola il fascista, ex legionario
fiumano, Mario Ruini di 19 anni. Mario Ruini era assieme al
fratello e allo studente Stradi, e mentre rincasavano vennero aggrediti
in un agguato. Ai suoi funerali, tre giorni dopo, mentre si svolgevano
sulla Via Emilia, all’altezza del Palazzo delle Poste gruppi di
comunisti si avvicinarono al corteo e iniziarono a sparare colpendo a
morte l’impiegato fascista di Bologna di ventuno anni Augusto Baccolini e l’operaio metallurgico Orlando
Antonini di diciannove anni facendo inoltre una decina di feriti. In
seguito a questi fatti venne data alle fiamme la Camera del lavoro e
venne proclamato lo sciopero generale. I fascisti bolognesi che
ritornavano nella loro città particolarmente esasperati per i fatti al
funerale di Ruini, vengono presi a fucilate, la loro reazione li porta
all’assalto della Camera del lavoro bolognese che verrà devastata.
Il
15 Maggio 1921 alle elezioni politiche, precedute in tutta Italia da
violenze che provocarono la morte di una ventina di fascisti e gli
incendi di un centinaio di Camere del lavoro, si presentarono, ottenendo
un clamoroso successo anche i fascisti, che riuscirono a portare in
parlamento 37 deputati, tra i quali il modenese Marco Arturo Vicini. Nella
nostra Provincia si ebbero i seguenti risultati: Blocco Nazionale che
comprendeva, fascisti, nazionalisti, liberali e radicali 28.378 voti:
Partito Socialista Italiano 27.028 voti: Partito Popolare Italiano
17.600 voti. Passato
questo momento ripresero ancora le lotte; l’8 Agosto a Stuffione di Ravarino venne pugnalato a morte il fascista Eliseo
Zucchi ; a Mirandola il 17 Agosto venne ucciso il popolare Agostino
Baraldini. Si
arriva così al fatto più tragico di quel tormentato periodo:
l’eccidio del 26 Settembre 1921 Questo
è il resoconto il resoconto ricavato dall’inchiesta sui fatti poi
elaborato da G.A Chiurco in: Storia della Rivoluzione Fascista 26
Settembre
– “…Le autorità governative di Modena, in odio al Fascismo,
davano ordini polizieschi categorici, che irritarono i fascisti, tanto
da indurli a tenere una riunione nella quale fù votato un ordine del
giorno di protesta contro il Governo. Circa un migliaio di fascisti dopo
la seduta inquadrati militarmente sfilarono per la Via Emilia. Trovano
la strada sbarrata dalle guardie regie agli ordini del Commissario
Cammeo, ben noto per la sua condotta antifascista e vigliacca. L’on.
Vicini afferma alle guardie che i fascisti domandano soltanto che una
Commissione possa consegnare l’ordine del giorno alla Prefettura.
Gli squadristi attendono intanto ordinati e calmi ed al ritorno
della commissione imboccano nuovamente la Via Emilia. Altro plotone di
guardie regie che sbarra il passo presso il caffè Nazionale. Il corteo
si ferma e l’on. Vicini si accinge a parlare ai fascisti per calmarli
e dar loro l’ordine di sciogliersi. Accanto all’On. Vicini si pone
il gagliardetto del Fascio.. I due commissari che si trovano accanto al
gagliardetto non si vollero levare il cappello. Un fascista toglie la
paglietta al commissario facendola cadere a terra ed il commissario
estrae la rivoltella facendo fuoco a bruciapelo sulla folla uccidendo il
fascista Carpigiani Umberto del Fascio di Modena. E ferendo gravemente
al torace l’On. Vicini, che cade gridando “viva l’Italia”. Un
urlo di indignazione si alzò dalla folla mentre una scarica partiva dai
moschetti imbracciati dalle guardie regie. Così cadevano a terra altri
morti….La commissione di inchiesta provò che la forza pubblica aprì
il fuoco senza alcun preavviso e senza alcuna necessità”.
Il
29 Settembre si svolsero i funerali dei caduti con una grandiosa
partecipazione di folla. Ventimila persone e cinquecento gagliardetti si
inchinarono al cospetto delle bare. Benito Mussolini tenne in Piazza S.
Agostino l’orazione funebre che così concludeva: “….Salvete,
morti dilettissimi. Noi non vi dimenticheremo. I Vostri nomi rimarranno
scolpiti nel nostro cuore profondo. Finchè un solo fascista vi sarà in
Italia, egli trarrà da Voi l’esempio e l’auspicio. Verrà giorno in
cui il nostro esercito invitto e invincibile strapperà la definitiva
vittoria. Allora, o fratelli di Modena, o fratelli caduti in altre città,
un fremito improvviso farà sussultare i vostri resti immortali.
Converremo allora alle vostre tombe di precursori e di avanguardie, a
sciogliere il voto della riconoscenza e della fede. In nome dei
cinquecentomila fascisti d’Italia vi porgo l’estremo addio”. I
Caduti furono Bosi Ezio, Era il Segretario politico del
Fascio di San Cesario s.P.. Aveva combattuto della grande guerra ed
aveva ventidue anni. Faceva parte del Consiglio Provinciale dei
sindacati economici. Carpigiani Umberto Era
iscritto al Partito Fascista di Modena: non aveva ancora compiuto i
diciotto anni. Gallini Gioacchino Ex
Tenente degli alpini era Segretario politico del Fascio di Mirandola: Fù
tra i primi assertori del Fascismo nelle zone della bassa. Aveva
ventiquattro anni. Garuti Tullio
Era uno studente di venti anni
iscritto al Fascio modenese. Morì alcuni giorni dopo i fatti del 26
Settembre. Micheli Giovanni Ufficiale
di Artiglieria era iscritto al Fascio di San Cesario sul Panaro. Era un
fascista attivo ed appassionato e dedicò tutta la sua vita alla
famiglia ed alla Patria. Sanley Aurelio Era
il Segretario politico del Fascio di Vignola, aveva vent,anni e
apparteneva ad una nota famiglia vignolese. notevole era il suo
ascendente tra i fascisti della zona. Sinigaglia Duilio Aveva
ventisei anni e apparteneva al Fascio modenese e comandante delle
squadre d'azione. Ex Tenente degli Arditi ed ex legionario fiumano. Zulato Attilio Apparteneva
al Fascio di Modena, studente era un ragazzo buono e dedicava al partito
tutte le ore libere dallo studio. Morì con sulle labbra le parole"
Italia e mamma" Anche il 1922 inizia con tensione e incidenti un po’ ovunque. Il Fascismo modenese, che in breve tempo si era fortemente consolidato, comincia a rintuzzare colpo su colpo a tutte le intemperanze; in tutta la Provincia si andavano costituendo le sezioni di Partito ma in modo particolare si era affermato nel carpigiano tanto che l”Avanti” del 31 Marzo 1922 scriveva che “Carpi è, come si sa la roccaforte del del fascismo modenese, anzi la sua fama ha oltrepassato da gran tempo i confini della Provincia ed è diventata nazionale.” I Fascisti carpigiani furono definiti dal giornale socialista “superfascisti. Il
28 Ottobre oltre 2550 modenesi parteciparono alla Marcia su Roma; Modena
fù la città, tra tutte le città italiane che ebbe, percentualmente,
la più alta presenza di intervenuti a quell’evento. In
un altro articolo si parlerà dell’inizio e del consolidamento del
regime nella nostra città. |
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Quella
Tragica notte del 43 a Ferrara
E la
presenza dei modenesi Pagliani e Vezzalini
Uno degli episodi più rilevanti
della lotta politica nell'Italia del Nord, durante il periodo della guerra
civile e che portò ad una vera e propria svolta nello scontro tra fascisti e
partigiani, fu quello dell'uccisione del Federale di Ferrara, Iginio Ghisellini,
messo in atto dai gappisti comunisti di Bologna e dove troviamo coinvolti, nei
fatti successivi, noti esponenti del fascismo modenese. Avvenne il 14 Novembre
1943 nella città estense.
