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STORIA
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La zona del Kosica

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Nino Saverio Basaglia

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Il Capo Manipolo Bonacini

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Capo Manipolo Sarzano

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Camicia Nera Vezzali Nello

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Cartina della zona del Kosica

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Il cimitero delle CC.NN. a Dunica

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Il Comandante della Legione Farini Antonio Petti

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Disegno della Camicia Nera Walter Morselli

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Il Gagliardetto del Battaglione "Viva la Morte"

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La medaglia d'oro Galluppi Arturo

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Il Capo Manipolo Gatti Mauro

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La Camicia Nera Lami Gustavo

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Legionari sul Borova

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I legionari sul Kosica

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La Madonnina del Kosica in un disegno di Walter Morselli

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Il Comandante Sacerdoti-Grassi

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Tende dei legionari sul Kosica

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Disegno della C.N. Walter Morselli

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Il Comandante Tusini Ermanno

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Disegno di Walter Morselli

Il Monte Kosica – Ara di gloria dei Legionari Modenesi                        (di Bruno Zucchini)

Sicuramente non sono molti i modenesi che conoscono l’origine della denominazione di uno dei più noti Viali della città: viale Monte Kosica. Nell’immediato dopoguerra e negli anni successivi in tutta Italia e a Modena in particolare, avvenne l’epurazione di tutta la toponomastica stradale che faceva riferimento a personaggi e a luoghi del periodo fascista. Furono pure eliminate sculture, edifici immagini in una furia iconoclasta che a Modena ebbe il suo vertice nella totale demolizione di uno degli edifici più belli del puro stile novecento, il palazzo dell’ex GIL.

A fronte di questo comportamento, resta incomprensibile come sia rimasta integra la targa di “Viale Monte Kosica - Ara di gloria dei legionari modenesi” come ancora oggi troviamo scritto. In queste pagine vogliamo ricordare, in modo succinto il sacrificio di quelle centinaia di Camicie Nere modenesi che si coprirono di gloria sul confine greco-albanese.

Erano trascorsi pochi mesi dall’entrata in guerra dell’Italia quando il 28 Ottobre 1940, mentre a Firenze Mussolini riceve Hitler e gli comunica improvvisamente quella che doveva essere una grande notizia, l’invasione italiana della Grecia, inizia una delle più discusse campagne di guerra che rimarrà memorabile nella storia italiana per l’inefficienza, pressappochismo, impreparazione e miopia strategica dello Stato maggior italiano. L’illusione di una guerra lampo si esaurì in pochi giorni. Due Corpi d’Armata che dovevano entrare velocemente in Grecia dall’Albania in breve si impantanarono letteralmente. La famosa frase di Mussolini “spezzeremo le reni alla Grecia” si rivelò quantomeno inopportuna poiché immediatamente, dopo il nostro attacco, i greci riuscirono a bloccare l’iniziativa italiana e a contrattaccare e costringendo le nostre truppe a bloccarsi sul fronte greco albanese, in un durissimo inverno. Su questo terreno ostile e impervio i nostri soldati, malgrado le amarezze e lo scadente supporto di mezzi e di materiali, oltre alle risse tra gli alti Comandi, scrissero pagine d’eccezionale valore in quei tremendi mesi dell’inverno 1940-1941.

La composizione del Corpo dell’Esercito comprendeva due Corpi d’Armata il XXV e il XXVI forte di 12 Reggimenti di Fanteria , un Reggimento di Granatieri, uno di Bersaglieri, due Reggimenti Alpini, due Reggimenti di carri armati, cinque Battaglioni di Camicie Nere, tre battaglioni di Carabinieri, quaranta gruppi di artiglieria e cinque compagnie del Genio, per un totale di 105 mila uomini, 163 carri armati e 680 cannoni.

Tra i battaglioni di Camicie Nere era presente anche un Battaglione di Modena che faceva parte della 72° Legione Farini ed era composto da 18 Ufficiali, 32 sottufficiali e 460 CC.NN. Assieme al battaglione modenese era aggregato il CXI  battaglione CC.NN. di Pesaro.

 Il 1° Seniore Antonio Petti comandava il battaglione dei nostri concittadini che nel suo gagliardetto, ricamato e consegnato ai legionari dalle donne fasciste modenesi, portava la scritta “Viva la morte”.

Il giorno 7 Dicembre 1940, “i Falchi”, così era chiamato il Battaglione delle Camicie Nere, si  imbarcano da Bari sulla motonave “Giuseppe Verdi” e il giorno successivo sbarcano nel porto di Durazzo in Albania. Andranno a schierarsi sul fronte Est albanese tra il Monte Kosica e il Lago Okrida giungendo, attraverso mulattiere piene di fango e dopo sforzi sovrumani, sulla linea del fronte nelle vicinanze di Dunica. In questa zona rimarranno per alcuni mesi, in una durissima guerra di posizione.

Il periodo prenatalizio e sino ai primi giorni di Gennaio è dedicato alle ricognizioni tattiche, alla sistemazione delle tende e degli accantonamenti alle varie quote in Val Dunica dove avverrà il “battesimo del fuoco” dei legionari modenesi. A metà Gennaio si aggiungono ai reparti già schierati altre camicie nere, in particolare i plotoni di salmerie con i fidati muli che si riveleranno i migliori mezzi di trasporto su quelle impervie montagne. Assieme a loro è presente il C.M. Nino Saverio Basaglia, giornalista, sindacalista e scrittore.  Dal suo diario abbiamo appreso le tante notizie dei fatti e degli uomini modenesi che hanno affrontato quel periodo di guerra eroica e drammatica.

Molti uomini si dovettero improvvisare mulattieri, uomini del plotone comando che erano partiti con diversi compiti si resero disponibili a svolgere il servizio pesante e gravoso di accudire i muli e con loro fare miracoli per compiere il trasporto dalla base alle linee. Vogliamo citare alcuni modenesi che si dedicarono a quelle operazioni: i due operai della Manifattura Tabacchi di Modena, Rinaldi Amos e Sighinolfi Ivo, il tramviere Frateschi Giuseppe di Modena, l’impiegato Mazzuccato Luigi, il meccanico Pistoni Agostino, l’edile Capellini Terzo, il metallurgico Forti Alberto tutti di Modena.

Mano a mano che i vari reparti della 72° Legione Farini vanno a posizionarsi sulle quote a loro destinate, hanno la possibilità di valutare e di giudicare la vita di quelle popolazioni e fare valutazioni come quelle del giornalista citato che visitando la cittadina di Kavaja scrive”……Osservo qundi le condizioni miserabili in cui l’urbanistica di re Zog ha lasciato un centro così popolato. Bimbi dappertutto, bimbi stracciati, macilenti. Questo non è il “colore locale” che amiamo e che una letteratura cosmopolita descrive come caratteristiche di molte regioni balcaniche……. E se i turisti delle lussuose e potenti macchine fuori serie si lamenteranno per il perduto colore locale, che Iddio non ci metta in corpo la proletaria voglia di farli discendere dai morbidi e lussuosi cuscini, di sporcar loro la faccia con una maleodorante manata di fango………Prenderemo loro fotografie a testimonianza postuma, a documento ultimo di una stupidità umana e di una insensibilità morale che non è l’ultima causa dei perturbamenti sociali, culminati nelle rivolte civili e nelle guerre fra i popoli.”

 Le pendici del Monte Kosica sono a strapiombo e difficilissime da superare,  a quota 1108 è distaccato un plotone agli ordini del C.M Florindo Longagnani assieme al II° Battaglione dell’84° fanteria “Venezia” e alla 10° Compagnia mitraglieri della Divisione Arezzo. In questa zona, mentre porta un ordine al Comando del settore di Dunica, a quota 1033 viene mortalmente colpita da schegge di mortaio la camicia nera Montanari Ferruccio di Vignola. E’ il primo caduto modenese.

Le temperature sul Kosica sono sempre rigidissime e l’azione delle pattuglie è totalmente condizionata; i greci dominano la vallata dalle quote 1475 e 1498 del monte e di frequente attaccano le nostre postazioni che si difendono e mantengono le loro posizioni a prezzo di notevoli sacrifici. 

La difficoltà dei trasporti e degli approvvigionamenti è notevole. Per quasi due mesi le CC.NN. modenesi dovranno accontentarsi delle razioni dei viveri che consistevano in un pezzetto di formaggio, venti grammi di marmellata, un gavettino di caffè, una pagnotta e cinque sigarette, a quelle rigidissime temperature sempre sotto lo zero non era il massimo.

Uno dei più ardimentosi attacchi delle CC.NN alle quote alte del Kosica avviene il 5 Gennaio “alla legionaria, con lo sprezzo del mortale pericolo ereditato dagli arditi della grande guerra , con un ardore che accende il sangue e lo sommuove come un fervido sole di vendemmia fa con l’uva ribollente nei tini, gli arditi fascisti attaccano il trincerone”

Il trincerone viene raggiunto di slancio ma i greci si difendono con rabbiosa decisione e con l’aiuto delle nuove mitragliatrici e di freschi rinforzi riescono a ricacciare le CC.NN. alle loro posizioni di partenza¸poi vi è il contrattacco dei greci che viene in parte rintuzzato. Ma la compagnia è gia priva di una trentina di elementi, tra feriti più o meno gravi e congelati. Quattro camicie nere vengono date per disperse sono, i legionari Giorgio Crabbia, Pietro Bellei, Francesco Gherardini e Marino Bonazzi. Ma dopo tre giorni, senza viveri e senza medicinali per curare uno di loro ferito, dopo essere rimasti nella cavità di una grossa roccia, riescono a ritornare tra i loro camerati.  

In un ulteriore attacco alle postazioni greche rimane gravemente ferito, preso in pieno da una rosa di schegge di mortaio, il comandante della compagnia, Centurione Ermanno Sacerdoti-Grassi: il nemico è su postazioni privilegiate e cinque volte superiore di numero ai circa cento legionari modenesi che si proiettano avanti con impeto indomabile: una raffica di mitragliatrice colpisce in pieno la camicia nera Michele Bollettini e altri rimangono feriti sul terreno; i capi delle squadre e dei plotoni Tonino Zoboli, Gustavo Lami, Adolfo Muzzarelli e Armando Bosi portano i loro uomini sin sull’orlo della trincea nemica che attaccano con bombe a mano: le perdite avversarie sono moltissime ma anche molti modenesi sono a terra: la battaglia prosegue per tutto il giorno e alla notte i resti della compagnia si attestano sui costoni sino al momento che con il raggiungere dei rinforzi riusciranno ad attestarsi su di una linea difensiva più solida. Rimangono su quella montagna con il rosso del loro sangue i valorosi: Aldo Gelmuzzi, Guido Malpighi, Roberto Zanetti, Antonio Ballati e Armando Morandi.

I feriti sono molti e così gli atti eroici come quello del nonantolano Tonino Zoboli,  o di Domenico Pini che pur feriti continuano a lanciare bombe sino all’esaurimento di queste.

In seguito, per questi fatti, furono concesse le medaglie al valore: Medaglia d’Argento a C.N. Bonazzi  Maurizio di Ferdinando da Castelfranco Emilia; Medaglia di Bronzo ai  C.P  Benassi Mario da Modena, Bonacini Umberto da Modena, Pignatti Aroldo da Bomporto, alle CC.NN. Maccaferri Arturo da Castelfranco Emilia, Marani Abdon da Bomporto, Gherardini Francesco da Castelfranco E., Vaccari Gildo da Nonantola, Bellei Nino da Bomporto, Rebuttini Primo da Nonantola. Croci di Guerra al Vice caposquadra Belli Pietro da Spilamberto e Crabbia Giorgio da Castelfranco E.

Poi per il mese di Gennaio riprende la normale routine di vigilanza sulle linee e di qualche scaramuccia per rintuzzare sporadici attacchi greci.

Un operaio meccanico di Fanano certo Monterastelli Edoardo tenne un diario di quei drammatici giorni sul Kosica e così con una vena poetica notevole descrisse la vita sotto la tenda su quei costoni impervi e desolati: “Il giorno stà per finire. Il cielo è sereno, ma l’aria è gelida: I teli all’interno luccicano di uno strato di ghiaccio che li fa sembrare d’argento. “ Oh telo di tenda, debole come una ragnatela, sembri  a noi una fortezza inespugnabile. Tu ci ripari dal vento, dalla neve e ci dai l’impressione di difenderci anche dal piombo nemico. Abbiamo fiducia in te, fratello telo, che fermi sul nostro capo il vento di gelo e di morte che fuori infuria”.

Il mese di Febbraio è gelido come i precedenti, le camicie nere modenesi lo trascorrono sotto i bombardamenti dei nemici e a rintuzzare gli attacchi che abbastanza di frequente sono portati loro.

Molti battaglioni sono in prima linea da oltre tre mesi e in condizioni veramente difficili, il freddo, l’acqua, il gelo, la neve. Molti legionari si ammalano, congelamenti, febbri ed anche dissenteria provocano vuoti nei ranghi per lunghi periodi ed alcuni purtroppo morirono come le CC.NN. Giuseppe Reggiani, Erasmo Baraldi e Fulvio Veroni.

Le azioni delle pattuglie della 72° Legione Farini sono frequenti alle varie quote del Monte Kosica dove sono dislocate e precisamente a q. 1033, q. 1214, q. 1333  dove era situata la Madonnina del Kosica e a q. 1434. I piccoli villaggi dei dintorni sono tenuti sotto controllo per evitare che vi s’installino reparti dell’esercito greco, pertanto, in vari punti si creano posti avanzati per il controllo e la difesa degli sbocchi verso valle che non devono cadere in mano nemica. Di tanto in tanto si davano il cambio con i legionari sistemati nel paesino di Dunica a quota 900 metri. L’operare delle pattuglie, specialmente per quelle impegnate di notte, è un compito snervante e difficilissimo per la tensione di improvvise imboscate o di scontri diretti con il nemico.

Nelle giornate del 12 e 13 Febbraio avvennero numerosi attacchi dei greci alle postazioni dei modenesi e le nostre linee sono sconvolte da un furioso fuoco di artiglieria e mortai, in quegli attacchi e bombardamenti trovano la morte le CC.NN. del 72° Battaglione, Ivo Gasparini, Tonino Vecchi, Cesare Dondi e Zoello Gilli  e molti furono i feriti.: vennero particolarmente colpite quota 1033 e 1333. La reazione dell’artiglieria italiana non si fece aspettare e le postazioni greche  vennero tenute per alcune ore sotto un fuoco incessante. La battaglia era divampata, in un primo tempo i greci riuscirono a penetrare nelle linee italiane a quota 1333 ma da qui vennero ricacciati indietro dal fuoco delle mitragliatrici delle camicie nere.

Poi le posizioni si consolidano e le trincee delle camicie nere sono ad una distanza, da quelle greche, di circa 150 metri mentre le postazioni avanzate delle vedette, sono a non più di 70 metri. La vita in quelle condizioni è difficile ma i legionari devono “tenere” il fronte, sorvegliare i movimenti dei vicini, sopportare i principi di congelamento, controllare costantemente le armi affinché l’olio non geli nei congegni, restare vigili sotto i rabbiosi bombardamenti, poi dopo i lunghi turni di guardia entrare nella tana seminterrata per dare un morso alla pagnotta, bere un sorso di caffè freddo, dormire vestiti con le scarpe ai piedi.

In una relazione al Comandante il Settore Occidentale di Dunica, il Console Petti comandante della 72° Legione Farini, faceva presente la situazione difficile, dopo tre mesi di permanenza al fronte durante un inverno particolarmente gelido, dei suoi reparti che,  tra morti (13), feriti (51) e ammalati (84) si trovava ad essere particolarmente decimato e pertanto chiedeva un periodo di riposo.

Durante i primi giorni di Marzo avvengono numerosi scontri di pattuglie e scambi ripetuti delle artiglierie mentre i legionari attendono il cambio. Vogliamo sottolineare un aspetto particolare della presenza dei modenesi in terra d’Albania che è quella della presenza di tante famiglie quali ad esempio i tre fratelli Dario, Alberto e Remo Stefani nella stessa compagnia di CC.NN e il quarto fratello in un altro reparto in Albania: altro esempio quello dei quattro fratelli Rivaroli, l’ing. Bruno con i legionari sul Kosica ed i fratelli, Oberdan, Antonino e PierDomenico in altri reparti, ma sempre in Albania

Pochi giorni prima di andare al meritato riposo, i legionari modenesi subiscono un improvviso attacco, e dopo un furioso fuoco di artiglieria da una postazione greca a q. 1461, partono rabbiose raffiche di mitragliatrice che prendono d’infilata, in fondo ad un breve sentiero scoperto, un gruppo di legionari che stavano per avvicinarsi ad una piccola fonte di scarsa acqua torbida. Una quindicina di questi, al settantesimo giorno di permanenza in linea sul fronte, rimangono a terra colpiti. Tre di loro perdono la vita: i CapiSquadra Guido Ramini e Arnaldo Pastorelli e la Camicia Nera Gino Vezzali.

Il 16 Marzo, è l’ultimo giorno in linea e i greci per quasi tutto il giorno tengono sotto il fuoco delle loro batterie i legionari modenesi e la Camicia Nera Vittorio Goldoni paga l’ultimo tributo al caposaldo sul Monte Kosica ; così aveva scritto in una lettera alla famiglia trovatagli in tasca “ ..abbiamo già avuto il cambio, stanotte lasciamo la linea e quando questa vi arriverà saremo a riposo molto lontani dal pericolo.”

Arriva così il momento del sospirato riposo e i legionari modenesi vengono sostituiti dalle CC.NN di Parma e di Forlì, e vanno a Qukes nel vicino Lago di Okrida.

Ai primi giorni di Aprile, dopo un breve periodo di riposo e dopo che i reparti sono stati rinforzati dai complementi appena giunti dall’Italia a seguito delle perdite sul Kosica, la 72° Legione si rimette in marcia, sulla base di un ordine improvviso, per raggiungere nuovamente la prima linea. Si vanno a disporre sulla linea che va dal Kosica al Lago Okrida, la compagnia mitraglieri della 72°, comandata dal Centurione Ermanno Tusini, che da poco tempo è arrivato in Albania, si dispone nel settore tra il Kungullit e il Breshenikut e il battaglione “Viva la morte” raggiunge il Kalase: così i due reparti modenesi, che in quei giorni ricevettero la visita del Console Calzolari e di Roberto Farinacei, furono schierati uno fianco all’altro.

In quei giorni, dopo continui duelli di artiglieria su tutto il fronte i greci compiono un tentativo di sfondamento nel settore del Kungullit dove è schierato il reparto “mitraglieri”. La lotta è furiosa varie compagnie rimangono isolate e numerosi sono i corpo a corpo. Il 1° plotone, comandato dal C.M. Renzo Gemma, il 2° plotone al comando del C.M. Mauro Gatti, il 3° plotone comandato dal Cm: Branco Piacentini e il plotone comandato dal C.M. Aldo Giovannardi, vengono a trovarsi al centro dell’attacco nemico. Un formidabile bombardamento nemico, preparatorio all’assalto, sconvolge le nostre linee. Molte mitragliatrici furono messe fuori uso dal violentissimo fuoco dei greci e molti legionari tra morti e feriti gravi vennero messi fuori combattimento. Alcune compagnie furono completamente distrutte. Con un numero preponderante di uomini il nemico attacca furiosamente e alcuni gruppi di CC.NN. già completamente accerchiate riuscirono ad aprirsi un varco, usando pugnali e bombe a mano, attraverso le fanterie nemiche riuscendo a raggiungere una posizione leggermente arretrata tenuta dall’ultimo plotone “mitraglieri” ancora efficiente. Poi verso sera, con l’aiuto dell’intervento del CXI° battaglione di Pesaro fu sferrato il contrattacco che riuscì a rigettare indietro le fanterie nemiche che lasciarono sul terreno molti caduti.  I Legionari modenesi in linea erano circa 150. Dopo i furiosi combattimenti si contarono 8 morti sessantre feriti e 16 dispersi. Dei cinque Ufficiali della Compagnia: 1 morto 3 feriti e 1 disperso.

Numerosissimi furono gli atti di valore, tanto che la compagnia ebbe una medaglia d’oro assegnata al giovanissimo “balilla” Arturo Galluppi, tre d’argento, sette di bronzo oltre a numerose croci di guerra al valore. Caddero in quella furiosa battaglia oltre alla giovane camicia nera Arturo Galluppi, le CC.NN: Irmo Righi, Donato Toni, Ettore Lusetti, Mario Lanzotti, Remo Vandelli, Giovanni Cadignani, Ettore Vezzani e il Capo Manipolo, Mauro Gatti.

Il reparto schierato sul Kalase era stato sistemato su di una specie di altipiano argilloso, sconvolto dalle bombe e con attorno boschi di castagni, tutti colpiti e frantumati dall’artiglieria. In quei giorni entra in guerra anche la Iugoslavia e i reparti modenesi vengono a trovarsi in una zona delicatissima, esattamente al confine con la Grecia e la stessa Iugoslavia. Come è avvenuto sul vicino Kongullit anche sul Kalase, dopo un fortissimo fuoco di artiglieria, si accende furioso il combattimento e tantissimi furono gli scontri ravvicinati con i greci: numerosi feriti e i seguenti caduti modenesi rimasero sul terreno: il Capo Squadra Vezzani Nello, e le CC. NN. Givera Mario, Zanni Mario e RiccardoZanella.

Il giorno 13 Aprile, giorno di Pasqua, dopo logoranti combattimenti, termina in sostanza la battaglia su quelle montagne impervie. E’ il contrattacco italiano, con la collaborazione dei reparti tedeschi; su tutto il fronte, l’inseguimento ai greci è frenetico, si riconquistano tutte le posizioni di confine e sono fatti moltissimi prigionieri. Sulle alture di Borova i legionari trovano un forte sistema difensivo e il giorno 19 Aprile al pomeriggio scatta l’attacco per debellare quella forte resistenza: oltre ad alcuni feriti restano per sempre sul terreno alcuni modenesi: il Centurione Felice Sarzano  il Capo Manipolo Umberto Bonacini e le CC. NN. Ottavio Righetti e Contardo Bolelli.

Qui ha termine il succinto racconto dei legionari modenesi che si sacrificarono sull’Ara del Monte Kosica chiamato da loro: “ l’Alcazar della morte bianca” in quei lontani mesi dell’anno 1941.

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Il biennio rosso 1919-1921 - Nascita del Fascismo a Modena                   (di Bruno Zucchini)
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Manifesto Arditi

Al termine della prima guerra mondiale (conclusasi il 4 Novembre 1918) l’Italia e la Provincia di Modena in particolare si vengono a trovare in una situazione che definire precaria ci pare eufemistico. 630.00 morti di cui oltre 6.000 modenesi e oltre un milione di feriti  sono il bilancio di quel tremendo conflitto. Oltre ad un debito per spese belliche di 65 miliardi di lire-oro.

L’economia modenese era a rotoli, migliaia e migliaia di disoccupati, gli ex combattenti umiliati e avviliti, il rincaro dei prezzi era arrivato sino a valori del 625%. La chiusura massiccia di laboratori, botteghe artigianali e piccole industrie, aveva creato nell’opinione pubblica uno stato di frustrazione e di incertezza per il futuro che, nonostante la guerra vinta, non prometteva nulla di buono. Oltre a tutto questo vi fù la pesantissima  epidemia di influenza chiamata “spagnola” che provocò numerosissime vittime.

La gioia della vittoria fu un'ebbrezza forte e fugace. L'Italia si poteva considerare divisa in due settori: uno ottimista, l'altro sfiduciato. Quello ottimista comprendeva soprattutto la gioventù e quindi, la grande maggioranza del Paese. L’enorme sforzo della guerra aveva costretto l'Italia alla mobilitazione globale di tutte le sue risorse, materiali e morali. Si dovevano mantenere segrete le notizie deprimenti e dare di tutti gli avvenimenti le interpretazioni più favorevoli. Da questa situazione si venne a creare  la nozione di "disfattismo".

Era logico, quindi, che al termine della guerra si verificasse un crollo delle speranze dei combattenti.  Coloro che si potevano considerare facenti parte del gruppo degli sfiduciati e che era composto soprattutto dai neutralisti del 1915, rimaneva convinto che la guerra era stata un grosso errore. Il governo del dopoguerra, presieduto da Vittorio Emanuele Orlando, commise quello decisivo.

 La Camera, era ancora quella del 1913, al termine del conflitto mondiale aveva già terminato da qualche mese i cinque anni di vita. Si dovevano, come in Francia e in Inghilterra, organizzare subito le elezioni, approfittando dell'entusiasmo della vittoria ma questo non avvenne. La conseguenza fu che l'euforia andò rapidamente svanendo cedendo il campo ad un tremendo spirito di disgregazione.

 I reduci, ritornati a casa, videro che tutti i posti di lavoro erano occupati da coloro che, quando erano in trincea, erano stati invitati a disprezzare come "imboscati". Niente era stato preparato per tutelare il pacifico ed ordinato passaggio dallo stato di guerra allo stato di pace. D'altra parte, le industrie che fabbricavano materiali di guerra chiudevano rapidamente i battenti. Si formarono così, fin dai primi mesi del dopoguerra, schiere enormi di disoccupati, appartenenti a tutti gli strati sociali. Le lauree erano state concesse con grande prodigalità: vi era pertanto, una sovrabbondanza di giovani laureati, di ex ufficiali di complemento, che non avevano praticamente la possibilità di una stabile sistemazione.

Un altro degli aspetti importanti per la dissoluzione del vecchio stato borghese fù la rivoluzione russa dell'ottobre 1917 che praticamente portò a un vero e proprio sconvolgimento nei partiti socialisti di tutti i Paesi.

Già alla vigilia della guerra il partito socialista, in Italia, era maturo per la direzione del potere. Lo svolgimento di questa possibilità di progresso politico fu interrotto non solo dalla guerra, ma fondamentalmente dalla rivoluzione russa e dal successo della parte bolscevica del partito socialdemocratico. Il bolscevismo aveva adottato metodi che erano totalmente in contrasto con le tradizioni dei partiti socialisti e socialdemocratici; questi, in tutti i Paesi, rimanevano fedeli al metodo democratico e in questo metodo trovavano la base di partecipazione e di compatibilità con i partiti democratici borghesi. I bolscevichi, invece, favorivano l'azione diretta, l'azione rivoluzionaria, l’istituzione della dittatura del loro partito, organizzato su uno schema autoritario e militaresco.

Finita la guerra, il bolscevismo russo, che già voleva crearsi uno sbocco nell'Europa occidentale e quindi anche in Italia, favorì con danaro e con ogni mezzo il sovversivismo nostrano che, sfruttando le tristi condizioni economiche del periodo del dopoguerra, tentava in qualche modo di impadronirsi dello Stato.

II partito maggioritario a Modena, in quegli anni, era il Partito Socialista Italiano con le sue due anime, riformista e rivoluzionaria. Gli esponenti più in vista erano Gregorio Agnini, Alfredo Bertesi di Carpi, l’avvocato Cesare Marverti, il Segretario della CGIL Enrico Ferrari, l’avvocato Pio Donati sempre nell’area di sinistra; esistevano altri piccoli partiti quali i socialisti libertari, gli anarchici, i radicali.

Erano i partiti della classe operaia, degli anticlericali e delle classi più deboli in generale. All’inizio del 1919 fu costituito il Partito Popolare Italiano (PPI); i cattolici, che si erano fondamentalmente astenuti dalle lotte di inizio secolo, entrano nell’agone politico. A Modena i maggiori esponenti di questa formazione erano: l’avvocato Francesco  Luigi Ferrari, il professore Claudio Nava, l’avvocato Alessandro Coppi, l’avvocato Giuseppe Casoli, il professore Giovanni Rizzati e altri, nella maggioranza appartenenti alla classe borghese e dominante: anche i cattolici presentavano al loro interno due anime, i progressisti e i conservatori. Al centro dunque i cattolici, a destra i liberali che non avevano, almeno a Modena, un partito ben definito ed erano raccolti in associazioni, clubs, circoli di vario tipo, ma che si unirono in vista delle elezioni in una lista chiamata “Unione di Rinnovamento”. I maggiori rappresentanti di questo raggruppamento erano: l’avvocato Ottorino Nava, il Sindaco Giuseppe Gambigliani Zoccoli, il giornalista–scrittore Giovanni Borelli, il capitano Mario Pellegrini, medaglia d’oro della prima guerra mondiale. Sempre nell’area di destra si trovava l’Associazione Combattenti guidata dall’avvocato Vittorio Arangio Ruiz.

Nel Marzo 1919, il giorno 23, a Milano, Benito Mussolini  fonda i Fasci di Combattimento che in brevissimo tempo passerà da un piccolo gruppo a grossa formazione politica.

A proposito della situazione in Italia così scriveva lo storico Attilio Tamaro:

“in quel momento la fiumana rossa ingrossava, la vita nazionale sembrava doversi spartire tra le camere del lavoro e le sagrestie e il valore della vittoria perdersi nelle bestemmie degli uni o nell’ipocrisia degli altri, Mussolini pensò di fondare un organizzazione che si opponesse a tanto sconquasso. Era colmo di energia esplosiva, credeva nel suo destino e pensava  sé stesso nell’avvenire.. Nel gennaio 1919 appoggiò (dato che si trovava ancora su di una linea socialista) l’agitazione dei metallurgici, nel febbraio dei fonditori, nel marzo lo sciopero agrario novarese. Si precipitò a Dalmine per inneggiare, con un discorso diventato celebre, agli operai di una fabbrica, che, guidati da sindacalisti, l’avevano occupata e vi avevano alzato il tricolore.  

Il 27 Maggio, il sottotenente degli arditi  Cesare Cerati, nella sala San Vincenzo di Corso Canalgrande

( dove ora ha sede il Tribunale) tiene il primo comizio fascista alla presenza di ex combattenti e studenti, in sala erano presenti anche alcuni socialisti che intonarono l’inno dei lavoratori scatenando un putiferio tale che dovette intervenire la forza pubblica e il comizio fù sciolto. Dopo pochi mesi Gabriele D’Annunzio partì per l’impresa di Fiume, dove vi entrò il 12 Settembre e alla quale si aggregarono alcune decine di giovani modenesi.

Il 15 Novembre del 1919 si svolsero le prime elezioni politiche del dopoguerra che diedero a Modena i seguenti risultati: Partito Socialista Italiano 36.976 voti, Partito Popolare Italiano 10.939 voti, Liberali 6.844 voti, Fascio d’Avanguardia 5.426 voti, Combattenti 1383 voti. Furono eletti deputati quattro socialisti e un popolare.

 Si è parlato tanto di violenza fascista e  sempre in termini di accusa al fascismo. Ma la violenza di quegli anni non nasce dai fascisti. Finita la guerra furono i socialisti, gli anarchici, ed anche i repubblicani ad usare la violenza fisica contro gli avversari. Assalivano i reduci di guerra distruggevano vetrine e picchiavano cittadini inermi mettendo bombe assassine, scioperando selvaggiamente oltraggiando la forza pubblica. La violenza nasce “rossa” e così è rimasta durante tutto il biennio che gli storici hanno definito “rosso” cioè dal 1919 al 1921. Il modello era la rivoluzione russa che sarebbe dovuto sfociare nel sistema dei “soviet”.  (non si dimentichi che già  in quegli anni gli emissari dei Soviet sovietici distribuivano in Europa e in particolare in Italia somme considerevoli per la propaganda e lo sviluppo dei programmi e delle idee bolsceviche).

A questa violenza sovversiva, durissima  e sanguinosa, prima individualmente, poi in forma di squadre organizzate, si opposero cittadini di ogni condizione sociale.