Questa azione, che i comunisti
tentarono di accreditare, per un lunghissimo periodo, agli stessi fascisti,
(tesi sostenuta ad esempio nel film "La lunga notte del "43" (2);
in un giornale clandestino dell'epoca, era stato rivendicato dai gap comunisti.(3)
La reazione fascista a questo
spietato assassinio fu indubbiamente eccessiva e costituì la prima vittoria
comunista nell'attuazione della strategia della guerra civile. I comunisti, con
questa proditoria uccisione del federale di una delle città italiane che aveva
dato una massiccia adesione al nuovo fascismo repubblicano, riuscirono a mettere
in crisi la nuova classe politica che cominciava, a distanza di solo due mesi
dalla tragedia dell' 8 Settembre, a darsi una fisionomia ben definita. La
maggioranza del popolo italiano, e in particolar modo quello della città di
Ferrara, seguiva con interesse e partecipazione la nuova formula del fascismo
mussoliniano con la speranza di vedere, almeno in buona parte, rintuzzata la
prepotenza e la rabbia tedesca che era stata duramente colpita dal tradimento
della cricca del maresciallo Badoglio.
Bisognava pertanto togliere
credibilità a questi uomini, facendo scattare la molla dell'irrazionalità
della vendetta e della ritorsione spietata. A Ferrara, i fascisti caddero in
questo tranello; vi fu una reazione eccessiva che gettò nel lutto la città
estense e tutta la valle padana e si ritorse, in certo qual modo, contro gli
stessi fascisti; undici cittadini ferraresi, forse antifascisti, ma in ogni caso
estranei alla morte del Ghisellini, caddero fucilati nel centro della città ai
piedi del castello degli Estensi.
A quei tempi però, il clima
politico era già diventato particolarmente arroventato a causa della strategia
della violenza e delle uccisioni attuata dal PCI, e la tensione dei fascisti
aveva raggiunto notevoli punte di esasperazione e di rabbia repressa. Sotto la
spinta del Partito Comunista e con la compiacenza dei comandi anglo-americani,
in molte zone del Nord Italia si erano verificati gravissimi fatti di sangue ai
danni delle forze del nuovo esercito repubblicano: molti fascisti erano stati
vilmente assassinati in agguati ed imboscate. Solamente negli ultimi giorni
erano stati uccisi, il 6 Novembre, quattro fascisti a Medicina (Bologna), altri
quattro erano stati uccisi dai gappisti toscani a San Godenzo (Firenze) il
giorno 7 Novembre, mentre il giorno 9 due fascisti erano stati vilmente
assassinati a Sesto Fiorentino.(4)
Non
dimentichiamoci inoltre come e da chi era stata voluta la lotta tra fratelli. I
rastrellamenti tedeschi e fascisti, in realtà, più che rendere un contributo
sostanziale all’eliminazione del "fenomeno" banditismo, servivano più
a terrorizzare le popolazioni e a portare acqua al mulino della campagna
dell'odio che i partigiani comunisti alimentavano a più non posso e che loro
stessi cercavano di provocare artatamente con un cinismo programmatico
attraverso attentati ed uccisioni indiscriminate, onde ottenere questi effetti.
Conferma
questo il partigiano ex fascista, giornalista e storiografo della Resistenza,
Giorgio Bocca che, in un suo articolo, parlando dell’aspetto del terrorismo
degli anni settanta-ottanta, così scriveva:
"…Il secondo argomento su cui invito a
riflettere è quello riassunto da una parola che per noi conserva un significato
di angoscia e di paura: rastrellamento. Voglio dire il criterio a cui starebbero
approdando alcuni organi di polizia e di indagine giudiziaria: pescare a mucchio
negli ambienti sospetti, sia a sinistra che a destra, così come il
rastrellamento arrestava in massa quando incontrava nelle zone perlustrate, e
poi vedere se nel mucchio è capitato qualche terrorista vero.
Come ex partigiano e storico della guerra partigiana
vorrei ricordare a chi riscopre oggi questa tecnica, che l'unico risultato dei
rastrellamenti è stato di aumentare il numero dei partigiani e dei loro
simpatizzanti ( ci fu anzi un terrorismo partigiano e rivoluzionario che aveva
per compito precipuo o complementare, proprio quello di provocare
rastrellamenti, di coinvolgere il maggior numero di persone).
Il che non significa che io intendo equiparare i
partigiani di allora ai terroristi di oggi; intendo solo sottolineare dei
rapporti di causa ed effetto."
Ma di
questa realtà, che traspare appena tra le righe di pochi storiografi partigiani
o di ex partigiani veri se ne è poco parlato e l'opinione pubblica non ne è
per nulla a conoscenza. E' stato molto più facile a tutti i "pennivendoli
di regime" di questi sessanta anni, servire la verità del padrone,
descrivendo episodi gonfiati, facendo apparire ciò che non è stato,
nascondendo le verità e pertanto facendo credere alle nuove generazioni che la
partecipazione alla lotta partigiana ebbe un adesione pressoché totale della
popolazione e che, quei pochi, pochissimi che si erano legati al nazifascismo
non erano altro che dei venduti, dei violenti o dei corrotti e alcuni altri,
rarissimi, erano solamente accecati da "ingenua fede".