In quel 1920 gli scioperi e le dimostrazioni erano all’ordine del giorno e la conflittualità tra popolari e socialisti era costante , comizi interrotti, oratori aggrediti  e lotte in continuazione. A Mortizzuolo di Mirandola ci fù il tentativo di accoltellamento di un giovane cattolico; a Polinago un altro cattolico venne pugnalato mentre usciva dalla chiesa; idem a Montese con rivoltellate ad un popolare.  

Gravi incidenti avvennero a Modena in Piazza Grande durante uno sciopero generale proclamato dalla Camera del lavoro in seguito ai gravi incidenti avvenuti a San Matteo di Decima di Persiceto dove si dovettero contare otto morti. Il 7 Aprile  gli scioperanti riuniti in Piazza vennero presi a fucilate dalle guardie regie che cercavano di sequestrare la bandiera della Lega proletaria. Si contarono cinque morti (Evaristo Rastelli, Antonio Amici venditore ambulante, Linda Levoni, l’agricoltore Ferdinando Gatti e Stella Zanetti.) altre 15 persone rimasero gravemente ferite.  A seguito dell’eccidio vi furono manifestazioni in tutta la Provincia e lo sciopero generale andò avanti per quattro giorni.

I cattolici reagivano, in modo particolare sull’appennino dove a Lama Mocogno, a Polinago a Montecreto, vennero bastonati propagandisti socialisti; gravi incidenti avvennero a Ospitale di Fanano dove rimasero uccisi, in seguito agli incidenti tra popolari e socialisti, dai colpi dei carabinieri, due socialisti oltre a numerosi feriti e molti arresti vennero effettuati dalle forze dell’ordine.

Il 31 Ottobre ci furono le elezioni amministrative che videro la conquista di quasi tutti i Comuni della bassa da parte dei socialisti e ai popolari quasi tutti i Comuni dell’Appennino e Sindaco di Modena diventò il socialista Rag. Ferruccio Teglio.

Il movimento fascista non si era ancora organizzato e partecipava alla vita politica locale in modo disorganizzato e sporadico. Ma la situazione era, nella nostra Provincia come nel resto dell’Italia, a dir poco drammatica e così anche nel modenese il desiderio di ritornare ad una situazione di tranquillità fece sì che tante componenti della società civile  si riunissero per cercare di mettere un freno alla sovversione rossa.

Il 16 Novembre 1920, in casa Cuoghi in Via Sant’Agata a Modena, venne eletto il Direttorio  del Fascio di Combattimento modenese  che risultò cosi composto: Renato Bussadori, impiegato della Manifattura Tabacchi; Ing. Antonio Rizzi industriale; Enzo Roncati, maestro elementare; Mario Aminta Ughi studente di Legge; Fausto Randelli, assicuratore; Alberto Vellani, ex Ufficiale degli Arditi; Carlo Zuccoli agricoltore e possidente; Mario Vellani Marchi pittore; segretario venne nominato Enzo Ponzi, laureando in Legge ex Ufficiale degli Arditi e giornalista della “Gazzetta dell’Emilia”.

Cosi nei giorni successivi si costituivano altri Fasci locali come quello di Carpi, costituito in casa Pellicciari, dove veniva nominato Segretario Bruno Melloni.

Pochi giorni dopo a Bologna si verificarono i tragici fatti di Palazzo d’Accursio, con nove morti e molti feriti. A Modena e a Carpi così come in tutta Italia si svolsero imponenti manifestazioni di protesta , in città sfilarono centinaia di fascisti e a Carpi venne presa d’assalto la Camera del lavoro.

Anche nel 1921 la lotta politica continua ad essere segnata da continue intemperanze e violenze a non finire. Cattolici contro Socialisti, questi contro i Fascisti in un caos indescrivibile. Bastonature, accoltellamenti, devastazione reciproca di sedi di partito, si era scatenata una serie di reazioni a catena che l’autorità costituita non riusciva a frenare , anzi in moltissime circostanze le guardie regie contribuirono con reazioni a dir poco sconsiderate, sparando sui manifestanti,  a creare un clima di intolleranza e di reazione.

A Modena durante il mese di Gennaio venne ucciso un socialista a Campogalliano e la sera del 21 in località Gallo allora alla periferia di Modena venne ucciso a colpi di pistola il fascista, ex legionario fiumano, Mario Ruini di 19 anni. Mario Ruini era assieme al fratello e allo studente Stradi, e mentre rincasavano vennero aggrediti in un agguato. Ai suoi funerali, tre giorni dopo, mentre si svolgevano sulla Via Emilia, all’altezza del Palazzo delle Poste gruppi di comunisti si avvicinarono al corteo e iniziarono a sparare colpendo a morte l’impiegato fascista di Bologna di ventuno anni  Augusto Baccolini e l’operaio metallurgico Orlando Antonini di diciannove anni facendo inoltre una decina di feriti.

In seguito a questi fatti venne data alle fiamme la Camera del lavoro e venne proclamato lo sciopero generale. I fascisti bolognesi che ritornavano nella loro città particolarmente esasperati per i fatti al funerale di Ruini, vengono presi a fucilate, la loro reazione li porta all’assalto della Camera del lavoro bolognese che verrà devastata. 

 Il 15 Maggio 1921 alle elezioni politiche, precedute in tutta Italia da violenze che provocarono la morte di una ventina di fascisti e gli incendi di un centinaio di Camere del lavoro, si presentarono, ottenendo un clamoroso successo anche i fascisti, che riuscirono a portare in parlamento 37 deputati, tra i quali il modenese Marco Arturo Vicini.

Nella nostra Provincia si ebbero i seguenti risultati: Blocco Nazionale che comprendeva, fascisti, nazionalisti, liberali e radicali 28.378 voti: Partito Socialista Italiano 27.028 voti: Partito Popolare Italiano 17.600 voti.

Passato questo momento ripresero ancora le lotte; l’8 Agosto  a Stuffione di Ravarino venne pugnalato a morte il fascista Eliseo Zucchi ; a Mirandola il 17 Agosto venne ucciso il popolare Agostino Baraldini.

Si arriva così al fatto più tragico di quel tormentato periodo: l’eccidio del 26 Settembre 1921

 Questo è il resoconto il resoconto ricavato dall’inchiesta sui fatti poi elaborato da G.A Chiurco in: Storia della Rivoluzione Fascista

26 Settembre – “…Le autorità governative di Modena, in odio al Fascismo, davano ordini polizieschi categorici, che irritarono i fascisti, tanto da indurli a tenere una riunione nella quale fù votato un ordine del giorno di protesta contro il Governo. Circa un migliaio di fascisti dopo la seduta inquadrati militarmente sfilarono per la Via Emilia. Trovano la strada sbarrata dalle guardie regie agli ordini del Commissario Cammeo, ben noto per la sua condotta antifascista e vigliacca. L’on. Vicini afferma alle guardie che i fascisti domandano soltanto che una Commissione possa consegnare l’ordine del giorno alla Prefettura.  Gli squadristi attendono intanto ordinati e calmi ed al ritorno della commissione imboccano nuovamente la Via Emilia. Altro plotone di guardie regie che sbarra il passo presso il caffè Nazionale. Il corteo si ferma e l’on. Vicini si accinge a parlare ai fascisti per calmarli e dar loro l’ordine di sciogliersi. Accanto all’On. Vicini si pone il gagliardetto del Fascio.. I due commissari che si trovano accanto al gagliardetto non si vollero levare il cappello. Un fascista toglie la paglietta al commissario facendola cadere a terra ed il commissario estrae la rivoltella facendo fuoco a bruciapelo sulla folla uccidendo il fascista Carpigiani Umberto del Fascio di Modena. E ferendo gravemente al torace l’On. Vicini, che cade gridando “viva l’Italia”. Un urlo di indignazione si alzò dalla folla mentre una scarica partiva dai moschetti imbracciati dalle guardie regie. Così cadevano a terra altri morti….La commissione di inchiesta provò che la forza pubblica aprì il fuoco senza alcun preavviso e senza alcuna necessità”.  

Il 29 Settembre si svolsero i funerali dei caduti con una grandiosa partecipazione di folla. Ventimila persone e cinquecento gagliardetti si inchinarono al cospetto delle bare. Benito Mussolini tenne in Piazza S. Agostino l’orazione funebre che così concludeva:

“….Salvete, morti dilettissimi. Noi non vi dimenticheremo. I Vostri nomi rimarranno scolpiti nel nostro cuore profondo. Finchè un solo fascista vi sarà in Italia, egli trarrà da Voi l’esempio e l’auspicio. Verrà giorno in cui il nostro esercito invitto e invincibile strapperà la definitiva vittoria. Allora, o fratelli di Modena, o fratelli caduti in altre città, un fremito improvviso farà sussultare i vostri resti immortali. Converremo allora alle vostre tombe di precursori e di avanguardie, a sciogliere il voto della riconoscenza e della fede. In nome dei cinquecentomila fascisti d’Italia vi porgo l’estremo addio”.

I Caduti furono

Bosi Ezio,  Era il Segretario politico del Fascio di San Cesario s.P.. Aveva combattuto della grande guerra ed aveva ventidue anni. Faceva parte del Consiglio Provinciale dei sindacati economici.

Carpigiani Umberto Era iscritto al Partito Fascista di Modena: non aveva ancora compiuto i diciotto anni.

Gallini Gioacchino Ex Tenente degli alpini era Segretario politico del Fascio di Mirandola: Fù tra i primi assertori del Fascismo nelle zone della bassa. Aveva ventiquattro anni.

Garuti Tullio Era uno studente di venti anni iscritto al Fascio modenese. Morì alcuni giorni dopo i fatti del 26 Settembre.

Micheli Giovanni Ufficiale di Artiglieria era iscritto al Fascio di San Cesario sul Panaro. Era un fascista attivo ed appassionato e dedicò tutta la sua vita alla famiglia ed alla Patria.

Sanley Aurelio Era il Segretario politico del Fascio di Vignola, aveva vent,anni e apparteneva ad una nota famiglia vignolese. notevole era il suo ascendente tra i fascisti della zona.

Sinigaglia Duilio Aveva ventisei anni e apparteneva al Fascio modenese e comandante delle squadre d'azione. Ex Tenente degli Arditi ed ex legionario fiumano.

Zulato Attilio Apparteneva al Fascio di Modena, studente era un ragazzo buono e dedicava al partito tutte le ore libere dallo studio. Morì con sulle labbra le parole" Italia e mamma" 

 Anche il 1922 inizia con tensione e incidenti un po’ ovunque. Il Fascismo modenese, che in breve tempo si era fortemente consolidato, comincia a rintuzzare colpo su colpo a tutte le intemperanze; in tutta la Provincia  si andavano costituendo le sezioni di Partito ma in modo particolare si era affermato nel carpigiano tanto che l”Avanti” del 31 Marzo 1922 scriveva che “Carpi è, come si sa la roccaforte del del fascismo modenese, anzi la sua fama ha oltrepassato da gran tempo i confini della Provincia ed è diventata nazionale.” I Fascisti carpigiani furono definiti dal giornale socialista “superfascisti.

 Il 28 Ottobre oltre 2550 modenesi parteciparono alla Marcia su Roma; Modena fù la città, tra tutte le città italiane che ebbe, percentualmente, la più alta presenza di intervenuti a quell’evento.

 In un altro articolo si parlerà dell’inizio e del consolidamento del regime nella nostra città.

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L'equilibrio del pianeta passa per la Cina

Dalla Rivista di Studi Geopolitici EURASIA

:::: 12 Gennaio 2006 :::: 6:54 T.U. :::: Editoriali :::: Tiberio Graziani

La Cina rappresenta il centro di gravità della massa asiatica d’oriente. Tutte le questioni relative all’equilibrio mondiale trovano la loro risposta a Pechino. La Cina è inattaccabile.
Jordis von Lohausen


Ciò che della Cina maggiormente impressiona e stupisce l’osservatore esterno sono principalmente la sua dimensione umana (attualmente circa un quinto dell’intera popolazione mondiale è costituita da etnie cinesi) e la grande capacità dei governi che si sono succeduti, nel corso della sua lunghissima storia, a organizzarla. Inoltre, dal particolare punto di vista geopolitico, grande stupore desta certamente la fermezza delle classi dirigenti a perseguire l’unità dello spazio vitale cinese. Secondo il geopolitico francese Defarges (1) l’unità politica della Cina evoca la fatica di Sisifo: appena l’unità è realizzata, subito essa subisce tentativi di frammentazione. Le continue ricostruzioni della grande muraglia ne costituiscono una prova.

Oggi, nell’epoca della frammentazione della massa continentale eurasiatica in piccoli stati dall’incerta sovranità, la Cina, con 11.000 chilometri di coste e 15.000 chilometri di frontiere terrestri, copre 9.560.000 chilometri quadrati della superficie terrestre (2), ed è una nazione-continente difficile da governare e mantenere unita, in special modo da quando sono aumentate, al suo interno, con l’introduzione del “socialismo di mercato”, le tensioni tra la zona continentale, ancora agricola e poco industrializzata, e quella costiera, economicamente più avanzata e progressivamente sempre più interdipendente dall’economia mondiale.
La massima espansione territoriale della Cina, dovuta principalmente ad una forte crescita demografica, si è compiuta tra la fine del XVII secolo e nel corso del secolo successivo. In quel periodo, la Terra di Mezzo, governata dalla dinastia Manciù, comprendeva il Tibet e la Siberia meridionale e copriva una superficie di circa 12.000.000 di chilometri quadrati; tale estensione era stata accompagnata, a scopo protettivo, da una intelligente azione di vassallaggio della periferia che aveva coinvolto, in particolare, la Corea, la Birmania e il Nepal.
All’inizio del XIX secolo lo stato cinese, non riuscendo a far fronte al rilevante problema interno della crescita demografica (3) ed alla pressione delle potenze europee (principalmente Russia, Inghilterra, Francia), è costretto a cedere gran parte del proprio territorio alla Russia e vaste enclaves all’Inghilterra (Hong Kong) e alla Germania (Shangtun); inoltre deve fare importanti concessioni agli Europei riguardo ai suoi centri più importanti e produttivi, come Shangai, Tianjin e Canton. Sostanzialmente gli Europei, in poco più di cinque decenni, dal 1842 al 1895, si appropriano della intera zona costiera della Cina ed estendono la loro influenza all’importante bacino dello Yangtze. L’azione espansiva del colonialismo europeo viene scandita dalle date dei Trattati di Nanchino nel 1842, di Tianjin nel 1858, dalla Convenzione di Pechino nel 1860 ed infine dal Trattato Shimonoseki nel 1895.
Con l’imposizione di tali trattati, passati alla storia come “trattati ineguali”, la Russia e le potenze occidentali riuscirono ad assicurarsi consistenti privilegi commerciali e territoriali nell’Asia orientale, senza peraltro concedere in cambio alcuna contropartita. Le potenze europee ottennero infatti che fossero aperti al commercio, incluso quello dell’oppio, molti porti, alla sovranità sui quali la Cina fu costretta a rinunciare; imposero, inoltre, l’esenzione fiscale per le proprie merci e l’extraterritorialità per i propri cittadini, che potevano circolare liberamente sul territorio cinese e acquisirvi proprietà, senza tuttavia sottostare alle leggi cinesi. Nello stesso arco di tempo, il Tibet fu posto sotto il controllo dell’Inghilterra, la Manciuria sotto quello della Russia, mentre la Francia estese la propria influenza nel sud della Cina, in particolare nelle regioni dello Yunan, del Guangxi e del Guangdong. Sempre sul finire del secolo, il fragile modus vivendi - instaurato tra la Cina e le potenze europee a prezzo di consistenti amputazioni territoriali e perdita della effettiva sovranità dello stato cinese su importanti snodi commerciali e strategici - viene perturbato dall’emergente Giappone, che, annettendosi la Corea ed estorcendo all’ormai debole Impero cinese Taiwan, le isole Pescadores e la penisola Liaotung in Manciuria (3), si appresta ad essere l’unico interlocutore nonché potenziale antagonista delle potenze occidentali e della Russia nello scacchiere orientale.