Tutto
questo è stato volutamente falsato poiché la realtà di quel periodo è stata
ben diversa. Furono centinaia di migliaia, i giovani "accecati", che
aderirono al fascismo repubblicano e tra essi la maggioranza era composta da
volontari, che portarono, in quella terribile lotta, che a molti poteva sembrare
illusoria ed impossibile, la loro disperata ed adamantina fede in quanto non si
può essere ciechi, o corrotti, o ignavi, quando si combatte e si va’ a morire
per un ideale che altro non era che ideale di Patria e di libertà dai vari
eserciti stranieri che calpestavano il suolo italiano.
Ed
erano di gran lunga superiori, come numero, a quelli che avevano scelto la
strada della montagna.
E'
giunto il tempo di sfatare certi luoghi comuni e vedere la storia di quegli
anni, senza acredine e senza desideri di vendette, nelle giuste proporzioni, per
una migliore conoscenza del proprio passato e delle proprie origini; per una
vera opera educativa in termini storici.
In questo giorno a Verona si
stavano svolgendo i lavori del Primo Congresso Nazionale del P.F.R. da dove ne
doveva uscire il nuovo programma della RSI, condensato nello storico documento
dei "18 punti di Verona".(5)
Nel primo pomeriggio arrivò da
Ferrara una delegazione di fascisti che portò la notizia ai congressisti, del
tragico attentato al federale della città che si era dimostrata, sino a quel
momento, una tra le più vicine al nuovo fascismo repubblicano, dove si era
superato il traguardo dei quindicimila iscritti e dove diecimila giovani
volontari avevano aderito entusiasticamente alle forze armate della RSI.
E' ormai arcinoto cosa accadde
quando i fascisti radunati a Castelvecchio seppero dell'assassinio. Vi fu,
innanzitutto, una commozione generale ed un desiderio immediato di vendetta.
Alessandro Pavolini riuscì a placare gli animi informando l'Assemblea che
sarebbero partite per Ferrara le squadre di Verona e di Padova; tra i comandanti
partirono per la città estense anche i due modenesi, Prof. Franz Pagliani e il
console Enrico Vezzalini, considerato uno degli uomini più responsabili ed
equilibrati e nello stesso tempo più decisi del nuovo fascismo repubblicano.
Le squadre arrivarono nella città
estense nel tardo pomeriggio dove già regnava una tensione incredibile e dove
moltissimi antifascisti erano stati arrestati; si temeva un vero e proprio
massacro. Un primo tribunale speciale si era arrogato il diritto di giustiziare
trentasette antifascisti ferraresi. Pagliani e Vezzalini, che verrà fucilato al
termine della guerra ed al quale era stata attribuita, ingiustamente, l'intera
responsabilità della rappresaglia, intimarono alle squadre che avevano emesso
tali condanne, di non commettere tragici errori.
Ma gli interventi dei due
modenesi non riuscirono a placare gli animi e a nulla valse anche l'intervento
dei capi della Federazione ferrarese che non volevano macchiarsi del sangue dei
loro concittadini. La rabbia ed il desiderio inconsulto di una rapida vendetta
esplose ugualmente con l'uccisione di undici ostaggi, tutti componenti non
comunisti del CLN ferrarese che avevano, poco tempo prima, accettato la proposta
del federale Ghisellini che voleva evitare, attraverso particolari accordi, alla
città di Ferrara gli orrori della guerra civile.
Questa rappresaglia, che Mussolini stesso giudicò un "atto stupido e brutale", suscitò una vasta eco nelle popolazioni di tutta l'Emilia e Romagna, portando notevoli possibilità di sfruttamento alla propaganda comunista, creando, anche nella componente fascista, contraria ad ogni forma di ritorsione violenta, perplessità e dubbi angosciosi.
La grancassa resistenziale,
comunisti in testa, dal momento dell'uccisione di Ghisellini sino ai giorni
nostri, ha costruito e via via gonfiato il grosso falso che ad uccidere il
Federale di Ferrara fossero stati gli stessi fascisti, i duri, quelli che non
avevano visto di buon occhio l'accordo con il CLN. Questa tesi, assurda, ma
molto ben orchestrata era stata praticamente accettata dall'opinione pubblica e
le poche voci che cercavano di raccontare la pura verità venivano continuamente
tacciate di mendacio e di faziosità.
Il patto di non arrivare allo
scontro tra CLN e fascisti, stipulato tra il Ghisellini e molti di quegli
antifascisti che verranno poi fucilati in quella tragica notte del "43, non
era gradito ai comunisti che organizzarono l'attentato con diabolica strategia e
con altrettanto diabolica strategia riuscirono a portare avanti per oltre
quaranta anni la falsa versione.
Ma in questi ultimi tempi si è
squarciato il velo di omertà che teneva nascosta la verità su questo episodio
e finalmente gli autori di quell'attentato criminale hanno rivelato, in parte, i
nominativi e le modalità di come si svolsero i fatti; il tutto ad attestare che
ciò che era stato dichiarato dalla parte fascista era la pura verità.
L'operazione dunque, venne voluta dalla componente comunista del CLN ferrarese,
la quale, contrariamente agli esponenti degli altri partiti che si erano
dichiarati disposti ad accettare il "patto di non aggressione", si era
collocata nella più intransigente clandestinità e nella conduzione di una
lotta spietata contro i fascisti. Così, come in tante altre parti d'Italia, era
opportuno creare un incidente che avrebbe determinato la reazione fascista.
Miglior bersaglio e anche facile, non poteva essere che il maggior esponente del
fascismo repubblicano della città di Ferrara.
L'operazione Ghisellini, venne
studiata ed eseguita in perfetto accordo tra la segreteria del PCI di Ferrara e
i dirigenti regionali di Bologna:
"L'attentato
fu deciso a Bologna. Mario Pelosi incaricò dell'azione S. al quale aveva dato
appuntamento nei pressi di Porta Saragozza il giorno 13 Novembre(6)
Ed ecco come viene rivendicata
dai comunisti l'uccisione del Federale di Ferrara:
"Il gerarca fu
infatti giustiziato dai partigiani e non ucciso dagli stessi fascisti in
dissenso con lui. L'attentato fu preparato accuratamente da Mario Peloni che potè
contare su tre compagni dopo aver discusso a fondo con loro sulla opportunità e
sul significato esemplare dell'azione.....Il federale Ghisellini era stato
seguito più volte quando di sera ritornava a Casumaro per conoscerne orari,
itinerari ed abitudini. Quella notte tre compagni bloccarono l'auto lungo la
strada uno solo sparò e uccise il Ghisellini. Poi auto e cadavere furono
portati a Castel d'Argile per sviare le indagini. L'attentato avvenne alla
periferia della città si può dire a poche centinaia di metri dalla federazione
fascista."(7)
Ma vediamo chi erano i due rappresentanti del Fascismo
modenese che si trovarono, loro malgrado coinvolti nei fatti di Ferrara.
Il Prof. Franz Pagliani è nato a Concordia nel 1904; è stato Segretario dei Guf di Bologna e Federale di Modena. Laureato in medicina e chirurgia, divenne direttore dell'Istituto di Patologia Chirurgica dell'Università di Bologna; volontario di guerra; al 25 Luglio era vice-segretario dei Guf (Giovani Universitari Fascisti). Venne arrestato e condannato dal Tribunale Militare a tre anni di reclusione per ricostituzione del P.N.F.; farà parte dei giudici al Tribunale di Verona. A guerra conclusa scontò un lungo periodo di detenzione. Scarcerato, ha esercitato per lunghissimi anni la professione di chirurgo all'Ospedale di Perugia.
Di un episodio, in questi primi tempi della RSI, il Pagliani è stato
protagonista a Modena. Alcuni professori della facoltà di Medicina
dell'Università modenese, sottoscrissero, nel periodo badogliano, un documento
nel quale si plaudiva la fine del Regime. Da notare che quasi tutti i firmatari
erano docenti Universitari durante il Fascismo ed avevano prestato il giuramento
al Governo di Mussolini. La Gazzetta dell'Emilia, dopo l'8 Settembre, per la
voce del direttore, Cacciari, si scatenò con violenti articoli contro costoro
e, alcuni tra i più estremisti del nuovo Fascismo Repubblicano, ottennero dei
mandati di cattura per alcuni di questi docenti i quali si rivolsero al loro
collega Franz Pagliani affinché intercedesse per loro. Questi fece in modo che
il fatto fosse esaminato sotto il profilo interno universitario e non politico,
per cui, tutti i professori vennero rilasciati e del fatto non se ne parlò più.
L’Avv.
Enrico Vezzalini fu uno degli esponenti più noti del Fascismo Repubblicano
modenese e nazionale. Prese parte al Processo di Verona tra i giurati che
condannarono, nel Gennaio 1944, Ciano e gli altri componenti del Gran Consiglio
che il 25 Luglio aveva destituito Benito Mussolini. Fu inoltre Ufficiale
Comandante di formazioni di BB.NN.; Ispettore generale presso il Ministero degli
Interni, Capo della Provincia di Ferrara dopo l'episodio Ghisellini e della
irrazionale rappresaglia che avvenne in quella città e della quale anche il
Vezzalini venne accusato. Venne poi inviato negli ultimi mesi del 1944 a reggere
la Provincia di Novara, zona particolarmente difficile, dato che vi operavano
parecchie formazioni partigiane. Fu anche combattente della guerra di Spagna,
ove si meritò tre medaglie d'argento.
Al momento del crollo, con i suoi reparti cercò di arrivare nel
progettato ridotto della Valtellina e fu, il suo, uno dei pochi reparti che
arrivò sino a Menaggio (Como). Venne arrestato il 28 Aprile e processato a
Novara il 14-15 Giugno, senza aver avuto la possibilità di una difesa regolare.
Si
ricorda anche un particolare che avvicina il Vezzalini ai grandi condannati
politici di ogni tempo.
"Durante il lungo periodo intercorso fra
condanna ed esecuzione gli è stata offerta la fuga dal carcere: poiché tale
offerta non poteva essere estesa agli altri sei condannati con lui, la respinse
con le parole: 'o tutti o nessuno".
A
Novara dopo un processo, condotto dall'allora giovane magistrato Oscar Luigi
Scalfaro, ex Presidente della Repubblica, viene condannato a morte. Aveva
quarantuno anni.
2 film degli anni "60
diretto dal regista Florestano Vancini.
3 cfr. Unità del 15 Dicembre
1943 e la rivista "la nostra lotta" con articolo di E. Curiel del
1944.
4 cfr. G. Pisanò :
"Storia della Guerra Civile in Italia"
5 cfr. G. Pisanò op. cit.
6 cfr. quaderni del
settimanale comunista bolognese :"la lotta"
7 cfr. S. Ghedini: "uno
dei centomila"; il Ghedini dirigente comunista, comandante partigiano fu
anche Sindaco di Ferrara. Il tutto tratto da una inchiesta pubblicata sul
quotidiano "Il Resto del Carlino", a firma Bruno Traversari, del
14,19,28 Novembre 1983.
Foibe. Fu l'Italia fascista a scatenare la pulizia etnica (Come la vedono i Comunisti)
www.dilloadalice.it n.92 del 15/02/2006)
Non sorprende che le esigenze strumentali di reciproca legittimazione portino anche Fassino ad impegnarsi nella litania revisionista sulle Foibe cercando in questo il conforto di Fini.
Preoccupa però vedere che anche le massime autorità dello Stato stiano contribuendo ad una grave opera di distorsione della memoria storica nazionale. E' giusto che gli italiani ricordino le Foibe, e mai i comunisti italiani hanno negato questi tragici episodi, condannando senza esitazioni queste forme barbare di violenza post-bellica che hanno colpito anche molti innocenti.
Ciò che denunciamo è il fatto che oggi quando si parla di Foibe si rimuove completamente il ricordo dei fenomeni che hanno provocato quel dramma. Si rimuove il fatto che è stata l'Italia fascista pianificare la pulizia etnica del confine orientale scatenando un piano scientifico di violenza razzista contro le popolazioni slave. Decine di migliaia di uomini e di donne sono state uccise, torturate, violentate solo per il fatto di parlare una lingua che non fosse l'italiano.
Paesi interi sono stati bruciati dai fascisti ma anche dalle forze armate italiane. Ed infine Mussolini ha regalato Trieste al Terzo Reich, divenendo così complice della costruzione del campo di sterminio della Risiera di San Sabba.
La storia non può essere condivisa se non si chiarisce sempre chi sono state le vittime e chi i carnefici. Se non lo si fa si rischia di scatenare di nuovo il nazionalismo ed il razzismo da entrambe le parti del nostro confine.
Bibliografia
Articolo apparso sul n. 267 di Cristianità
L’"Antonovscina",
la rivolta anticomunista di Tambov
nella Russia degli anni 1920
1. Premessa
Dalla Vandea francese del secolo XVIII alla rivolta dei contadini messicani — i cristeros — negli anni 1920, a misura che la modernità politica si afferma e inizia a rimodellare le nazioni secondo la propria ideologia — prima illuminista e giacobina, quindi liberale, infine socialista e comunista — pressoché ovunque e quasi automaticamente si manifestano resistenze e moti di reazione delle quali sono protagonisti soprattutto i ceti popolari. Sconfitti storicamente, di questi movimenti si perde la memoria — la storia è perlopiù scritta dai vincitori — e i tentativi per ricuperarla si infrangono ancor oggi contro la mancanza di fonti — spesso distrutte — e contro il pervicace ostruzionismo del potere, del quale l’ideologia costituisce tuttora elemento primario di legittimazione.