Per tutta la prima metà del XX secolo, la Cina, diventata repubblica nel 1912, sarà quindi un grande campo di battaglia in cui si affronteranno Giapponesi, nazionalisti del Kuomitang e comunisti cinesi. Con il termine del secondo conflitto mondiale e la vittoria di Mao Tsetung sui nazionalisti (1949), l’unità della Cina viene parzialmente ristabilita ed è quindi recuperata, dopo oltre un secolo, la sovranità dello Stato su gran parte di quello che era stato l’Impero di Mezzo. Tale nuova situazione geopolitica, dovuta alla fermezza del Grande Timoniere nel perseguire l’unificazione della Cina continentale e costiera (con l’esclusione del Tibet, della regione Yunan, che verranno inglobati più tardi, di Taiwan e Hong Kong, che tuttavia la giovane repubblica popolare considerava parte integrante della nazione), non era stata presa in considerazione dagli Stati Uniti e dall’URSS, che intendevano adottare, in coerenza con il costituendo assetto bipolare, anche per il territorio cinese, lo schema tedesco e coreano, vale a dire la creazione di una Cina comunista a nord, facilmente controllata dall’URSS, e di una Cina nazionalista, filoccidentale, a sud, comprensiva del litorale e delle principali isole cinesi.
Grazie alla lungimiranza di Mao Tsetung, che rimase sordo agli inviti di Stalin ad arrestarsi allo Yangtse Kiang, onde facilitargli una satellizzazione della Cina comunista e permettergli, in futuro, la spartizione del bottino cinese con i Giapponesi (trattato di neutralità nippo-sovietico del 1941) oppure con gli alleati “capitalisti”, la Cina riacquistò faticosamente il proprio peso nell’intera area asiatica.

La visione geopolitica della Cina di Mao nel contesto dell’accerchiamento russo-americano

Come più sopra ricordato, Mao Tse Tung, già ben prima della seconda guerra mondiale si era rifiutato di svolgere il ruolo di sentinella alle frontiere della Russia (5) ed anzi aveva mostrato che intendeva difendere la propria visione geopolitica nella conquista dell’intera Cina e nella lotta contro il Giappone. Infatti, una volta ricostituita l’integrità della nazione, la nuova Cina si preoccupò di partecipare alla guerra di Corea ed al sostegno dei partigiani indocinesi contro la Francia, con l’evidente duplice scopo di far pesare la propria presenza in seno al “campo socialista”, egemonizzato dall’URSS, e di costituire una propria rete di paesi satelliti che facessero da pendant a quelli “sovietizzati” dell’Europa orientale.
Il tentativo di costituire una rete di propri satelliti, la partecipazione al movimento dei Paesi non allineati (1955), la guerra con l’India (1962-1963) e gli incidenti sull’Ussuri (1969) si inseriscono nella prospettiva geopolitica cinese di spezzare il doppio accerchiamento strategico dell’URSS e degli USA, i quali, con i loro rispettivi alleati (Mongolia, Vietnam e India da una parte, e Giappone, Corea del sud, Thailandia e Taiwan dall’altra), isolano di fatto la Repubblica Popolare Cinese.
Se per gli USA l’isolamento della Cina significava allontanarla dall’URSS (spezzare il “campo socialista” e contenere il cosiddetto “effetto domino comunista” nello scacchiere orientale, come scriveva la pubblicistica occidentalista del tempo) e soprattutto mantenere tensioni all’interno della massa eurasiatica, onde facilitare la propria penetrazione economica, militare e politica, per l’Unione Sovietica esso si rivelò una pessima mossa strategica; infatti, nel volgere di neanche tre anni dagli incidenti sull’Ussuri, assistiamo al passaggio della Cina nel dispositivo geopolitico statunitense approntato da Kissinger e Nixon (1972): l’asse Washington–Islamabad–Pechino, un dispositivo che riconfermava la volontà espansionistica statunitense in Asia e il vero obiettivo geopolitico di Washington: la conquista dell’heartland eurasiatico, cioè della Russia.
Le due principali potenze eurasiatiche, la Cina e l’Unione Sovietica, non avendo ben compreso la strategia talassocratica degli USA, ne subiscono l’iniziativa per tutti gli anni Settanta ed Ottanta, mentre, nello stesso periodo devono fronteggiare importanti problemi interni di ordine economico-sociale; la Cina inizierà, defunto Mao, la “lunga marcia” verso il “socialismo di mercato” (6), mentre l’Unione Sovietica attraverserà con grandi difficoltà la stagnazione del periodo di Breznev e la destabilizzante perestrojka di Gorbaciov. Mosca, inoltre, si invischierà nel conflitto afgano.

Gli effetti dell’introduzione del socialismo di mercato

La lunga marcia verso il “socialismo di mercato”, iniziata dal presidente cinese Deng Xiaoping con l’introduzione delle riforme economiche del 1978-79, influenza la politica estera cinese che a partire da quella data comincia a praticare forme di distensione verso il Giappone e l’India. Il processo di apertura economica influenza anche la geopolitica interna della Cina, la quale, facendo leva sullo sviluppo della zona costiera, dove in via sperimentale Pechino ha istituito le “Zone economiche speciali”, sembra tornare ad una dimensione marittima. La Cina costiera, osservano A. Chauprade e F. Thual, “sfuggì alla rigidità della pianificazione sovieto-maoista e avviò, per la via portuale, proprio là dove circa cento anni prima era iniziato lo spezzettamento della Cina, il ritorno al mondo capitalista” (7). Come rilevano diversi osservatori (8), lo sviluppo economico costiero, diretto dal governo centrale e dalle imprese straniere (principalmente giapponesi, americane, australiane, coreane, europee e taiwanesi), ha determinato uno squilibrio interno della Cina, attirando decine di milioni di Cinesi e creando in pochi anni una tensione tra una “Cina della crescita”, marittima, ed una “Cina del sottosviluppo”, interna o continentale. Si prevede che tale fenomeno, progressivamente aumentato nel corso degli anni, e particolarmente accelerato a partire dall’entrata della Repubblica Popolare Cinese nell’Organizzazione del Commercio Mondiale, avvenuta nel novembre del 2001 con la firma dell’accordo di Doha, sia destinato, nel prossimo futuro, a sollevare problemi al governo centrale, specie se ad esso si collegheranno altre irrisolte questioni endogene che interessano alcune regioni periferiche, come il Tibet e lo Xinjiang.

Il sistema unipolare e la Cina

L’emergere della Cina come potenza regionale in forte espansione economica ha iniziato a destare serie preoccupazioni all’amministrazione americana verso la fine del 1999 (9). Fino ad allora, gli USA avevano adottato verso Pechino, considerata un “partner strategico”, una politica di engagement (coinvolgimento in campo economico e tecnologico). Secondo alcuni osservatori della Rand Corporation (10), tale dottrina aveva tre principali difetti: a) l’engagement non aveva impedito la produzione cinese di armi chimiche e biologiche né fermato la fornitura di missili cinesi al Pakistan ed all’Iran; b) non offriva basi per rispondere adeguatamente a “cattivi” comportamenti cinesi; c) si basava sull’assunzione, non verificata, che gli aiuti offerti per il suo sviluppo economico e tecnologico avrebbero indotto la Cina a comportamenti cooperativi. Per l’interesse della nazione americana occorreva, secondo gli analisti della Rand Corporation, assumere un’altra politica, che avrebbe dovuto ad un tempo contenere militarmente la Cina e coinvolgerla economicamente nel sistema economico mondiale. Questa nuova strategia da adottare verso la Cina venne battezzata col termine di congagement (containment engagement) (11). Secondo uno dei suoi ideatori, Zalmay Khalilzad, il congagement incorporava “un approccio flessibile durante il periodo della grande transizione cinese”. “Se - scriveva Z. Khalilzad – la Cina sceglie di cooperare con l’attuale sistema internazionale e diventa progressivamente democratica, questa politica (di congagement) evolverà in un reciproco partenariato. Se la Cina diventa una potenza ostile interessata all’egemonia regionale, la nostra posizione si volgerà nel contenimento” (12).
Tale dottrina, per la quale la Cina non è più un “partner strategico” bensì un “competitore strategico”, venne presentata, come noto, da Condoleeza Rice, nell’articolo Promoting the National Interest (13), scritto in occasione della campagna elettorale del 2000, e adottata successivamente dalla presidenza Bush. È proprio nel contesto del congagement che vanno considerati i rapporti tra Cina e USA di questi ultimi cinque anni, caratterizzati da momenti di aperto contrasto alternati a momenti di cooperazione.
La politica statunitense della carota dell’engagement e del bastone del containment dovrà tenere a mente però il celebre ammonimento maoista che recitava press’a poco così: “alla politica della carota occorrerà rispondere con la politica della carota, a quella del bastone con quella del bastone”.
Inoltre gli strateghi dell’iperpotenza americana farebbero bene a riflettere su quanto scriveva il generale Jordis Heinrich von Lohausen a proposito della Cina: “I tentativi di intrusione economica o militare – la sua estensione è troppo vasta – non possono nulla contro di essa. Essa è di un’altra razza e di una cultura antica, di gran lunga più antica. La Cina ha accumulato tutta l’esperienza della storia mondiale e resiste ad ogni trasformazione. La Cina è inattaccabile” (14). La crescita economica della Cina non deve dunque intimorire i popoli europei; essa si appresta, insieme a Russia e India, ad essere uno dei pilastri dell’auspicabile futuro multipolare e, soprattutto, il suo punto di equilibrio.

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Note

1. Philippe Moreau Defarges, Dictionnaire de géopolitique, Editions Dalloz, Armand Colin, Paris, 2002, p.35.
2. La Cina si trova, nella classifica per estensione territoriale mondiale, al terzo posto, dopo il Canada (9.970.610 kmq) e la Federazione russa (17.075.400 kmq). (fonte Calendario Atlante De Agostini, Istituto Geografico De Agostani, Novara, 2004).
3. John King Fairbanks, Storia della Cina contemporanea, Rizzoli, Milano, 1988, p. 86 e seguenti.
4. La prima guerra sino-giapponese, 1894-1895, detta anche guerra Jiawu, dal nome dell'anno cinese in cui si svolse, per distinguerla da quella del 1937-1945, fu combattuta principalmente per il dominio sulla Corea, che, per la sua particolare posizione geostrategica, veniva da Tokyo considerata una testa di ponte in direzione del continente asiatico.
5. A tal riguardo si leggano le due Direttive interne per il Partito redatte da Mao Tsetung a nome del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese: La situazione dopo la vittoria sulla seconda campagna anticomunista (18 marzo 1941) e Bilancio della vittoria sulla seconda campagna anticomunista (8 maggio 1941), nelle quali Mao Tsetung insiste sulla necessità di continuare la guerra di resistenza nonostante l’Unione Sovietica avesse firmato con il Giappone, il 13 aprile 1941, il patto di neutralità. Il patto “consolidò la pace sulla frontiera orientale dell’URSS, sventò il complotto della Germania, dell’Italia e del Giappone per un attacco congiunto contro l’Unione Sovietica, e rappresentò una grande vittoria della politica estera di pace dell’Unione Sovietica”. (Mao Tsetung, Opere Scelte, vol. II, Casa editrice in lingue estere, Pechino, 1971, p. 481-491).
6. “Il socialismo di libero mercato è un ibrido ideologico, giustificato da Pechino con la considerazione che alcuni strumenti economici, a lungo etichettati come capitalisti, sono in realtà neutri e possono essere impiegati per favorire la crescita economica. Socialismo e libero mercato non sono in contraddizione , perché il mercato non porta necessariamente al capitalismo e anche nelle economie capitaliste vi sono forme di pianificazione economica”. (Maria Weber, Il dragone e l’aquila. Cina e USA. La vera sfida, Università Bocconi editore, Milano, 2005, pp. XII-XIII).
7. Aymeric Chauprade, François Thual, Dictionnaire de géopolitique, Ellipses, Paris, 1999, p. 97.
8. Philippe Moreau Defarges, op. cit. e Aymeric Chauprade, François Thual, op.cit.
9. Nel 1999 le relazioni tra Cina e USA si deteriorarono in seguito a due distinti episodi: l’accusa alla Cina di aver sottratto secreti militari americani (U.S. National Security and Military/Commercial Concerns with the People’s Republic of China, Select Committee, U.S. House of Representative, Re. Cristopher Cox, Chairman, U.S. Government Printing Office, Washington, DC, 1999), e la questione del bombardamento dell’ambasciata cinese di Belgrado del maggio 1999.
10. Think tank proposes shift in Clinton’s China policy, in “Asian Political News”, 13 settembte, 1999.
11. Zalmay Khalilzad et al., The United States ad a Rising China: Strategic and Military Implication, Rand Corporation, Santa Monica, 1999.
12. Zalmay Khalilzad, Congage China, IP-187, Rand Corporation, Santa Monica, 1999. Zalmay Khalilzad, attualmente ricopre la carica di Ambasciatore straordinario e plenipotenziario degli USA in Iraq, è stato Ambasciatore in Afghanistan (2003-2005) e consigliere del Segretario alla Difesa, Rumsfeld. All’epoca della definizione della strategia del congagement dirigeva il programma “Strategy, Doctrine and Force Structure”, nell’ambito del progetto Air Force della Rand Corporation.
13. Condoleeza Rice, Promoting the National Interest, “Foreign Affairs”, vol. 79, no. 1, January-February 2000, pp.45-62.
14. Jordis von Lohausen, Mut zur Macht. Denken in Kontinenten, Kurt Vowinckel, Berg am See, 1981.

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Quella Tragica notte del 43 a Ferrara

E la presenza dei modenesi Pagliani e Vezzalini

  (di Bruno Zucchini)

Uno degli episodi più rilevanti della lotta politica nell'Italia del Nord, durante il periodo della guerra civile e che portò ad una vera e propria svolta nello scontro tra fascisti e partigiani, fu quello dell'uccisione del Federale di Ferrara, Iginio Ghisellini, messo in atto dai gappisti comunisti di Bologna e dove troviamo coinvolti, nei fatti successivi, noti esponenti del fascismo modenese. Avvenne il 14 Novembre 1943 nella città estense.

Questa azione, che i comunisti tentarono di accreditare, per un lunghissimo periodo, agli stessi fascisti, (tesi sostenuta ad esempio nel film "La lunga notte del "43" (2); in un giornale clandestino dell'epoca, era stato rivendicato dai gap comunisti.(3)

La reazione fascista a questo spietato assassinio fu indubbiamente eccessiva e costituì la prima vittoria comunista nell'attuazione della strategia della guerra civile. I comunisti, con questa proditoria uccisione del federale di una delle città italiane che aveva dato una massiccia adesione al nuovo fascismo repubblicano, riuscirono a mettere in crisi la nuova classe politica che cominciava, a distanza di solo due mesi dalla tragedia dell' 8 Settembre, a darsi una fisionomia ben definita. La maggioranza del popolo italiano, e in particolar modo quello della città di Ferrara, seguiva con interesse e partecipazione la nuova formula del fascismo mussoliniano con la speranza di vedere, almeno in buona parte, rintuzzata la prepotenza e la rabbia tedesca che era stata duramente colpita dal tradimento della cricca del maresciallo Badoglio.

Bisognava pertanto togliere credibilità a questi uomini, facendo scattare la molla dell'irrazionalità della vendetta e della ritorsione spietata. A Ferrara, i fascisti caddero in questo tranello; vi fu una reazione eccessiva che gettò nel lutto la città estense e tutta la valle padana e si ritorse, in certo qual modo, contro gli stessi fascisti; undici cittadini ferraresi, forse antifascisti, ma in ogni caso estranei alla morte del Ghisellini, caddero fucilati nel centro della città ai piedi del castello degli Estensi.