2. L’insorgenza russa
Ciò è particolarmente vero per quanto riguarda la resistenza popolare che si manifesta nel quadro della Rivoluzione comunista russa già all’indomani dell’Ottobre 1917. Su di essa non solo l’interpretazione, ma anche la semplice informazione storica — almeno al di fuori dell’ex Unione Sovietica — è assai carente (1).
La fisionomia di questa vicenda si può però ricostruire per sommi capi avvalendosi dei cenni, non episodici, che al tema fa Aleksandr Isaevic' Solz'enicyn — il grande scrittore russo, indomito oppositore del comunismo sovietico — nelle sue opere storico-letterarie.
Un iniziale squarcio di luce sulla vicenda si trova nel primo volume della trilogia Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa (2), allorché l’autore, nel tentativo di ricostruire le fonti dell’ininterrotto flusso di uomini — comunità, gruppi religiosi, categorie sociali, etnie intere — che, mentre il socialismo reale si afferma, va a popolare lo sterminato universo concentrazionario del regime, si imbatte — fra l’altro — nel fenomeno delle sommosse popolari contro la collettivizzazione forzata delle campagne negli anni dal 1918 al 1922.
"Se oggi riflettiamo sugli anni 1918-20 ci troviamo imbarazzati: dobbiamo includere — si domanda Solz'enicyn, sottolineando la durezza dello scontro e della repressione, nonché la cortina di silenzio calata sui fatti — nelle fiumane dei carcerati tutti coloro che furono fatti fuori senza che avessero raggiunto la cella? [...] Facevano in tempo a porre piede sulla terra dell’Arcipelago i cospiratori che prendevano parte ai complotti, scoperti a grappoli, in ogni governatorato il suo (due a Rjazan’, a Kostroma, Vysnevolock, Veliz, diversi a Kiev, diversi a Mosca, a Saratov, Cernigov, Astrachan’, Seliger, Smolensk, Bobrujsk, quello della cavalleria a Tambov, a Cembar, Velikie Luki, Mstislavl’, e altri), o non ne avevano il tempo e quindi non possono fare oggetto della nostra ricerca? A parte la repressione di alcune sommosse famose (di Jaroslavl’, Murom, Rybinsk, Arzamas), noi conosciamo certi eventi solo di nome" (3).
Il movente che spingeva i contadini a ribellarsi era triplice: la leva obbligatoria, le requisizioni forzate a vantaggio dell’Armata Rossa e l’ammasso coatto del raccolto nei depositi statali. "Da quell’estate [1920] la campagna, sforzandosi al di là delle proprie possibilità, consegnò il raccolto gratuitamente anno dopo anno. Questo provocò rivolte contadine e conseguenti loro repressioni e arresti. [...] Alla fine dello stesso anno avviene lo sgominamento preventivo della rivolta contadina di Tambov (in questo caso non vi fu processo)" (4).
Né mancavano motivazioni di difesa della libertà e delle tradizioni religiose. "Nel 1918, per accelerare anche la vittoria culturale della rivoluzione, si cominciò a sventrare e buttare via le spoglie mummificate dei santi e a confiscare gli arredi sacri. Sommosse popolari divamparono a difesa delle chiese e dei monasteri saccheggiati. Qua e là le campane suonavano a stormo e i credenti accorrevano, qualcuno munito di bastone. Naturalmente fu necessario liquidare qualcuno sul posto, arrestare altri" (5).
Solz'enicyn è tornato sul tema dell’insorgenza contadina russa durante la sua visita in Francia nel 1993 per partecipare alle celebrazioni dell’insurrezione vandeana. "Numerosi procedimenti crudeli della Rivoluzione francese — ha affermato in quella sede lo scrittore russo — sono stati docilmente applicati di nuovo sul corpo della Russia dai comunisti leniniani e dagli specialisti internazionalisti, soltanto il loro grado di organizzazione e il loro carattere sistematico hanno ampiamente superato quelli dei giacobini.
"Non abbiamo avuto un Termidoro, ma — e ne possiamo esser fieri nella nostra anima e nella nostra coscienza — abbiamo avuto la nostra Vandea, e più d’una. Sono le grandi rivolte contadine, quella di Tambov nel 1920-1921, della Siberia occidentale nel 1921. Un episodio ben noto: folle di contadini con calzature di tiglio, armate di bastoni e di forche hanno marciato su Tambov, al suono delle campane delle chiese del circondario, per essere falciati dalle mitragliatrici. L’insurrezione di Tambov è durata undici mesi, benché i comunisti per reprimerla abbiano usato carri armati, treni blindati, aerei, benché abbiano preso in ostaggio le famiglie dei rivoltosi e benché fossero sul punto di usare gas tossici. Abbiamo avuto anche una resistenza feroce al bolscevismo da parte dei cosacchi dell’Ural, del Don, del Kuban’, del Terek, soffocata in torrenti di sangue, un autentico genocidio" (6).
3. Un nuovo contributo di Aleksandr I. Solz'enicyn
Nel 1995 lo scrittore russo, ormai quasi ottantenne — è nato nel 1918 — fornisce un ulteriore contributo con due brevi racconti — Ego e Per linee interne, tradotti in italiano sotto l’unico titolo di Ego (7) —, nei quali l’insorgenza contadina fa da sfondo, ma uno sfondo che balza spesso in primo piano. è la narrazione della vicenda umana di due figure, quella di un vinto della Contro-Rivoluzione — il personaggio di fantasia Pavel Vasilevic' Ektov, detto, per un malinteso mai volontariamente sciolto, "Ego" —, e, invece, di quella di un vincitore, un personaggio vero: il futuro conquistatore di Berlino, maresciallo ed eroe dell’URSS, Georgij Konstantinovic' Zukov (1896-1974).
4. "Ego"
La rivolta evocata in entrambi i racconti è quella di Tambov e delle zone limitrofe — circa quattrocento chilometri a sud-est di Mosca, nella ricca regione agricola compresa fra i fiumi Don e Volga. Di essa, dopo esordi autocefali, prende la guida il socialrivoluzionario Aleksandr Stepanovic' Antonov (1885-1922), già oppositore del regime zarista e già in armi contro il governo sovietico. Alla rivolta — ricordata come l’Antonovscina — nel primo racconto (8) finisce per aderire, spinto da ragioni di giustizia, anche il mite intellettuale democratico ed esperto di problemi agrari Ektov. Nelle campagne le requisizioni forzate venivano condotte da reparti speciali dell’Armata Rossa — i cosiddetti "reparti alimentari" — e si traducevano spesso in razzie nei villaggi e in violenze di ogni tipo, talora concluse con la fucilazione di qualche contadino riottoso, per dare l’esempio. "I contadini li chiamavano "i Neri" (Celrnye), forse pensando al diavolo (cërt), o forse perché tra loro c’erano molti non-russi" (9). La rivolta nel dipartimento di Tambov scoppia così nell’agosto del 1919, senza alcun impulso o sostegno — come sottolinea lo scrittore — da parte del "[...] clero ortodosso, che "non è di questo mondo", che non si univa ai ribelli, non era il loro ispiratore, come era accaduto [in Vandea] per il combattivo clero cattolico; i preti se ne restavano prudentemente chiusi nelle loro parrocchie, nelle loro case, pur sapendo che i Rossi, se arrivavano, sarebbero stati comunque capacissimi di fracassare loro la testa. (Così, a Kamenka, il prete Michail Molc'anov fu ammazzato senza nessun motivo)" (10). "Non è facile, no davvero — osserva Solz'enicyn —, smuovere i contadini russi, ma quando la pasta fermenta e si gonfia, niente può più contenerla nei limiti della ragione" (11). Quindi, "muovendo da Knjaz'e-Bogorodickoe, sempre nel distretto di Tambov, una folla di contadini in calzari di tiglio, pervasa dal sacro fuoco della giustizia, si mosse per "prendere Tambov" con accette, forche da fieno e forchettoni da cucina: così, con le stesse forche, marciavano i loro avi al tempo dei tatari. Accompagnata dal suono delle campane dei villaggi che attraversava e crescendo lungo il cammino, la folla avanzò verso il capoluogo fino al villaggio di Kuz’mina Gat’, dove i malcapitati vennero falciati, senza potersi difendere, dalle mitragliatrici, e i sopravvissuti dispersi.
"Allora, come un incendio che corre da un tetto di paglia all’altro, l’insurrezione si propagò di colpo in tutto il distretto, estendendosi anche a quelli di Kirsanov e Borisoglebsk: dappertutto furono massacrati i comunisti locali (ci si misero anche le donne, coi falcetti), le sedi dei Soviet saccheggiate, le comuni e i sovchoz sciolti. I comunisti e gli attivisti scampati si rifugiarono a Tambov" (12). "Quanto a Pavel Vasil’evic', lasciò la città e partì alla ricerca del presunto centro dell’insurrezione.
"E lo trovò sotto una forma mobile — quella di un pugno di uomini raggruppati attorno ad Aleksandr Stepanovic' Antonov" (13). Benché privo di armi e di ufficiali adeguati, il movimento di Antonov conduce una vivace guerriglia partigiana, basata su rapidi e incisivi attacchi condotti dalla cavalleria — l’unica tattica in un terreno del tutto pianeggiante come le campagne di Tambov —, contro i bolscevichi. Al culmine del successo, la rivolta potrà schierare oltre dieci reggimenti di millecinquecento-duemila uomini ciascuno. I quadri sono costituiti da ex graduati della guerra mondiale, mentre nei ranghi figurano "[...] anche semplici contadini che fino al giorno prima conoscevano solo l’aratro di legno" (14). "In novembre Antonov marciò su Tambov col grosso delle forze creando grande scompiglio tra le autorità locali (le quali abbatterono querce centenarie per sbarrare le strade di accesso, installarono mitragliatrici sui campanili)" (15). Ma, "a venti verste da Tambov, a Podosklej-Roz'destvenskoe, gli insorti, dopo una grossa battaglia, dovettero battere in ritirata" (16). Nonostante la battuta d’arresto, l’afflusso di nuovi, più massicci rinforzi "rossi" e la tattica di occupazione militare del territorio utilizzata dai bolscevichi — inclusa la sistematica presa di ostaggi fra i familiari dei combattenti contro-rivoluzionari —, "[...] l’insurrezione non si placava. Benché, con l’avanzare dell’autunno e poi l’arrivo dell’inverno, per i partigiani diventasse sempre più difficile nascondersi e bivaccare, il numero dei loro reggimenti aumentava. Le requisizioni messe in atto dai reparti rossi e il puro e semplice saccheggio al quale si abbandonavano quando si spartivano sul posto, sotto gli occhi dei contadini, quello che avevano appena finito di requisire, percuotendo gli anziani o anche bruciando da cima a fondo il villaggio — come fecero ad Afanas’evka, a Babino, dove cacciarono vecchi e bambini nella neve, e si era all’inizio dell’inverno — tutto questo dava nuovo impulso al movimento insurrezionale" (17). Il racconto prosegue narrando come Pavel Vasil’evic' Ektov, infermatosi e ricoverato in una capanna di un villaggio, viene denunciato da una vicina e arrestato dalla Ceka, la "Commissione straordinaria per la lotta alla contro-rivoluzione e al sabotaggio", cioè la polizia politica comunista. Condotto a Mosca e sottoposto per quattro mesi a duri interrogatori e alla tortura, con la moglie e la figlioletta presi in ostaggio dai "rossi", "Ego", entrato nella rivolta per ragioni ideali, preso nell’ingranaggio, deve alla fine rinunciare alle sue convinzioni morali più profonde e accettare di fare il doppio gioco, collaborando a far infiltrare reparti "rossi" — "[...] uno squadrone: cavalieri che invece delle uniformi dell’Armata Rossa vestivano abiti contadini, però tutti con gli stivali. Berretti di montone, alti colbacchi. Alcuni, non tutti, sfoggiavano le bande rosse cosacche sui pantaloni" (18) — nelle file degli insorti di Antonov, per sbaragliare una delle ultime colonne ancora attive — la durezza della repressione bolscevica stava avendo ragione dell’Antonovscina —, quella comandata dai fratelli Mis'ka e Ivan Sergeevic' Matjuchin. A dispetto dei tentennamenti e dell’orrore per la violenza di Ektov l’impresa riesce e si conclude con il massacro dei capi e con la liquidazione dell’intero reparto di insorti anticomunisti — circa cinquecento uomini — mentre riposano in un dopocena nelle isbe di un villaggio. Antonov morirà in combattimento nel giugno del 1922.