A quei tempi però, il clima politico era già diventato particolarmente arroventato a causa della strategia della violenza e delle uccisioni attuata dal PCI, e la tensione dei fascisti aveva raggiunto notevoli punte di esasperazione e di rabbia repressa. Sotto la spinta del Partito Comunista e con la compiacenza dei comandi anglo-americani, in molte zone del Nord Italia si erano verificati gravissimi fatti di sangue ai danni delle forze del nuovo esercito repubblicano: molti fascisti erano stati vilmente assassinati in agguati ed imboscate. Solamente negli ultimi giorni erano stati uccisi, il 6 Novembre, quattro fascisti a Medicina (Bologna), altri quattro erano stati uccisi dai gappisti toscani a San Godenzo (Firenze) il giorno 7 Novembre, mentre il giorno 9 due fascisti erano stati vilmente assassinati a Sesto Fiorentino.(4)

Non dimentichiamoci inoltre come e da chi era stata voluta la lotta tra fratelli. I rastrellamenti tedeschi e fascisti, in realtà, più che rendere un contributo sostanziale all’eliminazione del "fenomeno" banditismo, servivano più a terrorizzare le popolazioni e a portare acqua al mulino della campagna dell'odio che i partigiani comunisti alimentavano a più non posso e che loro stessi cercavano di provocare artatamente con un cinismo programmatico attraverso attentati ed uccisioni indiscriminate, onde ottenere questi effetti.

Conferma questo il partigiano ex fascista, giornalista e storiografo della Resistenza, Giorgio Bocca che, in un suo articolo, parlando dell’aspetto del terrorismo degli anni settanta-ottanta, così scriveva:

"…Il secondo argomento su cui invito a riflettere è quello riassunto da una parola che per noi conserva un significato di angoscia e di paura: rastrellamento. Voglio dire il criterio a cui starebbero approdando alcuni organi di polizia e di indagine giudiziaria: pescare a mucchio negli ambienti sospetti, sia a sinistra che a destra, così come il rastrellamento arrestava in massa quando incontrava nelle zone perlustrate, e poi vedere se nel mucchio è capitato qualche terrorista vero.

Come ex partigiano e storico della guerra partigiana vorrei ricordare a chi riscopre oggi questa tecnica, che l'unico risultato dei rastrellamenti è stato di aumentare il numero dei partigiani e dei loro simpatizzanti ( ci fu anzi un terrorismo partigiano e rivoluzionario che aveva per compito precipuo o complementare, proprio quello di provocare rastrellamenti, di coinvolgere il maggior numero di persone).

Il che non significa che io intendo equiparare i partigiani di allora ai terroristi di oggi; intendo solo sottolineare dei rapporti di causa ed effetto."

 

Ma di questa realtà, che traspare appena tra le righe di pochi storiografi partigiani o di ex partigiani veri se ne è poco parlato e l'opinione pubblica non ne è per nulla a conoscenza. E' stato molto più facile a tutti i "pennivendoli di regime" di questi sessanta anni, servire la verità del padrone, descrivendo episodi gonfiati, facendo apparire ciò che non è stato, nascondendo le verità e pertanto facendo credere alle nuove generazioni che la partecipazione alla lotta partigiana ebbe un adesione pressoché totale della popolazione e che, quei pochi, pochissimi che si erano legati al nazifascismo non erano altro che dei venduti, dei violenti o dei corrotti e alcuni altri, rarissimi, erano solamente accecati da "ingenua fede".

Tutto questo è stato volutamente falsato poiché la realtà di quel periodo è stata ben diversa. Furono centinaia di migliaia, i giovani "accecati", che aderirono al fascismo repubblicano e tra essi la maggioranza era composta da volontari, che portarono, in quella terribile lotta, che a molti poteva sembrare illusoria ed impossibile, la loro disperata ed adamantina fede in quanto non si può essere ciechi, o corrotti, o ignavi, quando si combatte e si va’ a morire per un ideale che altro non era che ideale di Patria e di libertà dai vari eserciti stranieri che calpestavano il suolo italiano.

Ed erano di gran lunga superiori, come numero, a quelli che avevano scelto la strada della montagna.

E' giunto il tempo di sfatare certi luoghi comuni e vedere la storia di quegli anni, senza acredine e senza desideri di vendette, nelle giuste proporzioni, per una migliore conoscenza del proprio passato e delle proprie origini; per una vera opera educativa in termini storici.

 

In questo giorno a Verona si stavano svolgendo i lavori del Primo Congresso Nazionale del P.F.R. da dove ne doveva uscire il nuovo programma della RSI, condensato nello storico documento dei "18 punti di Verona".(5)

Nel primo pomeriggio arrivò da Ferrara una delegazione di fascisti che portò la notizia ai congressisti, del tragico attentato al federale della città che si era dimostrata, sino a quel momento, una tra le più vicine al nuovo fascismo repubblicano, dove si era superato il traguardo dei quindicimila iscritti e dove diecimila giovani volontari avevano aderito entusiasticamente alle forze armate della RSI.

E' ormai arcinoto cosa accadde quando i fascisti radunati a Castelvecchio seppero dell'assassinio. Vi fu, innanzitutto, una commozione generale ed un desiderio immediato di vendetta. Alessandro Pavolini riuscì a placare gli animi informando l'Assemblea che sarebbero partite per Ferrara le squadre di Verona e di Padova; tra i comandanti partirono per la città estense anche i due modenesi, Prof. Franz Pagliani e il console Enrico Vezzalini, considerato uno degli uomini più responsabili ed equilibrati e nello stesso tempo più decisi del nuovo fascismo repubblicano.

Le squadre arrivarono nella città estense nel tardo pomeriggio dove già regnava una tensione incredibile e dove moltissimi antifascisti erano stati arrestati; si temeva un vero e proprio massacro. Un primo tribunale speciale si era arrogato il diritto di giustiziare trentasette antifascisti ferraresi. Pagliani e Vezzalini, che verrà fucilato al termine della guerra ed al quale era stata attribuita, ingiustamente, l'intera responsabilità della rappresaglia, intimarono alle squadre che avevano emesso tali condanne, di non commettere tragici errori.

Ma gli interventi dei due modenesi non riuscirono a placare gli animi e a nulla valse anche l'intervento dei capi della Federazione ferrarese che non volevano macchiarsi del sangue dei loro concittadini. La rabbia ed il desiderio inconsulto di una rapida vendetta esplose ugualmente con l'uccisione di undici ostaggi, tutti componenti non comunisti del CLN ferrarese che avevano, poco tempo prima, accettato la proposta del federale Ghisellini che voleva evitare, attraverso particolari accordi, alla città di Ferrara gli orrori della guerra civile.

Questa rappresaglia, che Mussolini stesso giudicò un "atto stupido e brutale", suscitò una vasta eco nelle popolazioni di tutta l'Emilia e Romagna, portando notevoli possibilità di sfruttamento alla propaganda comunista, creando, anche nella componente fascista, contraria ad ogni forma di ritorsione violenta, perplessità e dubbi angosciosi.

 

La grancassa resistenziale, comunisti in testa, dal momento dell'uccisione di Ghisellini sino ai giorni nostri, ha costruito e via via gonfiato il grosso falso che ad uccidere il Federale di Ferrara fossero stati gli stessi fascisti, i duri, quelli che non avevano visto di buon occhio l'accordo con il CLN. Questa tesi, assurda, ma molto ben orchestrata era stata praticamente accettata dall'opinione pubblica e le poche voci che cercavano di raccontare la pura verità venivano continuamente tacciate di mendacio e di faziosità.

Il patto di non arrivare allo scontro tra CLN e fascisti, stipulato tra il Ghisellini e molti di quegli antifascisti che verranno poi fucilati in quella tragica notte del "43, non era gradito ai comunisti che organizzarono l'attentato con diabolica strategia e con altrettanto diabolica strategia riuscirono a portare avanti per oltre quaranta anni la falsa versione.

Ma in questi ultimi tempi si è squarciato il velo di omertà che teneva nascosta la verità su questo episodio e finalmente gli autori di quell'attentato criminale hanno rivelato, in parte, i nominativi e le modalità di come si svolsero i fatti; il tutto ad attestare che ciò che era stato dichiarato dalla parte fascista era la pura verità. L'operazione dunque, venne voluta dalla componente comunista del CLN ferrarese, la quale, contrariamente agli esponenti degli altri partiti che si erano dichiarati disposti ad accettare il "patto di non aggressione", si era collocata nella più intransigente clandestinità e nella conduzione di una lotta spietata contro i fascisti. Così, come in tante altre parti d'Italia, era opportuno creare un incidente che avrebbe determinato la reazione fascista. Miglior bersaglio e anche facile, non poteva essere che il maggior esponente del fascismo repubblicano della città di Ferrara.

L'operazione Ghisellini, venne studiata ed eseguita in perfetto accordo tra la segreteria del PCI di Ferrara e i dirigenti regionali di Bologna:

"L'attentato fu deciso a Bologna. Mario Pelosi incaricò dell'azione S. al quale aveva dato appuntamento nei pressi di Porta Saragozza il giorno 13 Novembre(6)

Ed ecco come viene rivendicata dai comunisti l'uccisione del Federale di Ferrara:

"Il gerarca fu infatti giustiziato dai partigiani e non ucciso dagli stessi fascisti in dissenso con lui. L'attentato fu preparato accuratamente da Mario Peloni che potè contare su tre compagni dopo aver discusso a fondo con loro sulla opportunità e sul significato esemplare dell'azione.....Il federale Ghisellini era stato seguito più volte quando di sera ritornava a Casumaro per conoscerne orari, itinerari ed abitudini. Quella notte tre compagni bloccarono l'auto lungo la strada uno solo sparò e uccise il Ghisellini. Poi auto e cadavere furono portati a Castel d'Argile per sviare le indagini. L'attentato avvenne alla periferia della città si può dire a poche centinaia di metri dalla federazione fascista."(7)

 

Ma vediamo chi erano i due rappresentanti del Fascismo modenese che si trovarono, loro malgrado coinvolti nei fatti di Ferrara.

 

 Il Prof. Franz Pagliani è nato a Concordia nel 1904; è stato Segretario dei Guf di Bologna e Federale di Modena. Laureato in medicina e chirurgia, divenne direttore dell'Istituto di Patologia Chirurgica dell'Università di Bologna; volontario di guerra; al  25 Luglio era vice-segretario dei Guf (Giovani Universitari Fascisti). Venne arrestato e condannato dal Tribunale Militare a tre anni di reclusione per ricostituzione del P.N.F.; farà parte dei giudici al Tribunale di Verona. A guerra conclusa scontò un lungo periodo di detenzione. Scarcerato, ha esercitato per lunghissimi anni la professione di chirurgo all'Ospedale di Perugia.

  Di un episodio, in questi primi tempi della RSI, il Pagliani è stato protagonista a Modena. Alcuni professori della facoltà di Medicina dell'Università modenese, sottoscrissero, nel periodo badogliano, un documento nel quale si plaudiva la fine del Regime. Da notare che quasi tutti i firmatari erano docenti Universitari durante il Fascismo ed avevano prestato il giuramento al Governo di Mussolini. La Gazzetta dell'Emilia, dopo l'8 Settembre, per la voce del direttore, Cacciari, si scatenò con violenti articoli contro costoro e, alcuni tra i più estremisti del nuovo Fascismo Repubblicano, ottennero dei mandati di cattura per alcuni di questi docenti i quali si rivolsero al loro collega Franz Pagliani affinché intercedesse per loro. Questi fece in modo che il fatto fosse esaminato sotto il profilo interno universitario e non politico, per cui, tutti i professori vennero rilasciati e del fatto non se ne parlò più.

 

L’Avv. Enrico Vezzalini fu uno degli esponenti più noti del Fascismo Repubblicano modenese e nazionale. Prese parte al Processo di Verona tra i giurati che condannarono, nel Gennaio 1944, Ciano e gli altri componenti del Gran Consiglio che il 25 Luglio aveva destituito Benito Mussolini. Fu inoltre Ufficiale Comandante di formazioni di BB.NN.; Ispettore generale presso il Ministero degli Interni, Capo della Provincia di Ferrara dopo l'episodio Ghisellini e della irrazionale rappresaglia che avvenne in quella città e della quale anche il Vezzalini venne accusato. Venne poi inviato negli ultimi mesi del 1944 a reggere la Provincia di Novara, zona particolarmente difficile, dato che vi operavano parecchie formazioni partigiane. Fu anche combattente della guerra di Spagna, ove si meritò tre medaglie d'argento.

Al momento del crollo, con i suoi reparti cercò di arrivare nel progettato ridotto della Valtellina e fu, il suo, uno dei pochi reparti che arrivò sino a Menaggio (Como). Venne arrestato il 28 Aprile e processato a Novara il 14-15 Giugno, senza aver avuto la possibilità di una difesa regolare.

Si ricorda anche un particolare che avvicina il Vezzalini ai grandi condannati politici di ogni tempo.

"Durante il lungo periodo intercorso fra condanna ed esecuzione gli è stata offerta la fuga dal carcere: poiché tale offerta non poteva essere estesa agli altri sei condannati con lui, la respinse con le parole: 'o tutti o nessuno".

 

A Novara dopo un processo, condotto dall'allora giovane magistrato Oscar Luigi Scalfaro, ex Presidente della Repubblica, viene condannato a morte. Aveva quarantuno anni.

 

Note

2  film degli anni "60 diretto dal regista Florestano Vancini.

3  cfr. Unità del 15 Dicembre 1943 e la rivista "la nostra lotta" con articolo di E. Curiel del 1944.

4  cfr. G. Pisanò : "Storia della Guerra Civile in Italia"

5  cfr. G. Pisanò op. cit.

6  cfr. quaderni del settimanale comunista bolognese :"la lotta"

7  cfr. S. Ghedini: "uno dei centomila"; il Ghedini dirigente comunista, comandante partigiano fu anche Sindaco di Ferrara. Il tutto tratto da una inchiesta pubblicata sul quotidiano "Il Resto del Carlino", a firma Bruno Traversari, del 14,19,28 Novembre 1983.

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Foibe. Fu l'Italia fascista a scatenare la pulizia etnica        (Come la vedono i Comunisti)

www.dilloadalice.it n.92 del 15/02/2006)

Non sorprende che le esigenze strumentali di reciproca legittimazione portino anche Fassino ad impegnarsi nella litania revisionista sulle Foibe cercando in questo il conforto di Fini.

Preoccupa però vedere che anche le massime autorità dello Stato stiano contribuendo ad una grave opera di distorsione della memoria storica nazionale. E' giusto che gli italiani ricordino le Foibe, e mai i comunisti italiani hanno negato questi tragici episodi, condannando senza esitazioni queste forme barbare di violenza post-bellica che hanno colpito anche molti innocenti.

Ciò che denunciamo è il fatto che oggi quando si parla di Foibe si rimuove completamente il ricordo dei fenomeni che hanno provocato quel dramma. Si rimuove il fatto che è stata l'Italia fascista pianificare la pulizia etnica del confine orientale scatenando un piano scientifico di violenza razzista contro le popolazioni slave. Decine di migliaia di uomini e di donne sono state uccise, torturate, violentate solo per il fatto di parlare una lingua che non fosse l'italiano.

Paesi interi sono stati bruciati dai fascisti ma anche dalle forze armate italiane. Ed infine Mussolini ha regalato Trieste al Terzo Reich, divenendo così complice della costruzione del campo di sterminio della Risiera di San Sabba.

La storia non può essere condivisa se non si chiarisce sempre chi sono state le vittime e chi i carnefici. Se non lo si fa si rischia di scatenare di nuovo il nazionalismo ed il razzismo da entrambe le parti del nostro confine.