5. "Per linee interne"
Nel secondo racconto, Per linee interne (19), nel quale il tema dell’insorgenza è meno centrale, Solz'enicyn rievoca invece la "prodigiosa ascesa" — e la successiva caduta in disgrazia — dell’eroe della "guerra patriottica" 1941-1945 ed eroe dell’Unione Sovietica, maresciallo Zukov. Nativo di Kaluga, a sud-est di Mosca, in una zona di insurrezioni contadine, cadetto destinato ai quadri superiori dell’esercito sovietico, egli costruisce la sua carriera proprio nella repressione dei movimenti popolari anticomunisti. Si era messo in luce dapprima nell’estate del 1920, quando ormai la guerra civile volgeva al termine — i generali "bianchi" erano stati sconfitti: l’ultimo era stato Anton Ivanovic' Denikin (1872-1947), mentre restava in armi il solo Petr Nikolaevic' Vrangel’ (1878-1928) —, contro i cosacchi del Kuban’, nel nord del Caucaso, all’altezza della Crimea. Poi, nel dicembre dello stesso anno, aveva combattuto nella provincia di Voronez, a sud-ovest di Tambov, contro la "banda" Kolesnikov. Nel febbraio del 1921 passa infine nella zona di Tambov — dove gli insorti, "[...] secondo il commissario del reggimento, alla fine di febbraio avevano messo insieme trentatremila baionette, ottomila sciabole, quattrocentosessanta mitragliatrici e sessanta cannoni" (20) — e partecipa con il suo squadrone di cavalleria all’offensiva contro gli ultimi fuochi dell’Antonovscina. Le operazioni militari sono condotte dai "rossi" con grande dispiegamento di mezzi moderni che vedono anche l’impiego dell’aviazione. Massacri sono commessi da entrambe le parti durante le rapide incursioni nei villaggi. La Ceka, dal canto suo, non sta con le mani in mano: a Zerdevka "avevano scavato una grande fossa, facevano sedere i condannati sul bordo, con la faccia rivolta allo scavo, le braccia legate. Subin [il capo dei cekisti] e i suoi aiutanti andavano avanti e indietro, sparando alla nuca" (21). "In maggio, a reprimere i banditi di Tambov venne da Mosca, con pieni poteri, una commissione del Comitato centrale esecutivo panrusso, capeggiata anch’essa da un Antonov, però Antonov-Ovseenko. A capo dell’Armata Speciale di Tambov arrivò il comandante d’armata Tuchacevskij, in precedenza comandante del fronte occidentale e reduce dalla resa dei conti con la Polonia" (22). Il famoso generale bolscevico Mihail Nikolaevic' Tuchac'evskij (1893-1937) — più prestigioso nella lotta contro i suoi compatrioti che contro il nemico esterno, essendo stato sconfitto pochi mesi prima sulla Vistola dai polacchi del maresciallo Jozef Pilsudski (1867-1935) — riorganizza e potenzia la repressione, e compie una mossa vincente dotando i reparti di apparecchi radiotrasmittenti, che accrescevano enormemente le possibilità di coordinamento fra le unità e vanificavano i movimenti di sganciamento della cavalleria antonoviana dopo ogni assalto. I "rossi" non esitano neppure davanti all’impiego dei gas tossici. Un’ordinanza segreta — la n. 0116 — del comandante d’armata nell’estate del 1921 recitava: "Ripulire le foreste dove si nascondono i banditi mediante gas tossici. Calcolare con esattezza che la nube di gas asfissianti arrivi ad espandersi in tutta la foresta, annientando tutto ciò che vi si nasconde. Il comandante Tuchac'evskij" (23).
Nella restante parte del racconto è descritta con fine ironia la carriera di Zukov all’interno dell’esercito e del partito comunista, sulla scia dell’impulso datogli dal prestigioso condottiero bolscevico. L’ascesa nei gradi, la sopravvivenza alle purghe staliniane della fine degli anni 1930, la guerra in Manciuria e poi contro la Finlandia nel 1939, l’ingresso nel comitato centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica e, soprattutto, la guerra contro la Germania hitleriana — in particolare, il successo nella difesa di Mosca nel 1941, il vittorioso assedio sostenuto a Leningrado, la prima controffensiva del dicembre 1942, la gigantesca battaglia di carri armati di Kursk nel 1943, infine, la travolgente avanzata prima nei Balcani e poi, attraverso la Polonia, verso la capitale del Reich e, da ultima, la conquista di Berlino, che costò all’Armata Rossa circa trecentomila caduti — ne sono le tappe fondamentali. Quest’ultimo successo segna l’apoteosi del piccolo comandante di cavalleria, vicino alla cinquantina, resosi famoso da giovane nella repressione dei suoi compatrioti anticomunisti. Tornata la pace e superata l’inimicizia del potente capo dell’NKVD — "Commissariato del Popolo degli Affari Interni" — staliniana Lavrenti Pavlovic' Berija (1899-1953), la carriera di Zukov proseguirà ancora fino al ruolo di ministro della Difesa dell’URSS sotto Nikita Sergeevic' Chruscev (1894-1971). Poi, all’inizio del 1958, improvvisa, avviene la caduta: la destituzione da ministro — durante un viaggio in Jugoslavia —, poi, a Mosca, l’espulsione dal Politbjuro e dal comitato centrale del PCUS, infine il pensionamento, a opera di Chruscev. La folgorante parabola del maresciallo — mette in luce Solz'enicyn — non è stata scevra di costi morali, nei quali egli non ha esitato per ambizione a incorrere, ma che alla fine, preso anch’egli nel meccanismo della storia e del potere ideologico, non gli varranno altro che un ozioso oblio, nel quale redigerà un libro di memorie (24), che verrà edito dieci anni più tardi, dopo mille vicissitudini dovute alle lotte di potere in URSS.
6. Conclusioni
Questo frammento di storia russa degli anni 1910-1920, ricuperabile grazie alla ricerca e alla pregevole narrativa di Solz'enicyn, aiuta senza dubbio a capire meglio come mai, quando le armate tedesche nel 1941 invaderanno l’URSS, gli eredi dei cosacchi e dei contadini, stanchi dell’ateismo e del collettivismo, le accoglieranno a braccia aperte, anzi si schiereranno al loro fianco contro il comune nemico bolscevico e solo a causa della cecità ideologica dei nazionalsocialisti non riusciranno a rovesciare il regime comunista, andando invece incontro all’autentico martirio del rimpatrio forzato al momento della sconfitta tedesca. Sotto un altro aspetto, questi sprazzi di luce fanno intravedere meglio i contorni di una realtà di gigantesche proporzioni, che merita di essere studiata e conosciuta non solo per amore di verità storica, ma anche per onorare la memoria dei protagonisti e delle vittime di una grande guerra pro aris et focis. "Non abbiamo avuto un Termidoro" — ha acutamente osservato nel 1993 lo scrittore russo nel discorso francese sopra citato —: quest’opera di ricerca e di pietà storiche è quindi tutta da compiere.