Jacopo Venier
responsabile esteri del PdCI
IL BOMBARDAMENTO DI DRESDA
di PAOLO DEOTTO
Amburgo, ore 0.55 del 28 luglio 1943. "... Fu l'inizio di un nuovo attacco aereo. Il fosforo dilagò sull'asfalto. Bombe a benzina alzavano nell'aria fontane di fuoco alte venti metri. Fosforo già incendiato si riversò sulle rovine come un violento acquazzone. Sibilava e turbinava come un ciclone. Bombe più grosse e potenti sollevarono letteralmente in aria intere case.... Le persone uscivano urlanti dalle rovine. Torce viventi vacillavano e cadevano, si rialzavano e correvano sempre più in fretta... Alcuni bruciavano con fiamme biancastre, altri avvolti da fiamme di un rosso acceso. Alcuni si consumavano lentamente in una incandescenza giallo - blu, altri morivano in modo rapido e pietoso. Ma altri ancora correvano in circolo, o si agitavano a gambe all'aria, sbattendo la testa avanti e indietro e contorcendosi come serpi prima di ridursi a piccoli fantocci carbonizzati. Tuttavia alcuni erano ancora vivi... Il sergente, sempre così calmo, perse per la prima volta il controllo da quando lo conoscevamo. Proruppe in un acuto grido: 'Fateli fuori, per Dio, accoppateli'... Sembra brutale. Era brutale. Ma meglio una morte rapida, data con un colpo di pistola, che una lenta, mostruosa agonia. Nessuno di loro aveva la minima possibilità di salvezza"
(da Germania Kaputt , di Sven Hassel - Ed. Longanesi, Milano).

Per parlarvi di Dresda e del suo martirio abbiamo preferito parlarvi prima di Amburgo, perché fu in questa città che, come vedremo, per la prima volta si sviluppò una tecnica distruttiva che prese il nome di Feuersturm , tempesta di fuoco. Ad Amburgo successe per caso, un caso che fu studiato e analizzato, per essere poi applicato scientificamente sulla città di Dresda.
E abbiamo voluto aprire il nostro studio con le parole di Sven Hassel, soldato di un reggimento corazzato di disciplina, che combatté su quasi tutti i fronti in cui fu impegnata la Germania e lasciò, coi suoi libri, una testimonianza impressionante. I libri di Sven Hassel furono definiti, anni fa, da un critico, libri di "bassa macelleria". E' verissimo, ma altro non potevano essere, dati gli argomenti.
Sono gli stessi argomenti che tratteremo in questo lavoro. E' una specie di discesa nell'orrore che non si vorrebbe mai percorrere, ma che non si può evitare, se si vuole fare della Storia e non dell'iconografia, in cui quelli che vincono sono i buoni.
Dresda era, in assoluto, la più bella e romantica città della Germania, e una delle più belle e romantiche d'Europa. Aveva scorci di grande suggestione, palazzi barocchi e rococò, piccole case di legno e mattoni fulvi che risalivano al medioevo gotico, vicoli punteggiati di taverne e birrerie senza tempo. Priva di industrie primarie, Dresda viveva una vita culturale intensa e cosmopolita. Apparteneva al mondo, non solo alla Germania, e tanto meno alla Germania nazista.
La distruzione arrivò su questa città nel febbraio del 45, quando le sorti della guerra erano ormai segnate. Un uomo che senza dubbio la sapeva lunga, l'architetto Albert Speer, ministro tedesco degli armamenti e della produzione bellica, eccezionale organizzatore, grande amico di Hitler, non ebbe timori ad inviare a quest'ultimo, alla fine di gennaio del 45, un memorandum in cui prevedeva per la Germania la possibilità di resistere ancora per otto settimane. Sbagliava solo di un mese.
Dobbiamo perciò cercare di capire perché una città che era considerata un vero gioiello, che non aveva impianti industriale essenziali per la produzione bellica, che non rivestiva alcuna importanza sotto l'aspetto strategico, conobbe il più crudele attacco aereo di tutta la Seconda Guerra mondiale, effettuato oltretutto quando la sua popolazione, di circa 630.000 abitanti, era raddoppiata per la grande affluenza di profughi che provenivano dalla Slesia, dalla Pomerania Orientale e dalla Prussia, incalzati dall'Armata Rossa.
Ma prima di fare ciò, cerchiamo di chiarire in cosa consista il fenomeno fisico, di spaventosi effetti distruttivi, che passò alla Storia con il nome di "tempesta di fuoco". Dobbiamo tornare ad Amburgo, la città che ebbe l'indesiderabile onore di sperimentare per prima questo fenomeno.
Amburgo era un obiettivo militare primario; su questo punto non vi era discussione. La presenza dei cantieri che producevano quasi la metà dei sommergibili tedeschi basterebbe già a giustificare questa qualifica; ma Amburgo possedeva anche molte industrie pesanti, in massima parte collegate agli armamenti di terra, ed inoltre era anche un nodo vitale di comunicazioni. Il suo porto era il più attivo di tutta l'Europa continentale.
Il maresciallo dell'aria Sir Arthur Harris, comandante del Bomber Command della RAF (l'aeronautica britannica) non voleva correre rischi e pianificò una di quelle operazioni di massa che erano tipiche delle sue teorie militari, peraltro avvalorate dai risultati di terribili distruzioni già effettuate sulla Ruhr e su Aquisgrana. In quattro successive incursioni effettuate tra la notte del 24 e quella del 27 luglio 1943, 2.350 bombardieri inglesi e americani scaricarono complessivamente su Amburgo più di 9.000 tonnellate di bombe, di cui circa la metà incendiarie. I morti furono oltre 50.000.
La grande quantità di bombe incendiarie sganciate su un'area relativamente limitata e ricca di fabbricati addensati e infiammabili e la mancanza di vento naturale sulla zona, portarono alla formazione di una corrente ascensionale di aria calda di inaudita potenza e temperatura. L'aria surriscaldata, a temperature dai 600 fino a 1.000 gradi, saliva verso il cielo e l'aria fredda circostante si precipitava a colmare il vuoto lasciato a livello del suolo, surriscaldandosi a sua volta. Il fenomeno si esaurì in tre ore, durante le quali si generarono venti diretti verso il centro dell'immane fornace a velocità fino a 300 km/ora. Chi veniva ghermito da questo vento non poteva opporre alcuna resistenza, ed era scaraventato al centro della zona incendiata, a temperature che volatilizzavano tutto. Dove il soffio rovente era solo di 300-400 gradi furono ritrovati poi cadaveri carbonizzati ridotti a circa un metro di lunghezza. Via via che ci si allontanava dall'inferno la temperatura scendeva sui cento gradi e il vento non era più in grado di trascinare. Ma il calore eccessivo bruciava le vie respiratorie, uccidendo per soffocamento chi non era già morto nei rifugi per la mancanza di ossigeno causata dagli incendi. Infine, ci furono coloro che furono colpiti direttamente dagli schizzi del fosforo delle bombe incendiarie: pattuglie di soldati e poliziotti non poterono far altro che abbattere questi infelici per limitarne le sofferenze, come leggevamo in apertura, nell'impressionante testimonianza di Sven Hassel.
Lo spostamento d'aria causato dalla corrente ascensionale fu di tale potenza da far oscillare i bombardieri pesanti Lancaster ed Halifax che incrociavano a 5.000 metri di quota. Circa il 70% delle vittime di Amburgo furono causate dalla tempesta di fuoco. Un orrore che sembrava giustificare il nome dato in codice al bombardamento di Amburgo: operazione Gomorra.
Le bombe incendiarie potevano essere caricate a benzina, oppure a termite, un composto di ossido di ferro e alluminio granulare, in grado di sviluppare un calore che fonde il ferro, o infine di fosforo o di fosgene.
Lo sviluppo della tempesta di fuoco colse di sorpresa americani e britannici, ma quando ne fu chiara la meccanica Sir Harris, il già citato comandante del Bomber Command non si pose eccessivi problemi. Da tempo sosteneva la necessità di portare la maggior distruzione possibile sul suolo tedesco, per fiaccare la resistenza del popolo tedesco, oltre che per distruggere fabbriche ed impianti militari, e quindi il risultato della tempesta di fuoco fu per lui solo positivo. Il capolavoro di ipocrisia di questo alto ufficiale fu una dichiarazione secondo la quale egli riconosceva e rispettava l'unica convenzione internazionale in tema di guerra aerea, ossia quella stipulata dopo la Grande Guerra, che vietava il lancio di ordigni a gas da aerei e dirigibili. In effetti su Amburgo non fu lanciato alcun gas tossico: che bisogno ce ne sarebbe stato, lanciando già migliaia di tonnellate di esplosivi e di spezzoni incendiari?
Torniamo ora nel 1945; era il settimo anno in cui l'Europa era in guerra. Il mostro nazista era ormai vacillante, e leggevamo sopra la profezia del ministro tedesco Speer, che escludeva qualsiasi possibilità di vittoria e si limitava a calcolare il tempo che restava alla Germania prima di soccombere. Nel giugno dell'anno precedente la più grande operazione militare della Storia aveva visto gli alleati prender terra in Normandia e da lì iniziare a smantellare le resistenze della fortezza Europa. Da Est intanto le armate sovietiche andavano guadagnando terreno ed erano a soli centosessanta chilometri dal centro della Germania. Questo soprattutto terrorizzava le popolazioni tedesche, consce dei sentimenti dei russi che avevano sperimentato i comportamenti delle SS in territorio sovietico ed ora avanzavano in territorio tedesco con una sinistra scritta in cirillico sui carri armati: Vendetta!
In questo quadro di sfacelo generale la Germania mostrava però ancora doti di resistenza incredibile. Nel gennaio 1945 Goring riuscì ancora ad organizzare l'operazione Grande Colpo, che distrusse 196 aerei anglo-americani e ne danneggiò circa 400. bombardando campi di aviazione ormai stabilmente occupati dalla RAF e dall' USAAF in Francia, Belgio e Olanda. All'operazione parteciparono 800 aerei tedeschi, caccia Messerschmitt 109 e Focke Wulf 190, oltre a qualche caccia a reazione. Erano canti del cigno, come un canto del cigno fu anche la controffensiva terrestre condotta dal generale von Rundstedt. Ma erano comunque fatti d'armi che davano la sensazione agli alleati di una guerra senza fine, dal finale scontato, ma che rischiava di essere ancora troppo lontano.
In questo clima Dresda viveva in una specie di limbo. Non era mai stata toccata seriamente dalla guerra, sia per la posizione geografica sia perché non aveva né industrie né impianti militari rilevanti. Un solo bombardamento, nell'ottobre dell'anno precedente, aveva causato poco più di 400 morti, una cifra quasi irrisoria nella tragica contabilità bellica.
Nonostante l'affollamento di profughi di cui dicevamo, Dresda riusciva ad avere quantità di cibo abbastanza soddisfacenti. E molti profughi si dirigevano verso quella città proprio perché era ormai convinzione generale che fosse il posto in cui attendere la fine della guerra, nella speranza di veder arrivare gli americani, o gli inglesi, o i canadesi, o gli australiani, o chiunque fosse prima dei temutissimi soldati sovietici. Circolava addirittura la voce, del tutto priva di fondamento ma tanto bella da poterla credere vera, di un accordo segreto tra la RAF e la Luftwaffe: gli inglesi si impegnavano a non bombardare Dresda, e i tedeschi si impegnavano allo stesso modo per Oxford.
Del resto l'aviazione alleata continuava a martellare la Germania, nella quale ormai 45 delle principali città erano praticamente distrutte, ma lo faceva con una certa logica militare,colpendo le fabbriche di carburanti sintetici e le reti di trasporti. Gli obbiettivi principali del gennaio 1945 furono le raffinerie di Dortmund, il centro ferroviario di Vohwinkel, le industrie di Norimberga e Hannover.
A Dresda si poteva stare tranquilli, anche perché gli americani, più sensibili degli inglesi a considerazioni umanitarie non avrebbero mai accettato la distruzione di una città d'arte amata in tutto il mondo. Come l'accordo segreto tra RAF e Luftwafe, anche questa era una voce tanto infondata quanto bella da credere...
A Dresda si poteva quindi anche festeggiare il carnevale. Il 13 febbraio 1945 era martedì grasso, e la sera il Circo Sarassini aveva dato uno spettacolo speciale, al quale erano intervenuti anche tantissimi bambini, nei loro costumi carnevaleschi.
Purtroppo gli abitanti di Dresda non potevano sapere che il tempo delle considerazioni umanitarie, ma anche di quelle logiche, era passato. Diversi fattori concomitanti portarono al bombardamento della città capitale della Sassonia.
La resistenza della Germania, che aveva dell'incredibile, unita alla lunghissima durata della guerra, aveva di certo ormai portato ad una nausea psicologica anche i militari e i politici più ligi alle regole minime da rispettare anche in guerra. Ogni atto poteva essere buono per abbreviare la guerra, anche di un solo giorno. Crediamo sia legittimo affermare che lunghi anni a contatto continuo con morte e distruzione possano offuscare anche le menti più lucide. E infatti fin dall'estate dell'anno precedente RAF e USAAF avevano elaborato il piano Thunderclap (colpo di tuono), il cui scopo dichiarato era quello di portare il massimo del caos in Germania, con bombardamenti indiscriminati sulle città, in particolare approfittando dei problemi che già avevano le autorità tedesche per controllare le fiumane di profughi da Est, creando nuovi e irresolubili problemi di approvvigionamento e di ordine pubblico.
A questa visione distruttiva, sulla quale senza dubbio giocava il desiderio ormai incontrollabile di farla finita, si aggiungeva un'esigenza di cinica politica di potenza tra alleati. Inglesi e americani erano uniti in una innaturale alleanza con i sovietici, e la diffidenza reciproca si palesava sempre di più, ora che l'Armata Rossa avanzava sul territorio del Reich. I Russi dovevano vedere, bene e senza equivoci, quale fosse la potenza militare occidentale: quello che oggi poteva toccare a Berlino o a Dresda, domani poteva toccare a Mosca. Del resto i sovietici avevano già manifestato la loro contrarietà agli attacchi aerei su quelle zone della Germania che consideravano un loro territorio di caccia, e che sarebbero infatti, dopo la guerra, divenute la Repubblica Democratica Tedesca.
In questo dialogo insensato tra nemici che erano alleati solo perché c'era un nemico comune da distruggere, i cittadini di Dresda avrebbero presto pagato un conto che non era di loro competenza, vittime di cinismo e di quella malattia, lo ribadiamo, che aveva preso ormai gli alleati, anch'essi contagiati, al pari dei tedeschi, da una troppo lunga consuetudine con la morte e la distruzione.
E l'avallo alla politica del massacro fu data dallo stesso primo ministro inglese Churchill, in una nota scritta al ministro per l'Aviazione, Sir Archibald Sinclair. Gli americani furono presto contagiati da questo clima, e l'Ottava Armata Aerea americana bombardò a tappeto Berlino il 3 febbraio: 937 fortezze volanti, scortate da 613 caccia, causarono 25.000 morti in una città dove c'era da stupirsi che ci fossero ancora dei vivi da uccidere.
Alle ore 22.08 di martedì grasso, , le sirene di allarme aereo vennero a interrompere i clown che si stavano esibendo nel carosello finale allo spettacolo carnevalesco del Circo Sarassini. Gli spettatori si allontanarono in ordine e quasi svogliatamente: era così ferma la convinzione che Dresda fosse esente da pericoli, che tutticredevano ad un eccesso di zelo dei funzionari del partito incaricati della protezione della città. Del resto, non c'era praticamente contraerea a Dresda; gli ultimi cannoni da 88, il miglior pezzo di artiglieria tedesco, erano stati trasferiti da diverse settimane a est, per essere usati in funzione controcarro contro l'armata sovietica.
Ma non era un eccesso di zelo. Due soli minuti dopo il cielo incominciava ad affollarsi: i primi quadrimotori Lancaster dell'83° squadriglia inglese lasciavano cadere grappoli di bengala che illuminavano a giorno la città, poi seguirono pochi Mosquitos, agili cacciabombardieri il cui compito era quello di individuare con bombe segnaletiche rosse l'epicentro del bombardamento, lo stadio sportivo. I Mosquitos fecero egregiamente il loro compito: nel centro esatto dello stadio si levava ora una luminosissima colonna rossa. I bombardieri avevano il loro bersaglio.
Dalle 22.13 alle 22.30 i Lancaster scaricano sulla città le terribili bombe dirompenti da 1.800 e 3.600 libbre. Poi si allontanano in direzione di Strasburgo, volando bassi per sfuggire ai radar tedeschi. I soccorso iniziano ad affluire dalle città vicine, mentre gli abitanti escono lentamente dai rifugi. Erano quello che attendevano gli alleati: far uscire la gente, far arrivare i soccorsi, e tornare a colpire. Tecnica del massacro.
Ore 1.28 del 14 febbraio. La seconda ondata arriva, indisturbata come la prima. Altri 529 Lancaster portano nelle stive 650.000 bombe: per lo più sono tutti ordigni incendiari. E' l'inizio dell'inferno. Bombardando a destra e a sinistra delle zone già colpite dal primo attacco gli inglesi riescono a provocare la tempesta di fuoco. Dalle case già sventrate dalle bombe dirompenti viene aspirato ogni oggetto e ogni persona che si trovi nel primo chilometro dall'immane incendio. Si ripete Amburgo, ma questa volta scientificamente e con effetti enormemente superiori. Il vento a 300 km/ora trascina nella fornace ogni cosa, persona, animale. Persino vagoni ferroviari, distanti più di tre chilometri, vengono rovesciati. Il pilota di un Lancaster rimasto indietro racconterà: "C'era un mare di fuoco che secondo i miei calcoli copriva almeno un centinaio di chilometri quadrati. Il calore era tale che si sentiva fin nella carlinga; eravamo come soggiogati di fronte al terrificante incendio, pensando all'orrore che c'era là sotto... "
Chi non ha il coraggio di uscire dai rifugi dopo il primo attacco, non per questo si salva. Molti faranno la fine dei topi, soffocati nei rifugi, privi di ossigeno, divorato dall'immane rogo.
Nell'anno precedente nei rifugi antiaerei di Dresda era stata presa la precauzione di rendere abbattibile le pareti tra rifugio e rifugio, in modo da poter facilmente creare una sorta di galleria sotterranea, che permettesse una via di fuga se lo stabile sopra il rifugio in cui ci si trovava era crollato. Questa precauzione sarebbe stata efficace con un bombardamento ordinario, ma all'inferno di fuoco scatenato su Dresda non era opponibile nulla, se non il trovarsi a una distanza sufficiente per non essere trascinato dal vento e divorato dalle fiamme, o per non morire asfissiato per mancanza di ossigeno. Il bagliore della colonna di fuoco di Dresda era visibile a oltre trecento chilometri.
All'alba del 14 febbraio finalmente la tempesta di fuoco andava acquietandosi, mentre una colonna di fumo alta oltre cinque chilometri sovrastava la città. I sopravvissuti iniziavano ad aggirarsi inebetiti, ma il martirio non era ancora finito. Gli americani non potevano essere da meno degli inglesi: alle ore 12 di quel giorno 311 Fortezze Volanti B17 si presentarono nel cielo di Dresda, sganciando altre 771 tonnellate di bombe. Il nodo ferroviario era l'obiettivo ufficiale, ma di fatto il bombardamento fu eseguito a casaccio e causò pochi danni, perché ormai era rimasto poco da distruggere.
In totale su Dresda erano state sganciate 2.702 tonnellate di bombe. Un quantitativo non
enorme, se confrontato con quello lanciato su altre città tedesche. Ma la preferenza data alle bombe incendiarie, che rappresentarono circa il 70% degli ordigni lanciati, causò la più spaventosa tragedia della guerra: i morti accertati furono 135.000, ma il conto più accreditato fa salire a circa 200.000 il numero delle vittime. Bisogna tener conto del fatto che non era possibile alcuna opera di identificazione per le vittime di molti rifugi antiaerei che, per ragioni igieniche, vennero spianati con le ruspe e ricoperti di calce e cemento, così come non fu possibile accertare il numero preciso delle vittime aspirate dalla tempesta di fuoco nella zona centrale dell'incendio, perché di loro non restò assolutamente nulla. Nella zona intermedia, dove la temperatura aveva raggiunto i livelli da forno (200 - 300 gradi) molti corpi si erano fusi con l'asfalto delle strade. Dresda era anche sovrappopolata per il grande afflusso di profughi, moltissimi dei quali non ancora censiti.
Gli incendi proseguirono per altri cinque giorni, poi si spensero da soli. Non esisteva la possibilità di fare alcuna opera di spegnimento, essendo distrutte le reti idriche e quelle elettriche.
Per tre giorni le autorità chiusero il centro di Dresda e bruciarono i cadaveri che ancora non erano stati sepolti o interrati con calce e cemento. Il rischio di epidemie era troppo grande per dare spazio alla pietà per i defunti.
Questo fu Dresda: un orribile massacro, che non trovò alcuna giustificazione dal punto di vista militare. Fu il macabro record di disumanità, non eguagliato neanche dai bombardamenti atomici sul Giappone, che causarono "solo" 150.000 morti.
Con la follia nazista il mondo conobbe senza dubbio le mostruosità più atroci, e tutt'oggi ci interroghiamo per capire, se mai lo capiremo, fino a quali abissi può arrivare l'uomo.
Ma se l'abisso della crudeltà ci spaventa, non meno quello dell'ipocrisia ci lascia sgomenti.
Quando nell'ottobre del 46 la Corte Internazionale di Norimberga giudicò i caporioni nazisti colpevoli di crimini contro l'umanità, su quei giudici aleggiavano dei fantasmi: Erano le centinaia di migliaia di morti innocenti, che chiedevano una Giustizia che, evidentemente, non è di questo mondo.