Sotto il profilo letterario — detto da semplice lettore e senza pretese "critiche" — noto che la ricchezza e la vivacità delle immagini, la straordinaria capacità di trasmettere al lettore atmosfere e sensazioni del paesaggio naturale e umano della vecchia Russia, l’acuta ricostruzione della psicologia dei personaggi, l’intenso ritmo narrativo rendono questi due schizzi letterari un pregevole esempio di letteratura storica, che non va mai a discapito della serietà della ricerca. Esempio che, anzi, dovrebbe essere valutato con grande cura da tanti che scrivono e di storia e di letteratura. A mio avviso rievocare una pagina dell’insorgenza russa, anche nei termini descritti, costituisce già un degno, se pur minimo, monumento alla memoria di quanti hanno speso la loro vita nella resistenza contro il comunismo.
Oscar Sanguinetti
(1) Cfr. William H. Chamberlin, Storia della rivoluzione russa, trad. it., Einaudi, Torino 1942, vol. I, La rivolta contadina, pp. 329-352, e vol. II, Denikìn e la Vandea cosacca, pp. 183-204; Paolo Vita-Finzi, Terra e libertà in Russia ieri e oggi, Pan Editrice, Milano 1972; Mihail Geller e Aleksandr Nekric', Storia dell’URSS dal 1917 a oggi. L’utopia al potere, trad. it., Rizzoli, Milano 1984, pp. 107-119; W. Bruce Lincoln, I Bianchi e i Rossi. Storia della guerra civile russa, trad. it., Mondadori, Milano 1994; Alain Besançon, La guerra dei bolscevichi contro i contadini, in AA. VV., La Vandea, trad. it., Corbaccio, Milano 1995, pp. 205-210; M. Heller [Geller], La Rivoluzione russa nello specchio della Vandea, ibid., pp. 219-233; e Renato Cirelli, La guerra civile russa (1917-1920), in IDIS. Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale, Voci per un "Dizionario del Pensiero Forte", a cura di Giovanni Cantoni, con una presentazione di Gennaro Malgieri, Cristianità, Piacenza 1997, pp. 209-214. Maggiormente focalizzato sul massacro dei contadini detti kulaki degli anni 1930, cfr. Robert Conquest, The Harvest of Sorrow, Oxford University Press, New York 1986.
(2) Cfr. Aleksandr Isaevic' Solz'enicyn, Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa, trad. it., 2a ed., 3 voll. in 6 tomi, Mondadori, Milano 1995.
(3) Ibid., vol. I, pp. 44-45.
(4) Ibid., p. 49.
(5) Ibid., p. 44.
(6) Idem, Discorso di Les Lucs-sur-Boulogne,
del 25-9-1993, trad. it., Onore alla memoria della resistenza e del
sacrificio degl’insorti vandeani del 1793 contro la Rivoluzione, in Cristianità,
anno XXI, ottobre 1993, n. 222, pp. 13-14, trascritto — rivedendo il testo
sulla base dell’originale in russo — come Discorso sulla Vandea, in
Idem, La verità è amara. Scritti, discorsi e interviste (1974-1995),
con un saggio introduttivo di Aldo Ferrari, Minchella, Milano 1995, pp. 159-162
(pp. 161-162).
Con "Termidoro" lo scrittore russo intende il 9 termidoro dell’anno
II, ovvero il 27 luglio 1794, data in cui Maximilien de Robespierre (1758-1794)
cade in disgrazia, nonché il periodo di governo rivoluzionario successivo al
Terrore, retto dal Comitato di Salute Pubblica. Spesso si ritiene che il
Termidoro sia stata un sorta di "reazione" radicalmente opposta al
Terrore giacobino. In realtà, anche se le misure terroristiche vengono in parte
attenuate e ritirate dai membri della Convenzione Nazionale — l’organo
legislativo e costituente —, si tratta piuttosto di un rallentamento della
marcia rivoluzionaria che non di un suo vero mutamento, a fronte di un paese
esaurito dalla furia omicida e distruttrice del Comitato di Salute Pubblica,
nonché di un capitolo di una feroce lotta di potere ai vertici. Ciò
nonostante, il Termidoro permise di far luce su certi crimini robespierriani e
di fermare il genocidio della Vandea Militare. Come una sorta di
destalinizzazione chrusceviana ante litteram, anche la cosiddetta
"reazione termidoriana" ha le sue "invasioni d’Ungheria".
Sul punto, sono illuminanti le considerazioni di Reynald Secher, Dal
genocidio vandeano al "memoricidio", intervista a cura di Marco
Respinti, in Cristianità, anno XXI, n. 224, dicembre 1993, pp. 5-16
(p.12). Cfr. anche la voce Reazione termidoriana in Jean Tulard,
Jean-François Fayard e Albert Fierro, Dizionario storico della Rivoluzione
francese, trad. it., Ponte alle Grazie, Firenze 1989, p. 841:
"Questa denominazione è del tutto aberrante ed è stata inventata dagli
storici favorevoli al terrore. Alla caduta di Robespierre non vi fu nessuna
"reazione". Il potere restò nelle mani di regicidi, repubblicani, ex
terroristi che si limitarono a porre fine alle esecuzioni in massa del Gran
Terrore. La ghigliottina continuò a funzionare, solo con minore frequenza, le
teste dei sostenitori di Robespierre caddero, ma continuarono a cadere anche
quelle dei preti refrattari e dei fautori della monarchia. La linea politica dei
Termidoriani corrisponde al sogno di [Georges-Jacques] Danton [1759-1794]:
una repubblica rigorosa ma moderatamente repressiva. La presenza della gioventù
dorata, chiassosa ma priva di potere politico, non è sufficiente per
trasformare i Termidoriani in reazionari che volevano restaurare la
monarchia".
(7) Cfr. Idem, Ego, trad. it. di Sergio Rapetti, Einaudi, Torino 1996, con Note del Traduttore.
(8) Cfr. Idem, Ego, ibid., pp. 1-42.
(9) Ibid., p. 7.
(10) Ibid., p. 18.
(11) Ibid., p. 10.
(12) Ibid., pp. 10-11.
(13) Ibid., p.12.
(14) Ibid., p.17.
(15) Ibidem.
(16) Ibid., p. 18.
(17) Ibid., p. 23.
(18) Ibid., p. 35.
(19) Cfr. Idem, Per linee interne, ibid., pp. 43-102
(20) Ibid., p. 47.
(21) Ibid., p. 53.
(22) Ibidem.
(23) Ibid., p. 60.
(24) Cfr. Georgij Konstantinovic' Zukov, Memorie e battaglie, trad. it., Rizzoli, Milano 1970.