Bibliografia

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Articolo apparso sul n. 267 di Cristianità

L’"Antonovscina", la rivolta anticomunista di Tambov
nella Russia degli anni 1920

1. Premessa

Dalla Vandea francese del secolo XVIII alla rivolta dei contadini messicani — i cristeros — negli anni 1920, a misura che la modernità politica si afferma e inizia a rimodellare le nazioni secondo la propria ideologia — prima illuminista e giacobina, quindi liberale, infine socialista e comunista — pressoché ovunque e quasi automaticamente si manifestano resistenze e moti di reazione delle quali sono protagonisti soprattutto i ceti popolari. Sconfitti storicamente, di questi movimenti si perde la memoria — la storia è perlopiù scritta dai vincitori — e i tentativi per ricuperarla si infrangono ancor oggi contro la mancanza di fonti — spesso distrutte — e contro il pervicace ostruzionismo del potere, del quale l’ideologia costituisce tuttora elemento primario di legittimazione.

 2. L’insorgenza russa

Ciò è particolarmente vero per quanto riguarda la resistenza popolare che si manifesta nel quadro della Rivoluzione comunista russa già all’indomani dell’Ottobre 1917. Su di essa non solo l’interpretazione, ma anche la semplice informazione storica — almeno al di fuori dell’ex Unione Sovietica — è assai carente (1).

La fisionomia di questa vicenda si può però ricostruire per sommi capi avvalendosi dei cenni, non episodici, che al tema fa Aleksandr Isaevic' Solz'enicyn — il grande scrittore russo, indomito oppositore del comunismo sovietico — nelle sue opere storico-letterarie.

Un iniziale squarcio di luce sulla vicenda si trova nel primo volume della trilogia Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa (2), allorché l’autore, nel tentativo di ricostruire le fonti dell’ininterrotto flusso di uomini — comunità, gruppi religiosi, categorie sociali, etnie intere — che, mentre il socialismo reale si afferma, va a popolare lo sterminato universo concentrazionario del regime, si imbatte — fra l’altro — nel fenomeno delle sommosse popolari contro la collettivizzazione forzata delle campagne negli anni dal 1918 al 1922.

"Se oggi riflettiamo sugli anni 1918-20 ci troviamo imbarazzati: dobbiamo includere — si domanda Solz'enicyn, sottolineando la durezza dello scontro e della repressione, nonché la cortina di silenzio calata sui fatti — nelle fiumane dei carcerati tutti coloro che furono fatti fuori senza che avessero raggiunto la cella? [...] Facevano in tempo a porre piede sulla terra dell’Arcipelago i cospiratori che prendevano parte ai complotti, scoperti a grappoli, in ogni governatorato il suo (due a Rjazan’, a Kostroma, Vysnevolock, Veliz, diversi a Kiev, diversi a Mosca, a Saratov, Cernigov, Astrachan’, Seliger, Smolensk, Bobrujsk, quello della cavalleria a Tambov, a Cembar, Velikie Luki, Mstislavl’, e altri), o non ne avevano il tempo e quindi non possono fare oggetto della nostra ricerca? A parte la repressione di alcune sommosse famose (di Jaroslavl’, Murom, Rybinsk, Arzamas), noi conosciamo certi eventi solo di nome" (3).

Il movente che spingeva i contadini a ribellarsi era triplice: la leva obbligatoria, le requisizioni forzate a vantaggio dell’Armata Rossa e l’ammasso coatto del raccolto nei depositi statali. "Da quell’estate [1920] la campagna, sforzandosi al di là delle proprie possibilità, consegnò il raccolto gratuitamente anno dopo anno. Questo provocò rivolte contadine e conseguenti loro repressioni e arresti. [...] Alla fine dello stesso anno avviene lo sgominamento preventivo della rivolta contadina di Tambov (in questo caso non vi fu processo)" (4).

Né mancavano motivazioni di difesa della libertà e delle tradizioni religiose. "Nel 1918, per accelerare anche la vittoria culturale della rivoluzione, si cominciò a sventrare e buttare via le spoglie mummificate dei santi e a confiscare gli arredi sacri. Sommosse popolari divamparono a difesa delle chiese e dei monasteri saccheggiati. Qua e là le campane suonavano a stormo e i credenti accorrevano, qualcuno munito di bastone. Naturalmente fu necessario liquidare qualcuno sul posto, arrestare altri" (5).

Solz'enicyn è tornato sul tema dell’insorgenza contadina russa durante la sua visita in Francia nel 1993 per partecipare alle celebrazioni dell’insurrezione vandeana. "Numerosi procedimenti crudeli della Rivoluzione francese — ha affermato in quella sede lo scrittore russo — sono stati docilmente applicati di nuovo sul corpo della Russia dai comunisti leniniani e dagli specialisti internazionalisti, soltanto il loro grado di organizzazione e il loro carattere sistematico hanno ampiamente superato quelli dei giacobini.

"Non abbiamo avuto un Termidoro, ma — e ne possiamo esser fieri nella nostra anima e nella nostra coscienza — abbiamo avuto la nostra Vandea, e più d’una. Sono le grandi rivolte contadine, quella di Tambov nel 1920-1921, della Siberia occidentale nel 1921. Un episodio ben noto: folle di contadini con calzature di tiglio, armate di bastoni e di forche hanno marciato su Tambov, al suono delle campane delle chiese del circondario, per essere falciati dalle mitragliatrici. L’insurrezione di Tambov è durata undici mesi, benché i comunisti per reprimerla abbiano usato carri armati, treni blindati, aerei, benché abbiano preso in ostaggio le famiglie dei rivoltosi e benché fossero sul punto di usare gas tossici. Abbiamo avuto anche una resistenza feroce al bolscevismo da parte dei cosacchi dell’Ural, del Don, del Kuban’, del Terek, soffocata in torrenti di sangue, un autentico genocidio" (6).

 3. Un nuovo contributo di Aleksandr I. Solz'enicyn

Nel 1995 lo scrittore russo, ormai quasi ottantenne — è nato nel 1918 — fornisce un ulteriore contributo con due brevi racconti — Ego e Per linee interne, tradotti in italiano sotto l’unico titolo di Ego (7) —, nei quali l’insorgenza contadina fa da sfondo, ma uno sfondo che balza spesso in primo piano. è la narrazione della vicenda umana di due figure, quella di un vinto della Contro-Rivoluzione — il personaggio di fantasia Pavel Vasilevic' Ektov, detto, per un malinteso mai volontariamente sciolto, "Ego" —, e, invece, di quella di un vincitore, un personaggio vero: il futuro conquistatore di Berlino, maresciallo ed eroe dell’URSS, Georgij Konstantinovic' Zukov (1896-1974).

 4. "Ego"

La rivolta evocata in entrambi i racconti è quella di Tambov e delle zone limitrofe — circa quattrocento chilometri a sud-est di Mosca, nella ricca regione agricola compresa fra i fiumi Don e Volga. Di essa, dopo esordi autocefali, prende la guida il socialrivoluzionario Aleksandr Stepanovic' Antonov (1885-1922), già oppositore del regime zarista e già in armi contro il governo sovietico. Alla rivolta — ricordata come l’Antonovscina — nel primo racconto (8) finisce per aderire, spinto da ragioni di giustizia, anche il mite intellettuale democratico ed esperto di problemi agrari Ektov. Nelle campagne le requisizioni forzate venivano condotte da reparti speciali dell’Armata Rossa — i cosiddetti "reparti alimentari" — e si traducevano spesso in razzie nei villaggi e in violenze di ogni tipo, talora concluse con la fucilazione di qualche contadino riottoso, per dare l’esempio. "I contadini li chiamavano "i Neri" (Celrnye), forse pensando al diavolo (cërt), o forse perché tra loro c’erano molti non-russi" (9). La rivolta nel dipartimento di Tambov scoppia così nell’agosto del 1919, senza alcun impulso o sostegno — come sottolinea lo scrittore — da parte del "[...] clero ortodosso, che "non è di questo mondo", che non si univa ai ribelli, non era il loro ispiratore, come era accaduto [in Vandea] per il combattivo clero cattolico; i preti se ne restavano prudentemente chiusi nelle loro parrocchie, nelle loro case, pur sapendo che i Rossi, se arrivavano, sarebbero stati comunque capacissimi di fracassare loro la testa. (Così, a Kamenka, il prete Michail Molc'anov fu ammazzato senza nessun motivo)" (10). "Non è facile, no davvero — osserva Solz'enicyn —, smuovere i contadini russi, ma quando la pasta fermenta e si gonfia, niente può più contenerla nei limiti della ragione" (11). Quindi, "muovendo da Knjaz'e-Bogorodickoe, sempre nel distretto di Tambov, una folla di contadini in calzari di tiglio, pervasa dal sacro fuoco della giustizia, si mosse per "prendere Tambov" con accette, forche da fieno e forchettoni da cucina: così, con le stesse forche, marciavano i loro avi al tempo dei tatari. Accompagnata dal suono delle campane dei villaggi che attraversava e crescendo lungo il cammino, la folla avanzò verso il capoluogo fino al villaggio di Kuz’mina Gat’, dove i malcapitati vennero falciati, senza potersi difendere, dalle mitragliatrici, e i sopravvissuti dispersi.

"Allora, come un incendio che corre da un tetto di paglia all’altro, l’insurrezione si propagò di colpo in tutto il distretto, estendendosi anche a quelli di Kirsanov e Borisoglebsk: dappertutto furono massacrati i comunisti locali (ci si misero anche le donne, coi falcetti), le sedi dei Soviet saccheggiate, le comuni e i sovchoz sciolti. I comunisti e gli attivisti scampati si rifugiarono a Tambov" (12). "Quanto a Pavel Vasil’evic', lasciò la città e partì alla ricerca del presunto centro dell’insurrezione.

"E lo trovò sotto una forma mobile — quella di un pugno di uomini raggruppati attorno ad Aleksandr Stepanovic' Antonov" (13). Benché privo di armi e di ufficiali adeguati, il movimento di Antonov conduce una vivace guerriglia partigiana, basata su rapidi e incisivi attacchi condotti dalla cavalleria — l’unica tattica in un terreno del tutto pianeggiante come le campagne di Tambov —, contro i bolscevichi. Al culmine del successo, la rivolta potrà schierare oltre dieci reggimenti di millecinquecento-duemila uomini ciascuno. I quadri sono costituiti da ex graduati della guerra mondiale, mentre nei ranghi figurano "[...] anche semplici contadini che fino al giorno prima conoscevano solo l’aratro di legno" (14). "In novembre Antonov marciò su Tambov col grosso delle forze creando grande scompiglio tra le autorità locali (le quali abbatterono querce centenarie per sbarrare le strade di accesso, installarono mitragliatrici sui campanili)" (15). Ma, "a venti verste da Tambov, a Podosklej-Roz'destvenskoe, gli insorti, dopo una grossa battaglia, dovettero battere in ritirata" (16). Nonostante la battuta d’arresto, l’afflusso di nuovi, più massicci rinforzi "rossi" e la tattica di occupazione militare del territorio utilizzata dai bolscevichi — inclusa la sistematica presa di ostaggi fra i familiari dei combattenti contro-rivoluzionari —, "[...] l’insurrezione non si placava. Benché, con l’avanzare dell’autunno e poi l’arrivo dell’inverno, per i partigiani diventasse sempre più difficile nascondersi e bivaccare, il numero dei loro reggimenti aumentava. Le requisizioni messe in atto dai reparti rossi e il puro e semplice saccheggio al quale si abbandonavano quando si spartivano sul posto, sotto gli occhi dei contadini, quello che avevano appena finito di requisire, percuotendo gli anziani o anche bruciando da cima a fondo il villaggio — come fecero ad Afanas’evka, a Babino, dove cacciarono vecchi e bambini nella neve, e si era all’inizio dell’inverno — tutto questo dava nuovo impulso al movimento insurrezionale" (17). Il racconto prosegue narrando come Pavel Vasil’evic' Ektov, infermatosi e ricoverato in una capanna di un villaggio, viene denunciato da una vicina e arrestato dalla Ceka, la "Commissione straordinaria per la lotta alla contro-rivoluzione e al sabotaggio", cioè la polizia politica comunista. Condotto a Mosca e sottoposto per quattro mesi a duri interrogatori e alla tortura, con la moglie e la figlioletta presi in ostaggio dai "rossi", "Ego", entrato nella rivolta per ragioni ideali, preso nell’ingranaggio, deve alla fine rinunciare alle sue convinzioni morali più profonde e accettare di fare il doppio gioco, collaborando a far infiltrare reparti "rossi" — "[...] uno squadrone: cavalieri che invece delle uniformi dell’Armata Rossa vestivano abiti contadini, però tutti con gli stivali. Berretti di montone, alti colbacchi. Alcuni, non tutti, sfoggiavano le bande rosse cosacche sui pantaloni" (18) — nelle file degli insorti di Antonov, per sbaragliare una delle ultime colonne ancora attive — la durezza della repressione bolscevica stava avendo ragione dell’Antonovscina —, quella comandata dai fratelli Mis'ka e Ivan Sergeevic' Matjuchin. A dispetto dei tentennamenti e dell’orrore per la violenza di Ektov l’impresa riesce e si conclude con il massacro dei capi e con la liquidazione dell’intero reparto di insorti anticomunisti — circa cinquecento uomini — mentre riposano in un dopocena nelle isbe di un villaggio. Antonov morirà in combattimento nel giugno del 1922.

5. "Per linee interne"

Nel secondo racconto, Per linee interne (19), nel quale il tema dell’insorgenza è meno centrale, Solz'enicyn rievoca invece la "prodigiosa ascesa" — e la successiva caduta in disgrazia — dell’eroe della "guerra patriottica" 1941-1945 ed eroe dell’Unione Sovietica, maresciallo Zukov. Nativo di Kaluga, a sud-est di Mosca, in una zona di insurrezioni contadine, cadetto destinato ai quadri superiori dell’esercito sovietico, egli costruisce la sua carriera proprio nella repressione dei movimenti popolari anticomunisti. Si era messo in luce dapprima nell’estate del 1920, quando ormai la guerra civile volgeva al termine — i generali "bianchi" erano stati sconfitti: l’ultimo era stato Anton Ivanovic' Denikin (1872-1947), mentre restava in armi il solo Petr Nikolaevic' Vrangel’ (1878-1928) —, contro i cosacchi del Kuban’, nel nord del Caucaso, all’altezza della Crimea. Poi, nel dicembre dello stesso anno, aveva combattuto nella provincia di Voronez, a sud-ovest di Tambov, contro la "banda" Kolesnikov. Nel febbraio del 1921 passa infine nella zona di Tambov — dove gli insorti, "[...] secondo il commissario del reggimento, alla fine di febbraio avevano messo insieme trentatremila baionette, ottomila sciabole, quattrocentosessanta mitragliatrici e sessanta cannoni" (20) — e partecipa con il suo squadrone di cavalleria all’offensiva contro gli ultimi fuochi dell’Antonovscina. Le operazioni militari sono condotte dai "rossi" con grande dispiegamento di mezzi moderni che vedono anche l’impiego dell’aviazione. Massacri sono commessi da entrambe le parti durante le rapide incursioni nei villaggi. La Ceka, dal canto suo, non sta con le mani in mano: a Zerdevka "avevano scavato una grande fossa, facevano sedere i condannati sul bordo, con la faccia rivolta allo scavo, le braccia legate. Subin [il capo dei cekisti] e i suoi aiutanti andavano avanti e indietro, sparando alla nuca" (21). "In maggio, a reprimere i banditi di Tambov venne da Mosca, con pieni poteri, una commissione del Comitato centrale esecutivo panrusso, capeggiata anch’essa da un Antonov, però Antonov-Ovseenko. A capo dell’Armata Speciale di Tambov arrivò il comandante d’armata Tuchacevskij, in precedenza comandante del fronte occidentale e reduce dalla resa dei conti con la Polonia" (22). Il famoso generale bolscevico Mihail Nikolaevic' Tuchac'evskij (1893-1937) — più prestigioso nella lotta contro i suoi compatrioti che contro il nemico esterno, essendo stato sconfitto pochi mesi prima sulla Vistola dai polacchi del maresciallo Jozef Pilsudski (1867-1935) — riorganizza e potenzia la repressione, e compie una mossa vincente dotando i reparti di apparecchi radiotrasmittenti, che accrescevano enormemente le possibilità di coordinamento fra le unità e vanificavano i movimenti di sganciamento della cavalleria antonoviana dopo ogni assalto. I "rossi" non esitano neppure davanti all’impiego dei gas tossici. Un’ordinanza segreta — la n. 0116 — del comandante d’armata nell’estate del 1921 recitava: "Ripulire le foreste dove si nascondono i banditi mediante gas tossici. Calcolare con esattezza che la nube di gas asfissianti arrivi ad espandersi in tutta la foresta, annientando tutto ciò che vi si nasconde. Il comandante Tuchac'evskij" (23).

Nella restante parte del racconto è descritta con fine ironia la carriera di Zukov all’interno dell’esercito e del partito comunista, sulla scia dell’impulso datogli dal prestigioso condottiero bolscevico. L’ascesa nei gradi, la sopravvivenza alle purghe staliniane della fine degli anni 1930, la guerra in Manciuria e poi contro la Finlandia nel 1939, l’ingresso nel comitato centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica e, soprattutto, la guerra contro la Germania hitleriana — in particolare, il successo nella difesa di Mosca nel 1941, il vittorioso assedio sostenuto a Leningrado, la prima controffensiva del dicembre 1942, la gigantesca battaglia di carri armati di Kursk nel 1943, infine, la travolgente avanzata prima nei Balcani e poi, attraverso la Polonia, verso la capitale del Reich e, da ultima, la conquista di Berlino, che costò all’Armata Rossa circa trecentomila caduti — ne sono le tappe fondamentali. Quest’ultimo successo segna l’apoteosi del piccolo comandante di cavalleria, vicino alla cinquantina, resosi famoso da giovane nella repressione dei suoi compatrioti anticomunisti. Tornata la pace e superata l’inimicizia del potente capo dell’NKVD — "Commissariato del Popolo degli Affari Interni" — staliniana Lavrenti Pavlovic' Berija (1899-1953), la carriera di Zukov proseguirà ancora fino al ruolo di ministro della Difesa dell’URSS sotto Nikita Sergeevic' Chruscev (1894-1971). Poi, all’inizio del 1958, improvvisa, avviene la caduta: la destituzione da ministro — durante un viaggio in Jugoslavia —, poi, a Mosca, l’espulsione dal Politbjuro e dal comitato centrale del PCUS, infine il pensionamento, a opera di Chruscev. La folgorante parabola del maresciallo — mette in luce Solz'enicyn — non è stata scevra di costi morali, nei quali egli non ha esitato per ambizione a incorrere, ma che alla fine, preso anch’egli nel meccanismo della storia e del potere ideologico, non gli varranno altro che un ozioso oblio, nel quale redigerà un libro di memorie (24), che verrà edito dieci anni più tardi, dopo mille vicissitudini dovute alle lotte di potere in URSS.

 

6. Conclusioni

Questo frammento di storia russa degli anni 1910-1920, ricuperabile grazie alla ricerca e alla pregevole narrativa di Solz'enicyn, aiuta senza dubbio a capire meglio come mai, quando le armate tedesche nel 1941 invaderanno l’URSS, gli eredi dei cosacchi e dei contadini, stanchi dell’ateismo e del collettivismo, le accoglieranno a braccia aperte, anzi si schiereranno al loro fianco contro il comune nemico bolscevico e solo a causa della cecità ideologica dei nazionalsocialisti non riusciranno a rovesciare il regime comunista, andando invece incontro all’autentico martirio del rimpatrio forzato al momento della sconfitta tedesca. Sotto un altro aspetto, questi sprazzi di luce fanno intravedere meglio i contorni di una realtà di gigantesche proporzioni, che merita di essere studiata e conosciuta non solo per amore di verità storica, ma anche per onorare la memoria dei protagonisti e delle vittime di una grande guerra pro aris et focis. "Non abbiamo avuto un Termidoro" — ha acutamente osservato nel 1993 lo scrittore russo nel discorso francese sopra citato —: quest’opera di ricerca e di pietà storiche è quindi tutta da compiere.

Sotto il profilo letterario — detto da semplice lettore e senza pretese "critiche" — noto che la ricchezza e la vivacità delle immagini, la straordinaria capacità di trasmettere al lettore atmosfere e sensazioni del paesaggio naturale e umano della vecchia Russia, l’acuta ricostruzione della psicologia dei personaggi, l’intenso ritmo narrativo rendono questi due schizzi letterari un pregevole esempio di letteratura storica, che non va mai a discapito della serietà della ricerca. Esempio che, anzi, dovrebbe essere valutato con grande cura da tanti che scrivono e di storia e di letteratura. A mio avviso rievocare una pagina dell’insorgenza russa, anche nei termini descritti, costituisce già un degno, se pur minimo, monumento alla memoria di quanti hanno speso la loro vita nella resistenza contro il comunismo.

Oscar Sanguinetti

 

(1) Cfr. William H. Chamberlin, Storia della rivoluzione russa, trad. it., Einaudi, Torino 1942, vol. I, La rivolta contadina, pp. 329-352, e vol. II, Denikìn e la Vandea cosacca, pp. 183-204; Paolo Vita-Finzi, Terra e libertà in Russia ieri e oggi, Pan Editrice, Milano 1972; Mihail Geller e Aleksandr Nekric', Storia dell’URSS dal 1917 a oggi. L’utopia al potere, trad. it., Rizzoli, Milano 1984, pp. 107-119; W. Bruce Lincoln, I Bianchi e i Rossi. Storia della guerra civile russa, trad. it., Mondadori, Milano 1994; Alain Besançon, La guerra dei bolscevichi contro i contadini, in AA. VV., La Vandea, trad. it., Corbaccio, Milano 1995, pp. 205-210; M. Heller [Geller], La Rivoluzione russa nello specchio della Vandea, ibid., pp. 219-233; e Renato Cirelli, La guerra civile russa (1917-1920), in IDIS. Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale, Voci per un "Dizionario del Pensiero Forte", a cura di Giovanni Cantoni, con una presentazione di Gennaro Malgieri, Cristianità, Piacenza 1997, pp. 209-214. Maggiormente focalizzato sul massacro dei contadini detti kulaki degli anni 1930, cfr. Robert Conquest, The Harvest of Sorrow, Oxford University Press, New York 1986.

(2) Cfr. Aleksandr Isaevic' Solz'enicyn, Arcipelago GULag. 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa, trad. it., 2a ed., 3 voll. in 6 tomi, Mondadori, Milano 1995.

(3) Ibid., vol. I, pp. 44-45.

(4) Ibid., p. 49.

(5) Ibid., p. 44.

(6) Idem, Discorso di Les Lucs-sur-Boulogne, del 25-9-1993, trad. it., Onore alla memoria della resistenza e del sacrificio degl’insorti vandeani del 1793 contro la Rivoluzione, in Cristianità, anno XXI, ottobre 1993, n. 222, pp. 13-14, trascritto — rivedendo il testo sulla base dell’originale in russo — come Discorso sulla Vandea, in Idem, La verità è amara. Scritti, discorsi e interviste (1974-1995), con un saggio introduttivo di Aldo Ferrari, Minchella, Milano 1995, pp. 159-162 (pp. 161-162).
Con "Termidoro" lo scrittore russo intende il 9 termidoro dell’anno II, ovvero il 27 luglio 1794, data in cui Maximilien de Robespierre (1758-1794) cade in disgrazia, nonché il periodo di governo rivoluzionario successivo al Terrore, retto dal Comitato di Salute Pubblica. Spesso si ritiene che il Termidoro sia stata un sorta di "reazione" radicalmente opposta al Terrore giacobino. In realtà, anche se le misure terroristiche vengono in parte attenuate e ritirate dai membri della Convenzione Nazionale — l’organo legislativo e costituente —, si tratta piuttosto di un rallentamento della marcia rivoluzionaria che non di un suo vero mutamento, a fronte di un paese esaurito dalla furia omicida e distruttrice del Comitato di Salute Pubblica, nonché di un capitolo di una feroce lotta di potere ai vertici. Ciò nonostante, il Termidoro permise di far luce su certi crimini robespierriani e di fermare il genocidio della Vandea Militare. Come una sorta di destalinizzazione chrusceviana ante litteram, anche la cosiddetta "reazione termidoriana" ha le sue "invasioni d’Ungheria". Sul punto, sono illuminanti le considerazioni di Reynald Secher, Dal genocidio vandeano al "memoricidio", intervista a cura di Marco Respinti, in Cristianità, anno XXI, n. 224, dicembre 1993, pp. 5-16 (p.12). Cfr. anche la voce Reazione termidoriana in Jean Tulard, Jean-François Fayard e Albert Fierro, Dizionario storico della Rivoluzione francese, trad. it., Ponte alle Grazie, Firenze 1989, p. 841: "Questa denominazione è del tutto aberrante ed è stata inventata dagli storici favorevoli al terrore. Alla caduta di Robespierre non vi fu nessuna "reazione". Il potere restò nelle mani di regicidi, repubblicani, ex terroristi che si limitarono a porre fine alle esecuzioni in massa del Gran Terrore. La ghigliottina continuò a funzionare, solo con minore frequenza, le teste dei sostenitori di Robespierre caddero, ma continuarono a cadere anche quelle dei preti refrattari e dei fautori della monarchia. La linea politica dei Termidoriani corrisponde al sogno di [Georges-Jacques] Danton [1759-1794]: una repubblica rigorosa ma moderatamente repressiva. La presenza della gioventù dorata, chiassosa ma priva di potere politico, non è sufficiente per trasformare i Termidoriani in reazionari che volevano restaurare la monarchia".

(7) Cfr. Idem, Ego, trad. it. di Sergio Rapetti, Einaudi, Torino 1996, con Note del Traduttore.

(8) Cfr. Idem, Ego, ibid., pp. 1-42.

(9) Ibid., p. 7.

(10) Ibid., p. 18.

(11) Ibid., p. 10.

(12) Ibid., pp. 10-11.

(13) Ibid., p.12.

(14) Ibid., p.17.

(15) Ibidem.

(16) Ibid., p. 18.

(17) Ibid., p. 23.

(18) Ibid., p. 35.

(19) Cfr. Idem, Per linee interne, ibid., pp. 43-102

(20) Ibid., p. 47.

(21) Ibid., p. 53.

(22) Ibidem.

(23) Ibid., p. 60.

(24) Cfr. Georgij Konstantinovic' Zukov, Memorie e battaglie, trad. it., Rizzoli, Milano 1970.

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Aggiornato il: 26-02-06